Elizabeth

di Gracedanger
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Chapter 1



-Vede, sua figlia, è una ragazza molto seria…troppo anzi. Credo non viva fino in fondo. Ha un’età in cui bisogna divertirsi, svagarsi, lei invece a sedici anni è troppo paurosa, troppo poco istintiva.

Devo dimenticarmi di tutto questo.
Queste parole me le avranno dette centinaia di volte.
“Devi vivere, devi vivere…” nessuno che mi dia una cura per tutta questa mia serietà.
Ditemi di fare questo e quello, e allora si comincia a ragionare.
Probabilmente sarò troppo seria anche in quello.
Ma quella fu l’ultima volta che mi dissero che non mi godevo la mia età, mia madre decise che era troppo. Io intuii ciò che stava pensando. Un cambiamento, un enorme cambiamento, qualcosa che secondo la sua opinione servirà a farmi diventare la sedicenne più frizzante dell’universo.
Capii che non portava niente di buono, allora le dissi: “Troverò da sola qualcosa che mi cambi, un modo per divertirmi, tranquilla, non serve che cambiamo città, scuola, o roba del genere, faresti solo peggio, ci penso io!”
Pensai di averla convinta, ma poi mi resi conto che nemmeno io mi ero convinta, anzi le avevo dato un’idea. Cambiare città, scuola, o roba del genere.
Qualche giorno dopo stavamo chiudendo gli ultimi scatoloni. Non mi dispiaceva poi tanto andarmene da Baltimora, anche perché di amici inseparabili lì non ne avevo, mi piaceva per la sua tranquillità, perché non mi dava fastidio, ecco. Più che altro ero spaventata per ciò che avrei trovato in una sconosciuta.
Arrivammo nell’Union alle due di notte. Mio padre aveva richiesto il trasferimento e l’aveva ottenuto ad una città di nome Elizabeth. Ci sistemammo in una casa grande il doppio della vecchia, con un bel giardino nel quale ci mancava solo un cagnolino scodinzolante. Peccato che il mio cane, Molly, ama dormire in casa. Ha passato tutto il viaggio in macchina appoggiando il muso sulla mia pancia e guardandomi con i suoi due occhioni come per dire: “Che sta succedendo?...Ah, non importa, svegliami quando si mangia”.
Sistemammo gli scatoloni in sole due ore, avrei voluto restare sveglia tutta la notte. Non ce l’avrei fatta a dormire e svegliarmi in un posto diverso.
Una settimana dopo era il mio primo giorno di scuola. Non riuscivo a pensare ad altro che a cosa mi sarei messa, perché se provavo a pensare alle altre cose mi veniva in mente il peggio.
Alle due e mezza, mi alzai e mi misi un po’ a scrivere, adoravo la luce fioca del computer a quell’ora mi dava sicurezza.
Non scrivevo in modo eccezionale, scrivevo quasi come vivevo, in modo annoiato, pessimista, e timido, a volte. Molto probabilmente non sapevo che tipo di scrittrice ero, magari un giorno mi sarei svegliata, come scrittrice di gialli spietati alla John Grisham, oppure avrei scritto un manuale sulla salute degli animali domestici, includendo un capitolo speciale sulle cocorite.
Senza accorgermene arrivarono le cinque, e cominciavo a sbadigliare, ma non mollavo.
Mia madre mi ritrovò sbavando sulla scrivania. Per quanto ero in ritardo non pensai più di tanto a cosa indossare.
Era ufficialmente, il mio primo giorno di scuola.
 
“Ragazzi, date il vostro benvenuto a una nuova compagna, Elizabeth White, be, cara vuoi dirci qualcosa di te?”
Odio queste cose. Le odio. Le odio. Le odio. Le odio.
Avrei voluto dire qualcosa tipo: “Mi chiamo Elizabeth White, e sono venuta in questo paesino dimenticato da Dio, perché ho problemi nel relazionarmi con gli altri e non so vivere, e avrei convissuto benissimo con queste mie mancanze se non avessi avuto due genitori apprensivi e tanti professori che non sopportano una diversa dalla mischia fatta da voi, che siete solo manichini con una vita sociale insignificante e vuota.”
E invece: “Ehm, mi chiamo come la vostra città, simpatico, vero?”
Un minuto di silenzio imbarazzatissimo regnò sulla classe. la professoressa mi guardava con la bocca aperta, come se stesse aspettando il discorso più emozionante del mondo.
“Sono stata nell’Union, una volta…si ma ero piccola..non me lo ricordo”
“Ehm..non c’è altro”
Odiavo lo sguardo stupito di tutti, volevo strapparle quelle bocche aperte, quella della professoressa, e la bocca di ognuno della classe, ne approfittavo per guardarli, e analizzarli, c’erano i Ken e le Barbie, i brufolosi, i secchioni, i metallari, però persino i più sfigati erano in gruppo. Ecco a voi, la specialissima new entry, Lizzie l’asociale. Un soprannome tanto triste quanto bello.
La lezione finì tra i continui sguardi imbarazzanti.
Mi tuffai nel corridoio al primo suono della campanella, e come se non bastasse appena uscita, qualcuno che correva nella direzione opposta mi venne addosso, e cademmo entrambi a terra.
Altri sguardi imbarazzanti.
Rimasi con la testa sul pavimento per non alzarmi e non continuare quella giornata, “grazie ragazzo fulmine”. Sentii una mano sulla spalla. Mi girai di malavoglia. Davanti a me c’era un ragazzo con i capelli corti e neri, un cappello e un paio di baffetti curiosi, mi guardava con due occhi grandi che sembravano spogliarti l’anima.
“Tutto okay?”
“si”
“mi dispiace tantissimo”
“Tranquillo”
 
La mia aria fredda, non avrebbe convinto nemmeno uno di quei brufolosi deficienti della mia classe.
Quel ragazzo mi diede un occhiata rapida, e vide il mio piede messo in modo storto. Avevo sentito un crack durante la caduta.
“Mmm..si…sisì.” sussurrò e mi mise delicatamente un braccio attorno al collo e uno sotto le gambe.
Mi tirò su, stretta e mi prese in braccio.
“Ma che fai?!”
“Tu non stai bene.”
“Ma non ti preoccupare, non è nulla”
“Shh, zitta. E’ meglio che ti porti in infermeria. Anche perché è una scusa in più per allontanarci da questi stupidi sguardi.”
 
Boom. Colpita.
Rimasi zitta e appoggiai la testa sulla sua spalla.
Aveva una camicia azzurra e morbida, e un profumo che avrei voluto respirare fino alla fine dei tempi.

Ero in un altro stato, in un’altra contea, in un’altra città, in un’altra scuola, ma lì io mi sentivo nel posto più sicuro del mondo. 

Tra quelle braccia ero a casa.




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