Ciao a tutti! Vi ricordate di me? Sono passati sei mesi dalla
pubblicazione della mia ultima fanfiction su card
captor sakura e, sinceramente, non pensavo ke si sarebbero ricreati i presupposti per scriverne
un’altra della medesima serie.
L’ispirazione è giunta improvvisamente, anke a seguito del concorso indetto da Erica, dove -con mia
somma sorpresa ed entusiasmo- questa fanfiction si è
classificata 2˚.
È una oneshot “innovativa”: stranamente non mi sono divertita a
rendere difficile la vita a Sakura (cm mio solito), ma qui il punto di vista è interamente
di un altro personaggio, che io adoro.
Giudicate voi il risultato!
Inoltre, vorrei fare un ringraziamento speciale a Lady Antares Degona e a Nihal per il supporto!
^-^
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Quando i ciliegi
fioriranno…
Lei sorrideva sempre.
Le veniva spontaneo.
Viveva per regalare un sorriso a chi le stava vicino.
Lui aveva sempre il broncio.
Sembrava che ce l’avesse con il
mondo.
Il suo sguardo serio e circospetto ostentava finta
indifferenza.
Due caratteri completamente diversi, due vite simili, una stessa missione.
Ma, col tempo, inspiegabilmente
qualcosa cambiò e quegli sguardi non espressero più timidezza, ingenuità, odio o
rancore.
Rivalità. Amicizia. Amore.
E, in mezzo al viale costeggiato dai
ciliegi, due cuori capirono che non sarebbero più stati soli.
***
“Vuole un’altra tazza di tè, signorino?” La voce del
maggiordomo riecheggiò nello sfarzoso salone della villa Fa.
“Sì, grazie.” Rispose computo. Il servitore si avvicinò,
sorreggendo un’elegante teiera, decorata con graziosi motivi geometrici, e
riempì la tazza di porcellana bianca con il caldo liquido dorato.
Il ragazzo si scostò dagli occhi color nocciola una ciocca
impertinente di capelli castani, che cadde all’indietro, facendo risaltare
ancora di più i lineamenti del giovane viso, pressoché diciottenne. Apaticamente
prese una zolletta di zucchero e la gettò nella sua tazza. La osservò toccare il
fondo e sciogliersi a poco a poco. Rigirò il liquido col cucchiaino e lo scrutò
ruotare in senso orario lungo i bordi della tazza, trascinando, insieme agli
ultimi granelli di zucchero, il turbinio dei suoi pensieri.
Riportò stancamente gli occhi attorno alla stanza, cercando
ossessivamente qualcosa che potesse mascherare il suo stato d’animo, qualsiasi
cosa che lo distraesse da quelle insicurezze che
esteriormente lo facevano supporre quieto.
Ma era solo una ben celata
finzione.
“E lei, signorina Meiling?” chiese di nuovo il maggiordomo. Questa volta
rivolse un cenno alla ragazza mora alla sua sinistra.
“No, grazie Wei.” Rispose lei con un cortese sorriso.
Il maggiordomo uscì dalla stanza, accostando lievemente la
porta e lasciando soli i due giovani.
Una volta che il silenzio ebbe invaso la sala, la mora
ritornò alla sua precedente attività. Scrutava il ragazzo, in
silenzio, intenta a cogliere il momento più opportuno per dare sfogo alle
sue domande. Sapeva che non sarebbe riuscita a trattenersi ancora per molto.
La parola contegno
faceva a pugni con il suo carattere vivace ed incontenibile.
Aspettò che il castano consumasse l’ultimo sorso di tè e
posasse la tazza sul tavolo.
“E così oggi parti?” chiese
titubante.
“Già.” ribadì impassibile. I
lineamenti del suo viso non lasciavano trasparire alcun tipo d’emozione.
D’altronde, era già un fatto risaputo che quel giorno lui
sarebbe partito. Era già stato tutto stabilito e lui non era tenuto a dare ulteriori spiegazioni. Neppure a lei.
“A che ora prenderai l’aereo?”
“Alle 10.”
“Mi mancherai!”
“…”
Silenzio. Ma, anche se il giovane
scoraggiava qualsiasi tentativo di una conversazione civile, lei non si diede
per vinta. Con più energia tornò a fronteggiarlo.
“Sei proprio sicuro della tua
decisione?” buttò lì le parole. Quante volte gli aveva rivolto quella domanda?
Forse una di troppo. Se n’accorse troppo tardi, pentendosi
dell’eccessiva mancanza di tatto e della sua parlantina eloquente.
Arrossì, abbassando timida lo sguardo e temendo un qualche disappunto da parte
di lui.
Lui ruotò il capo, quel poco che bastava per guardarla.
