Nel bagno di quel ristorante aleggiava l’ odore del
detergente e dello scadente sapone che avevano usato per riempire le vaschette
accanto ai lavandini.
Anche con la porta chiusa poteva sentire in lontananza il
rumore delle posate contro la porcellana e le voci concitate dei clienti.
Con la mano tremante aprì la porta del gabinetto delle
signore chiudendosi dentro.
La serratura fece un sonoro clack cambiando la scritta sopra la toppa del bagno da libero ad
occupato.
Stette per qualche secondo ad osservare le mattonelle di un
bianco sporco che ricoprivano fino ad un metro e mezzo il muro fregiato dalle
scritte a pennarello del piccolo WC, nonostante l’ odore di candeggina
così forte la sporcizia era visibile ad occhio nudo, tanto che potè distinguere
la maggior parte dell’ impronta di scarpe che aveva attraversato il
pavimento diventato marroncino.
La mano che era ancora appoggiata sulla maniglia ebbe un
tremito più forte, prima di scivolare lungo i fianchi coperti dai stretti
jeans.
Il torace iniziò ad essere scosso da dei piccoli sussulti
trattenuti a stento, non aveva ne la volontà ne la forza di fermarli.
Intanto le gocce di acqua che cadevano dalla bocca del
rubinetto creavano un rumore sordo, che rompeva il silenzio della stanza, quel
rumore, le sembrava quasi assordante.
Scivolò sulla parete piastrellata, ignorando il lerciume,
cadendo a sedere sul freddo pavimento.
Si strinse le ginocchia al petto cercando di riscaldarsi da
quel freddo che l’ aveva pervasa così all’ improvviso, sotto la
maglietta viola a maniche lunghe, il torace tremava trattenendo i singhiozzi.
Ed intanto, l’ acqua del lavandino cadeva.
I lunghi capelli rosa le ricaddero sul volto, pallido ma
arrossato dal freddo, impedendo a chiunque l’ avesse potuta vedere dallo
spioncino della serratura di capire cosa stesse facendo.
Le lunghe dita affusolate della mano sinistra stringevano convulsamente
la stoffa della maglia, troppo leggera per un’ inverno così rigido,
mentre quelle della sinistra frugavano nella tasca dei jeans in cerca del
pacchetto di sigarette, comprato quel pomeriggio.
Dentro al pacchetto le sigarette si muovevano scontrandosi
con il cartone, mentre la mano le oscillava per i singulti trattenuti a stento.
Lo aprì, gettando poi il pacchetto pieno per metà a terra,
portandosi il bastoncino di tabacco alle labbra carnose, rese rosate dal
lucidalabbra semi trasparente.
Iniziò a cercare l’ accendino, lo tirò fuori girando
la rotellina che avrebbe dovuto accendere la fiamma, ma che non lo fece.
Ci provò una, due, tre volte ma solo delle piccole scintille
scaturirono dal piccolo buco.
Era finito.
Lo buttò con forza nella parete opposta portandosi indietro
i capelli con entrambi le mani, i denti che serravano la presa sulla cicca
ancora intera.
Chiuse gli occhi contornati da una leggera linea di matita e
dal mascara, dalle iridi verdi iniziarono a scendere delle gocce di acqua
salate facendo colare il tratto nero, che prima di uscire si era tanto
premurata di curare.
Le lacrime divennero nere mentre le scendevano sulle guance,
poi successivamente sul mento.
Adesso gemeva senza ritegno, incurante di orecchie
invadenti, ora aveva solo bisogno di sfogare quel dolore che per sedici anni si
era portata come un gravante peso sulle spalle.
La sigaretta cadde a terra spezzata dalla presa troppo forte
dei denti, l’ interno della cicca si sparse a terra sporcando ulteriormente
il suolo.
Alzò il viso verso la luce che illuminava la piccola stanza
facendo ricadere indietro le lunghe ciocche, quella luce le sembrava quasi troppo
forte, ma non riusciva a distoglierne lo sguardo sperando che illuminasse anche
la sua vita.
Sentì la porta d’ ingresso del bagno aprirsi, rompendo
il silenzio con piccole risatine civettuole che conosceva fin troppo bene, si
tappò la bocca soffocando l’ ennesimo singhiozzo.
< Sakura! Allora? Quanto ti ci vuole a fumarti una
sigaretta?! > le urlò una voce femminile al di là della porta, che Sakura
riconobbe come quella di Karin.
Prese un bel respiro tentando di non farle sembrare di aver
appena finito di piangere, quando fu sicura che la voce non fosse rotta dall’
emozione riuscì a trovare la forza di risponderle.