Sembrava volesse scrutarla, spogliarla dei suoi pensieri. Erano così profondi e
intensi i suoi occhi, che a volte neppure lei riusciva a sostenere il suo
sguardo. Parevano un enorme lago ambrato, pacato, una
distesa incommensurabile.
Ma, a differenza dei laghi, anche se
in superficie erano calmi, in profondità erano messi in subbuglio dal tumulto
dei sentimenti.
“Ne abbiamo già parlato o sbaglio?”
si limitò a rispondere sbrigativo.
Irremovibile dalla sua decisione, spostò di nuovo lo sguardo
sul fondo lucido della tazza, ormai vuoto.
Vuoto come i suoi occhi.
Vuoto come la sua vita.
Vuoto come la sua anima. Da ormai tre anni. Senza di
lei.
Guardò di sottecchi Meiling. Stava
osservando i ricami in pizzo della tovaglia e contemporaneamente le sue dita
giocherellavano con una ciocca corvina di capelli.
Ripensandoci, forse era stato troppo scortese con lei. In
fondo, una risposta plausibile gliela doveva. Anche se, di sicuro, a nessuno era
sfuggito il vero motivo per cui lui ritornava in
Giappone.
Specialmente a lei.
“Ormai non sono più sicuro di niente. Non so nemmeno cosa
voglio fare della mia vita. In confronto a quello che ho passato in questi
ultimi anni, i tempi della cattura delle carte di Clow
erano bazzecole.
Ma, se c’è una cosa di cui sono
veramente convinto, è proprio questa. Penso sia la soluzione migliore per tutti.
Non posso più vivere nei ricordi, non posso più avere
rimpianti. Ho bisogno di cambiare, di liberarmi dagli obblighi, dai vincoli del
passato. Questa è l’unica cosa che mi rimane.”
Disse, senza essere stato ulteriormente interpellato dalla
ragazza.
Lei lo guardò sorpresa e le sue guance riacquistarono un po’
del colorito usuale.
“Capisco…” si limitò a rispondere, facendosi di nuovo cupa.
Solo lei poteva immaginare quanto lui avesse sofferto in quegli anni.
Solo lei gli era stata vicino e l’aveva aiutato a svolgere le
mansioni di casa.
Solo lei l’aveva visto piangere il giorno del funerale.
E pensare che proprio lei, fin da
piccola, era destinata a diventare la signora Li!
Come si erano svolti stranamente gli
eventi!
Loro due erano stati promessi fin da piccoli.
Lei l’aveva amato da subito, aveva
amato quel bambino col broncio e lo sguardo diffidente.
Ma lui… lui si era innamorato di
un’altra.
Forse il destino con loro aveva sbagliato tutto fin
dall’inizio.
Il suo cuore avrebbe sempre avuto un posto importante per
lei, ma non sarebbe mai stato suo.
Quella ferita era ancora aperta,
pulsava.
Lui l’avrebbe lasciata sola, tutti quelli a cui voleva bene
l’avrebbero lasciata sola.
Se ne sarebbero andati piano, in punta di piedi, senza far
rumore.
E lei sarebbe rimasta sola, con la
sola compagnia delle sue lacrime.
Ma di questo non ne faceva un
dramma. Nonostante ciò, era felice per lui e per la
vita che avrebbe avuto oltreoceano. Sperava davvero che potesse tornare di nuovo
a vivere.
A vivere con accanto una persona che
purtroppo non era lei.
“Quando arriverai in Giappone,
ricordati di porgerle i miei
saluti.”.
Era un augurio nato dal più profondo del
cuore, ma chissà perché a lei parve di percepire una nota di malinconia
nella sua stessa voce.
“Sei davvero convinta che la rivedrò?” chiese sarcastico.
Anche le sue parole celavano
pungente malinconia. E paura di scoprire quanto le sue speranze fossero incerte.
La mora fece finta di riflettere, per farlo rimanere un po’ in sospeso.
“No, non ne sono sicura. Ne sono certa!”
Gli sorrise per rassicurarlo,
sperando che lui le rivolgesse qualche ultima attenzione. Ma egli, immobile, attonito, continuò a tenere gli occhi
fissi sul fondo albeggiante della tazza.
Non le rispose [e mai le avrebbe risposto, ormai lo sapeva!], ma le sembrò di vedere il labbro inferiore di lui
piegarsi impercettibilmente in un abbozzo di sorriso. Tuttavia, ripensandoci, si convinse del suo errore.
Lui non le aveva mai sorriso.
Lui non sorrideva
più da tre anni.
Durante tutto il tempo che lo aveva avuto accanto, l’aveva visto sorridere solo ad una persona. A lei.
Ma, mentre lo vedeva allontanarsi
lentamente dalla sala, pregò con tutto il cuore che in un giorno non molto
lontano avrebbe potuto sorridere di nuovo.
***
Le ultime valigie era adagiate sul
letto, aspettando di venire chiuse. La camera era quasi completamente spoglia. Sui muri intonacati, sbiaditi dal tempo, restavano i
segni lasciati dai mobili.
Le persiane, leggermente socchiuse, facevano entrare qualche
raggio di sole che si riversava sulla parete opposta, illuminando con la sua
debole luce un calendario, unico oggetto superstite della stanza. Si avvicinò al
muro e il suo sguardo si posò proprio su quest’ultimo, appeso alla parete.
4 Aprile: quella data era cerchiata con un pennarello
indelebile rosso. Accanto, una mano tremante aveva scribacchiato una piccola
nota del medesimo colore: “Giorno dei ciliegi”.
Inarcò il labbro
alla vista di quel nome.
Quanto aveva aspettato quel giorno! E, adesso che finalmente era arrivato, si sentiva in
colpa.
In colpa perché abbandonava tutto, per inseguire un amore
incerto.
Stava per lasciare quella che era stata la sua culla
d’infanzia, luogo che considerava apparentemente saldo e sicuro, ma non
abbastanza da impedire al dolore di assalire i membri della sua famiglia.
Richiuse con cura le valigie. Man mano che la cerniera
avanzava, incastrando i denti fra loro, gli sembrò sempre di più di rinchiudere
nel bagaglio, insieme ai numerosi oggetti, fra i quali spiccava un orsetto di
pezza, un frammento della sua vita. Vedeva tutti i momenti felici incastrarsi
come pezzi di un puzzle, sparpagliati poi dalla mano imprigionante del
destino.
Avrebbe voluto portare con sé la spensieratezza che da
piccolo circondava il suo focolare domestico. Avrebbe voluto scacciare tutta la
malinconia che aveva attirato verso di sé in quegli anni.
Avrebbe voluto tornare ai tempi in
cui le sue quattro sorelle vivevano ancora lì e sua madre non…
“Signorino, vuole che lo aiuti a chiudere i bagagli o posso
caricarli?” chiese Wein sulla soglia della porta.
“Come? Ah, sì… le valige. Caricale pure nella vettura.”
Il maggiordomo ubbidì all’istante. Lo vide afferrare due
grossi bauli di pelle e destreggiarsi giù dalla rampa di scale. Era sul punto di
raggiungerlo, ma inspiegabilmente si fermò ancora una volta sulla soglia della
porta. Gettò un’ultima occhiata alla stanza. Vuota, priva di ricordi, muta.
Chiusa una porta,
si apre un portone.
Chissà se per lui sarebbe stato così? Forse.
Quel che è certo è che lo avrebbe
saputo quello stesso giorno…
I muri dell’ingresso non udirono alcun saluto da parte del
loro proprietario. Percepirono solo il rumore sordo della chiave girare nella
toppa della serratura e un ticchettio di passi che lentamente si fece sempre più
stanco, fino a svanire, lasciando di nuovo posto al freddo silenzio.
Soltanto un calendario, dove ormai si rifletteva l’oscurità
della stanza, pareva voler troncare quella mesta
quiete. Presuntuoso, appeso al suo gancio malsicuro, sembrava che ne
sapesse più degli altri. Dal suo piccolo luogo appartato, pareva voler
raccontare a tutti una verità lampante e al tempo
stesso impensata, una storia d’amore e di speranza.
I muri della stanza udirono ancora un rumore sordo. Poi fu di
nuovo silenzio. Solo silenzio.
Sul pavimento marmoreo giacevano un gancio rotto e un
calendario che, segnato con un cerchio rosso, era divenuto un tutt’uno con
l’oscurità della stanza.
***
Si trascinò lentamente al piano terra, osservando con infinita attenzione tutti i particolari della casa. Si
sorprese come, in quasi 18 anni di permanenza, gli fossero sempre sfuggiti
piccoli e non pochi dettagli. Non aveva mai fatto caso
alla crepa sulla colonna, all’incrinatura particolare di un quadro che neanche
ricordava. Si soffermò ad analizzare le mattonelle regolari incastrate perfettamente fra loro e i gradini della scala non
gli erano mai sembrati così bassi.
Questi particolari, inezie, attimi di vita vissuta, erano
rimasti nella sua memoria di bambino, intoccabili,
immutabili, nell’ordine che lui stesso aveva stabilito, protetti da un muro
invalicabile. Era triste ammettere che molte cose che lui credeva di conoscere, non erano in
realtà come se le era sempre immaginate.
Accanto al portone d’ingresso trovò ad aspettarlo Meiling.
Si fermò. La figura alta ed esile di lei era appoggiata alla
parete. Il kimono bianco la faceva risaltare ancora di più nella penombra della
stanza.
I suoi occhi… che espressione avevano i suoi occhi? Sembravano due sfere scure, pallide, inanimate.
Erano offuscati dalla poca luce della stanza o riflettevano l’oscurità che aveva
dentro?