< Arrivo subito Karin, mi mancano gli ultimi tiri…
> le mentì alzandosi in piedi.
< Muoviti che le pizze sono già in tavola > aggiunse
la voce di un’ altra ragazza, meno gracchiante della prima, questa invece
era Tayuya.
< Scusate… > le disse con un filo di voce,
mentre raccoglieva la sua roba e la rimetteva in tasca.
Sentì di nuovo la porta aprirsi e successivamente
richiudersi dietro alle due, strappò dei pezzi di carta igienica aprendo la
porta rivestita dalla plastica.
Si diresse davanti allo specchio sopra i lavandini, gli
occhi chiari e arrossati per il pianto erano contornati da un’ alone
scuro lasciato dal mascara e dal dolore.
Iniziò a pulirsi il volto con la carta ruvida e grigia,
arrossando ulteriormente la pelle delle palpebre.
Osservandosi con occhio critico allo specchio si accorse di
come fosse patetica, piangere di nascosto, per problemi che nemmeno lei
ammetteva di avere.
Disperarsi per una vita di rimpianti e di tristezza.
Le unghie laccate di nero incisero dei piccoli segni sul
palmo della mano che stringeva il pezzo di carta.
Nonostante cercasse di essere gentile, malgrado sorridesse
anche a chi non lo meritava, veniva trattata con freddezza, a volte ignorata,
altre volte ancora derisa alle spalle.
Ma lei continuava a sorridere.
Mascherava i suoi problemi dietro ad un sorriso, non voleva
mostrarsi debole, non voleva far carico dei suoi problemi gli altri.
Trattando con gentilezza gli altri si aspettava di riceverne
altrettanta, aiutando gli altri si aspettava di ricevere lo stesso trattamento,
questo solo perché era un’ ipocrita, ed un’ incorreggibile egoista.
Se Sakura si fosse descritta con tre parole sarebbero state
tutte negative, ed inevitabilmente vere – almeno per lei - : ipocrita,
egoista e falsa.
Dipendeva dal giudizio degli altri e faceva di tutto per
assecondarli, sperando che la stimassero e che fossero sue amiche, amiche vere.
Ma lei non ne aveva. E se le aveva, era troppo cieca per
vederle. Era accecata dall’ angoscia.
Assicurandosi che le prove del recente pianto fossero
sparite riaprì la porta, ritrovandosi davanti all’ accogliente e vivace
ristorante, dove avevano deciso di festeggiare il compleanno di Ino.
Si fece largo fra i tavoli, salendo sulla saletta a terrazza
che avevano noleggiato per quella sera.
Quando si fu seduta al suo posto – a capotavola,
lontano da quelle che per lei erano amiche – ascoltò i loro discorsi
senza però intromettersi, anche se lo avrebbe fatto, sarebbe stata ignorata.
Abbassò lo sguardo sulla pizza, l’ aspetto non era per
niente invitante, la crosta era nera e bruciata, la pasta era troppo fine e la
mozzarella di un colore giallastro poco invitante.
Di certo quella, non era la sua serata.
Invece le altre non ci fecero nemmeno caso, continuavano a
parlare, scherzare, ridere e bere le proprie birre senza far caso a lei. Che in
quella tavola affollata, era sola.
Le sue labbra si curvarono in un sorriso, falso ma nascosto
bene, molto bene.
Non doveva rovinare quella sera, era il compleanno di Ino, l’
aveva invitata e non poteva rovinargli quella serata, che per lei era speciale.
Diciassette anni si compiono una volta nella vita.
< Sakura, va tutto bene? > le domandò Ino dall’
altra parte del tavolo, dopo aver notato di nuovo la sua presenza e il suo
silenzio.
La ragazza rialzò lo sguardo dalla pizza margherita
rivolgendo alla Yamanaka un sorriso allegro, socchiudendo gli occhi che le
stavano diventando lucidi.
< Certo Ino-pig > ci scherzò su.
La bionda le diede un’ ultima sorridente occhiata,
prima di sventolare i suoi lunghi e lisci capelli biondi di cui andava fiera,
tornando a chiacchierare.
Pian piano il sorriso sulle sue labbra sparì, ma nessuno lo
notò.
N/A: Questa è una fanfiction che
rispecchia ciò che mi è successo, o almeno quello che è nel primo capitolo, per
il seguito… bhè… ancora non lo so… Mi dispiace che il capitolo sia corto, ma i
prossimi saranno più lunghi. Baci