Poiché lei indugiava, prigioniera delle sue congetture, fu
lui che le si avvicinò.
“Meiling…” esitò. Cosa poteva dirle in un momento come questo? Arrivederci o addio?
“Fai buon viaggio!” gli disse all’improvviso,
anticipandolo.
Il castano si sorprese. Dispiaciuto e al tempo stesso
sollevato che lei lo avesse privato di un compito così difficile.
“Grazie!” rispose sincero. Non seppe
cos’altro dire, tutto il resto sarebbe stato superfluo.
Grazie perché ti sei
presa cura di me.
Grazie perché appoggi
questa mia partenza.
Grazie perché adesso
mi permetti di vivere.
Mise un piede fuori dalla soglia. I
tenui raggi di un timido sole accolsero il suo viso.
Un passo, due passi…
“Sharoan?”
“Sì?”
Lui si voltò titubante nell’incertezza di un attimo. La sua
sicurezza vacillava. Aveva paura che lei avesse cambiato idea, temeva che lo
obbligasse a rimanere lì, come era in suo dovere.
“Sei già stato a far visita a tua
madre?” gli chiese inaspettatamente.
Si sorprese per quella domanda che nessuno aveva avuto la
premura di rivolgergli. Come poteva essere stato così egoista da dimenticare
quanto lei tenesse a lui?
Provò una grande tenerezza nei suoi
confronti.
“No, avevo intenzione di andarla a salutare ora, poco prima
di partire.”
“Sono sicura che le farà piacere.” Osservò commossa.
Si guardarono un’ultima volta, ma i loro sguardi erano troppo
diversi per comprendersi.
Erano troppo diversi per perdersi
l’uno negli occhi dell’altra.
Lui le rivolse l’affetto e la riconoscenza di un
fratello.
Lei lo guardò con tutto l’ardore con cui lui non le aveva
permesso di farsi amare.
Tre passi, quattro passi…
Attraverso il portone d’ingresso, si ritrovò nel giardino
della residenza.
Il tempo era mite, nel cielo albeggiavano piccole nuvole, che
a tratti giocavano a impallidire il sole.
Quella mattina, insieme all’odore di
erba bagnata, gli sembrò di percepire qualcosa di diverso.
Un profumo tenue e delicato aleggiava nell’aria, portato dal
vento.
Sembrava il sentore di qualcosa di nuovo, il presagio che
qualcosa stava cambiando.
Forse era la sua immaginazione, non
aveva mai avuto un buon sesto senso per queste cose.
Forse quella fragranza annunciava solo la fioritura dei
ciliegi e la tanto attesa primavera.
Forse si sentiva diverso perché semplicemente quello era il
giorno dei ciliegi…
Percorse un viale sassoso che conduceva fuori dal giardino della residenza Fa. Sentiva il rumore dei
ciottoli che cozzavano fra loro al suo passaggio e, di tanto in tanto,
rotolavano giù dal sentiero.
Da piccolo correva spesso lungo quella salita, si divertiva a
prendere a calci i ciottoli, a gettarli nel fiumiciattolo che costeggiava il
sentiero.
Lui e Meiling facevano a gara a chi li lanciava più lontano.
Inutile dire che vinceva sempre lui,
la galanteria non era il suo forte!
Semplicemente non riusciva a perdere, non
doveva perdere. Era stato
educato così. Sua madre gli aveva insegnato che con la determinazione e la
costanza avrebbe potuto ottenere tutto dalla vita.
Dopo neppure cinque minuti di cammino, la salita si fece meno
ripida e giunse sull’estremità della collinetta. Poco più avanti, la tomba di
Ieran Fa giaceva all’ombra di un grande ciliegio.
Sovrastava i campi tutt’intorno,
pareva, dalla sua sommità, dominare tutta la tenuta.
Si avvicinò e si inginocchiò vicino
alla tomba. L’odore di terra umida era ancora lieve.
La lapide era fredda. Fredda come il suo dolore.
Con i polpastrelli della mano destra accarezzò il nome scolpito sull’inanimata pietra, ne tracciò
il contorno, ricordando ancora una volta il viso di sua madre.
Lievemente staccò dal grande albero vicino un rametto di
ciliegio e lo adagiò delicatamente vicino alla tomba.
“E così, mamma, i ciliegi sono
fioriti. Anche quest’anno.”
Il vento, freddo e pungente, si
insinuava borioso nelle sue narici, pressando i suoi polmoni.
Una raffica di vento più forte spazzò via una manciata di petali. Alcuni di questi danzarono nel vento come
fiocchi di neve, verso mete sconosciute. Altri morirono
fra le ciocche dei suoi capelli o sulla terra smussata della tomba.
Era tempo di partire, di lasciare i fantasmi del passato.
Semplicemente, era tempo di farsi trasportare, insieme ai
petali di ciliegio, da quel soffio di vita.
***
L’aereo partì dall’aeroporto centrale di Hong Kong qualche
ora dopo.
Adagiato su un comodo sedile, osservava la città
allontanarsi, sfuggire al suo domino e farsi sempre più piccola alla sua debole
vista.
La tiepida aria di un condizionatore rendeva più piacevole lo
scomparto.
Un sedile vuoto aleggiava alla sua sinistra, tuttavia non gli
dispiaceva fare quel viaggio da solo.
Anzi, la conversazione forzata non era mai stata il suo
forte.
Mentre guardava quello che aveva
sempre considerato scontato allontanarsi da lui, i ricordi tentavano di
assalirlo. Lo scomparto dell’aereo gli pareva vuoto e il cielo, al di là del finestrino, ingrigiva ancora di più il suo
animo.
Si sentiva stanco, debole, vinto… ma da cosa?
Era ovvio che si sentisse in ansia. Come non poteva essergli
indifferente ritornare in Giappone e rivederla?
Si incupì di nuovo. E sia per la stanchezza, sia per il caldo, sia perché
effettivamente quel viaggio era noioso da solo o semplicemente per l’evidente
constatazione che a nulla sarebbe valso resistere, si lasciò trasportare ancora
una volta dai propri pensieri.
“Wei, sono tornato, ci sei?”
Era appena rientrato,
dopo aver trascorso un piacevole pomeriggio insieme a tutti i suoi amici. Ormai
erano quattro anni che si era trasferito a Tomoeda.
Le carte di Clow, o
meglio le Sakura Card, non rappresentavano più un
problema. Ma, nonostante la sua missione fosse stata conclusa con successo, non poteva minimamente rinunciare a
lei, alla sua compagnia, al suo affetto, al suo amore. Non più.
Era rimasto lì solo
per lei.
“Chissà cosa starà
facendo in questo momento?” ripensava, mentre attaccava la giacca
all’appendiabiti.
La voce del
maggiordomo proveniva confusa dalla cucina. Che
avessero degli ospiti?
Wei non gli aveva accennato niente al
riguardo.
Forse non sarebbe
stato necessario aggiungere altro.
L’espressione grave,
inquieta e addolorata del maggiordomo diceva tutto.
“Signorino Li, ha telefonato una
delle sue sorelle da Hong Kong! Sua madre ha avuto un attacco di cuore! I
dottori non sanno se ce la farà!”
Ormai quelle parole le
sapeva a memoria, le ripeteva dentro di sé
meccanicamente.
Erano state quelle che
avevano decretato la fine di due vite.
Immediatamente lui e Wei avevano
preso il primo aereo per Hong Kong, informando gli amici più intimi del motivo
della loro assenza.
Ma, una volta arrivati a
destinazione, una nuova ventata gelida gli attraversò il cuore.
Era troppo tardi.
Sua
madre se n’era già andata. Per
sempre.
Né
un addio, né una lacrima e tanto meno una parola d’affetto.
Era partita senza
poter salutare suo figlio.
Qualche giorno dopo il
funerale, era ritornato di nuovo in Giappone.
Ma la permanenza era stata breve: una
residenza lussuosa come quella della famiglia Fa non poteva certo rimanere senza
un proprietario. Le sue sorelle erano già tutte maritate e si erano trasferite
dall’altra parte del paese. Lui, unico figlio maschio, era il solo erede a cui
di diritto spettasse quella proprietà. Era suo dovere
amministrare la residenza e prendersene cura.
Un crudele destino a
loro sconosciuto l’aveva costretto a lasciare Tomoeda
e a dirle
“addio”.
E adesso, dopo tre anni, faceva di
nuovo ritorno in Giappone.
E, ancora una volta, ritornava solo
per lei.
Chissà se l’aveva aspettato?
Se tutto quell’amore adolescenziale
ardeva ancora o si era spento per sempre?
No, sapeva che un legame profondo come il loro non poteva essere soppresso così facilmente.
Si erano amati.
Lei lo aveva amato.
Lui non aveva mai smesso.
Ma, chi lo assicurava che nel suo cuore non ci fosse già un altro?
D’altronde, tutti e due erano liberi
di rifarsi una vita.
Ma un bagliore di speranza, lo
stesso che da tre anni alleviava il suo dolore e cacciava i suoi incubi, lo
rincuorò. Quel pensiero illuminò le iridi ambrate dei suoi occhi e,
improvvisamente, lo scomparto dell’aereo non gli sembrò più così vuoto e le
nuvole, in fondo, non erano poi così grigie.
“Dopotutto, una promessa è pur sempre una promessa.”
***
Il viale dei
ciliegi, così lo avevano sempre chiamato fin da piccoli.
Altro non era che una strada
perfettamente asfaltata, costeggiata da alti e frondosi alberi di ciliegio.
Ma, ai loro occhi di bambini, quel
viale assumeva un significato diverso.
Era bello incontrarsi lì la mattina,
era piacevole dirigersi insieme verso la scuola.
Avanzando, scorse il punto in cui di solito li aspettava
Yukito.
Quanti ricordi! Le sembrò di essere tornato indietro nel
tempo, s’illuse che tutto fosse rimasto uguale.
Immaginò Yukito e Toyua che
percorrevano il viale in bicicletta, rivide Sakura che sfrecciava a breve
distanza sui pattini e Tomoyo che la filmava con la sua inseparabile
videocamera. Come sembrava spensierata la vita allora!
Certo, c’erano le carte di Clow sparse per il paese da catturare, ma il dolore,
la sofferenza e la morte non si erano ancora insidiati nei loro animi.
A quel tempo erano del tutto ignari
che potessero esistere dei sentimenti simili.
Fra questi anche l’amore.
Quei bambini, dall’aria allegra, buffa, spensierata non
potevano minimamente sapere cosa li aspettava. Con lo sguardo cercò un punto del
viale che aveva fissato ossessivamente nella mente, particolarmente significativo per lui. Quando gli
parve di ricordare, si mise ad aspettare nel luogo determinato, all’ombra di un
ciliegio.
Si guardò intorno. Ormai si avvicinava l’ora stabilita.
Sapeva che la puntualità non era il suo forte, ma il timore che lei si fosse
dimenticata della loro promessa lo attanagliava.
Perché quel giorno non era un giorno
come gli altri.
Era il giorno dei ciliegi.
Cominciò a camminare avanti e indietro. D’istinto si mise una
mano fra i capelli per riflettere, ma quando la lasciò ricadere, notò che fra le
ciocche dei suoi capelli era rimasto imprigionato un petalo di ciliegio. Si
ricordò di come, una volta, avesse usato un simile
espediente per avere un suo bacio.
Un nuovo pensiero gli solleticò l’anima, facendogli venire in
mente l’allusione fra quel petalo e il significato del nome della ragazza amata.
Tutti e due erano delicati, fragili, di una bellezza
pallida.
Subito cercò nella sua memoria il ricordo
di lei. La rivide come
l’ultima volta, tre anni fa.
Bella, allegra, spensierata, con l’uniforme del liceo che
svolazzava al vento.
E improvvisamente quel giorno non
gli sembrò più così lontano. Gli parve che il tempo l’avesse fermato apposta per
lui e congelato nella sua mente.
Il giorno in cui le aveva fatto
quella promessa…
Era il suo ultimo giorno di permanenza a Tomoeda, il giorno seguente sarebbe ripartito per la Cina.
Forse per un anno, forse per due. Non lo
sapeva.
Camminava lentamente per quello stesso viale. Ad un certo
punto un rumore di passi impacciati gli si fece sempre più vicino. La riconobbe
subito. Come poteva non riconoscere quella camminata?
“Sharoan, aspettami…”
Lo raggiunse una ragazza della sua età con i capelli
castani raccolti in due piccoli codini.
Lui l’aspettò e si voltò a guardarla.
Sorrideva. Certo, dato tutto quello che sicuramente stava
passando, il sorriso che aveva sul volto doveva essere
di circostanza. Ma lo sorprese. Poteva solo immaginare
con quanta forza d’animo lei cercasse di celare il suo
dolore, di farlo partire sereno, senza preoccupazioni. Con quanto amore cercasse
di rassicurarlo che quello non era un addio, ma un
arrivederci.
“Ecco… io…” cominciò
lei imbarazzata, ma non sapeva come continuare.
“Hai un fiore di
ciliegio fra i capelli.” le disse senza una
logica.
Forse per metterla a
suo agio, oppure per alleggerire l’atmosfera che si era
creata.
“Dove?” chiese con la
sua ingenuità che ogni volta lo inteneriva.
Si avvicinò per osservarla meglio. Le pupille dei suoi
occhi oscillavano con curiosità, immerse nell’oceano smeraldo delle iridi.
Poteva respirare il suo profumo, vedere la sua immagine
riflessa nei suoi occhi, contare le sue ciglia. Era troppo vicino per non essere
attirato dalla bellezza magnetica del suo sguardo.
“Proprio
qui.”
Le depositò un bacio
sulle labbra, che successivamente lei ricambiò con
ardore, sollevandosi sulle punte dei piedi e avvolgendo le sue esili braccia al
collo di lui.
“Evidentemente devo
aver visto male…” le sussurrò all’orecchio, una volta
staccatosi da quel contatto vitale.
“Che bugiardo spudorato!” lo canzonò, ridendo divertita con il
suo buffo sorriso.
Camminarono qualche
metro mano nella mano, ascoltando l’uno i passi
dell’altro.
Ad un tratto sentì la
mano di lei scivolare dalla sua presa. Sentì quel
calore caldo e rassicurante scivolargli via. Agitò la mano, ricercando avido
quel contatto.
Ma l’unica cosa che
riuscì a imprigionare fra le sue dita fu l’aria fredda
e pungente, che pian piano gli risucchiava quel poco calore che prima aveva
stretto nella sua mano.
“Sharoan…”
Un sussurro appena
udibile. Lo fece sobbalzare il tono della sua voce.
Spento, rattristato,
pregno di malinconia.
Lentamente si girò per
guardarla. I suoi occhi, prima apparentemente sorridenti,
vagamente felici, improvvisamente si erano fatti lucidi. Una lacrima percorse tutta la sua gota, soffermandosi sul mento, per
poi spiccare un salto verso il vuoto.
“…ti prego, non
partire…”
Perché se parti morirò
anch’io. A poco. A poco.
Un filo di voce ancor
più impercettibile. La sua maschera era crollata, il dolore per la sua partenza
era affiorato, la sua buona volontà non era riuscita a
trattenere le gravi lacrime. Gli attimi felici che le stava offrendo non
avrebbero potuto rimpiazzare anni di lontananza e silenzi.
Lei lo sapeva. Lui
l’aveva capito. Forse troppo tardi.
Le accarezzò la
guancia umida.
“Sai che è
inevitabile…”
…perdere anche te.
“Allora, sappi che io
ti aspetterò comunque!”
Scosse la testa risoluto.
“Potrebbero volerci
anni. Ci sono pratiche su pratiche da
concludere, amministrare la tenuta, firmare tutti i documenti che mia
madre…”
Tacque all’improvviso,
interrotto da un dolore che era ancora fresco.
“Non mi importa quanto tempo ci vorrà, io ti aspetterò
comunque!”
Per te aspetterei anche venti anni. Pensi
che io sia egoista?
“Ma non capisci che non posso essere così egoista da
abbandonarti e pretendere anche che tu mi aspetti! Io non voglio che tu soffra
inutilmente per me, che tu passi le tue giornate aspettandomi.
Voglio che tu ritorni
a vivere…”
Qui l’egoista sono solo
io.
Adesso era la
sua maschera che stava crollando.
“Sai bene che non
potrei mai amare nessuno eccetto te.”
La sua voce, stavolta,
non vacillava più. Si era fatta ferma e risoluta. Era sempre stata insicura e
titubante nelle sue decisioni, ma niente l’avrebbe
sviata da quel proposito azzardato.
Si rese conto ancor di
più che il sentimento che lo legava a lei era troppo grande per essere soppresso dal tempo. Era come un filo inscindibile
che li univa.
L’avrebbe
rivista.
Voleva rivederla.
Doveva rivederla.
Non voleva legarla
a un vincolo, a un legame tanto
incerto.
Ma voleva che capisse che lui non avrebbe mai
smesso di amarla.
“E allora ti faccio una promessa…”
“Che promessa?”
“Se il nostro amore durerà, fra
tre anni ritornerò a Tomoeda. Quando i ciliegi
fioriranno, ci rincontreremo qui, in questo stesso giorno, alla medesima
ora.”
“Me lo prometti?”
“Te lo
prometto!”
La vide tirare un sospiro di
sollievo, poteva perfino sentire il suono del suo respiro che si faceva
regolare. La strinse ancora più forte, ma delicatamente fra le sue braccia, in
modo da avvertire il battito accelerato del suo cuore tamburellare contro il
suo petto.
Il vento spettinava i loro capelli, sibilava nelle loro orecchie storie di posti lontani, rapiva i loro sospiri.
Ma non riusciva a spengere la fiamma del loro
amore.
“Ti piacciono i
fiori di ciliegio, Sharoan?” gli chiese all’improvviso.
La guardò interrogativo.
“Forse.”
Buttò lì la prima cosa che gli veniva in mente, senza
capire dove volesse andare a parere o il perché di quella domanda
inaspettata.
“Che
risposta è, forse?”
La sua non era
solo una semplice domanda, apparentemente infantile. Era un argomento che le
stava molto a cuore. Si vedeva dal modo in cui alzava lo sguardo e osservava,
col naso all’insù, i rami frondosi che, piegati dalla mano del vento, lasciavano
cadere i loro piccoli tesori.
Personalmente, a lui, i ciliegi in fiore
non erano mai piaciuti particolarmente. Non riusciva a capacitarsi
perché, fin da piccolo, li avesse sempre ricollegati alla
morte.
Forse per la loro caducità, il loro vivere effimero.
Anche accanto alla tomba
di sua madre c’era un ciliegio. A lei erano sempre piaciuti.
Si ricordò di una
leggenda giapponese che lei stessa gli aveva raccontato da
piccolo.
Forse era per questo che non
amava i ciliegi.
“Sai che si dice che il colore
dei fiori del ciliegio in origine fosse candido ma che, a seguito dell’ordine di
un imperatore di far seppellire i samurai caduti in battaglia sotto gli alberi
di ciliegio, i petali divennero rosa per il sangue di quei
guerrieri.”
Lei si fermò e lo guardò un
attimo. Con un misto di curiosità e perplessità.
“Ma,
per caso, questa è una delle stupidaggini che hai sentito dire da Yamazaki?”
Si sorprese per la sua infinita ingenuità e per il volere
stare sempre all’erta.
Forse per paura di soffrire.
“No, è una leggenda giapponese
che mi hanno raccontato quando ero
piccolo.”
“Ah,
capisco.”
Si fece di nuovo pensierosa.
Una buffa espressione si dipinse sul suo viso, come una bambina che ha appena scoperto qualcosa di nuovo e crede di averlo
compreso nella sua totalità.
Ma poi,
subito, con la sua solita dolcezza, continuò.
“A me piacciono molto. E da oggi
li amerò ancora di più. Perché quando i ciliegi fioriranno, fiorirà in me la
speranza del tuo ritorno.”
Un lampo di stupore
fece vibrare le iridi dei suoi occhi, lo
riscaldò.
Finalmente comprese
quello che lei voleva fargli capire.
Da quel giorno anche
lui avrebbe cominciato ad attendere con impazienza la fioritura dei
ciliegi.
La speranza trovò
dimora nel suo cuore, anche se il loro amore era affidato a qualcosa di fragile
e precario. Talmente precario da essere poco più di un petalo di
ciliegio…
Riportò, ansioso, lo sguardo sul viale. Erano già passati venti minuti dall’ora stabilita e di lei non c’era la minima traccia.
Nelle peggiori delle ipotesi [per lui] poteva anche essersi trovata un
altro.
La immaginò accanto a un ragazzo che
l’avrebbe amata più di lui [impossibile!], che le era stato vicino e che
semplicemente non l’aveva abbandonata.
All’improvviso, gli parve di scorgere due
esili figure in fondo al viale. Una di queste poteva essere lei! Da lontano, distinse che portavano
l’uniforme del liceo. Ma, man a mano che si
avvicinavano, notò che nessuna delle due aveva la camminata elegante e dolce di
lei.
Le due giovani gli passarono accanto, sorridendo
maliziosamente, e sparirono ben presto alla sua vista.
La piccola fiamma di speranza che aveva nutrito per tutti
quegli anni si stava affievolendo, oppressa da una
realtà che era sempre più incombente.
Si girò ancora una volta per scrutare l’inizio del viale, ma
non c’era nessuno.
Nessuno, eccetto i pallidi ciliegi che si mischiavano con i
colori grigi e spenti della città.
Stava per incamminarsi, quando avvertì il tocco caldo e
delicato di una mano sulla sua spalla.
Una forte raffica di vento gli gettò addosso una manciata di petali, poi fu tutto silenzio.
Solo silenzio.
Sembrava che tutt’intorno il tempo
si fosse fermato, insieme al suo respiro.
Si girò. Incredulo, meravigliato, scosso da quella
visione.
“Ti aspettavo… Mi sei mancato,
Sharoan…”
Ansimò. Forse doveva aver corso. O
probabilmente era solo l’emozione che le serrava la gola.
I lineamenti del suo viso si erano addolciti ancora di
più, incorniciando il suo viso di
donna.
Gli occhi avevano l’abituale sfumatura verde, magnetica.
Era bella come sempre. Una bellezza, tuttavia, spenta dal
tempo, segnata dalla sofferenza.
Quante lacrime dovevano aver pianto quegli occhi, quante
notti insonni!
Era una bellezza la sua che finalmente ritornava a
fiorire.
“Anche tu mi sei mancata…
Sakura…”
Vide le sue iridi tremare impercettibilmente al suono
del suo nome.
Sentiva il dolore appassire dentro di sé, fino a scomparire,
e sbocciare la felicità.
Perché finalmente ritornava a
vivere. Dopo tanto tempo.
Lui le scostò una ciocca di capelli dal viso.
Lei gli sorrise.
Ma, d’altronde, lei sorrideva
sempre.
Le veniva spontaneo.
Lui, invece, aveva sempre il broncio.
Ma quello che illuminò il suo volto
era indubbiamente un sorriso.
Un sorriso sincero, autentico, puro, che solo lei sapeva far
scaturire.
Nonostante il tempo, niente era
cambiato e quegli sguardi esprimevano ancora amore.
E, in mezzo al viale costeggiato dai
ciliegi, due cuori capirono che non sarebbero più stati soli.
Per sempre.
Una raffica di vento spazzò via una manciata di petali. Essi, emblema della precarietà, danzarono
verso mete sconosciute, testimoni di qualcosa di
eterno.
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