Fading Lights
Fading
Lights
Ora va meglio, pensa
Astrid, soddisfatta. Quando era entrata, mezz’ora prima, era stata investita da
un odore forte di chiuso, legna bruciata, alcol, medicine e malattia, e
quell’aria viziata non può certo giovare a Hiccup. Così, approfittando
della temperatura, insolitamente elevata per metà settembre, Astrid aveva messo
addosso al ragazzo un paio di coperte supplementari e spalancato tutte le
finestre, permettendo all’aria pulita di entrare.
Stoick è dovuto
uscire. In quei giorni, il Capo ha avuto molto da fare, e a malincuore si è
diviso fra il capezzale del figlio e la riorganizzazione del villaggio, nonché
della flotta navale, interamente distrutta da quello che tutti, su idea di
Skaracchio, hanno iniziato a chiamare Morte Verde.
Sdentato sta
dormendo sul tappeto ai piedi del letto. La Furia Buia ha mostrato incredibili
capacità di rigenerazione, molto superiori a quelle di un corpo umano: cinque
giorni dopo la battaglia, la bestia è di nuovo in salute, le sue ferite quasi
completamente rimarginate.
Hiccup invece è ancora a letto, incosciente e
febbricitante, e ad Astrid sembra che diventi sempre più fragile ed emaciato
ogni giorno che passa.
Granbestia Trippadibirra ha dovuto amputargli la
gamba sinistra, a livello del polpaccio – cercare di farla guarire, ridotta
com’era, sarebbe equivalso a una condanna a morte. Il suo corpo è pieno di
ustioni, contusioni, ferite ed escoriazioni di varia entità. Ha picchiato
la testa, alcune costole incrinate e perso un sacco di sangue. Come può un
corpo esile come quello di Hiccup avere la forza per sopravvivere a tutto
ciò?
Astrid ha snobbato la sedia accanto al letto e si è
sdraiata di fianco al ragazzo, sopra alle coperte. Gli tiene una mano, bollente,
e gli carezza il dorso con il pollice.
Da quando sono
tornati a casa, Hiccup brucia di febbre, e la temperatura non accenna a
diminuire. Granbestia sostiene che è normale per una persona nelle sue
condizioni, ma anche lui è visibilmente preoccupato per il nipote: Hiccup non è
un robusto guerriero adulto di due metri di altezza per oltre un quintale di
peso, è solo un ragazzino di quattordici anni, dal fisico gracile e ossuto, che
non ha mai avuto a che fare con una prova del genere.
E spesso, la
normalità in questi casi termina con la febbre che brucia e consuma il corpo del
malcapitato, fino a portarlo alla morte. Astrid lo sa bene, l’ha visto succedere
tante, troppe volte, e su robusti guerrieri adulti di due metri di altezza per
oltre un quintale di peso.
Gli scosta i capelli dalla fronte sudata. Il taglio
sopra al sopracciglio sinistro sta rimarginando, probabilmente rimarrà una
cicatrice. Una delle tante, e non la peggiore.
Non per la prima
volta in quei giorni, si sofferma ad osservare il viso allungato di Hiccup. I
lineamenti dolci, nessun accenno di barba o baffi, solo una leggera, rada
peluria bionda, visibile solo a distanza ravvicinata, sul mento e sul labbro superiore. Le ciglia lunghe e scure,
le sopracciglia folte. Il naso a patata, le labbra sottili, la pelle chiara, piena di
lentiggini.
Gli occhi rotondi.
Con le iridi verde
muschio. Che con il sole, diventano del colore del mare in tempesta.
“L’avevo
dimenticato”, ridacchia Astrid, imbarazzata. “Pensa che stupida, avevo
dimenticato di che colore hai gli occhi. Eravamo tanto amici, da bambini… ma
dopo che tua nonna è morta, sono cambiate tante cose… e noi due ci siamo allontanati.”
Sospira.
“Mi dispiace,
Hiccup”, dice. “Mi dispiace… così tanto.
Io… non ti ho mai difeso, quando gli altri ti prendevano in giro. Avevo paura
che… non so… che prendessero in giro anche me… oh, lo so che è un’idiozia, ma io... io non avrei potuto
sopportarlo. Tu invece...”
Hiccup bisbiglia qualcosa, cercando di cambiare
posizione, con una smorfia di dolore sul viso. Inarca la schiena, gira la testa,
poi si rilassa. Niente di nuovo: in quei giorni, il ragazzo spesso si è
lamentato,
a volte ha addirittura parlato nel delirio della febbre, ma si è sempre trattato di parole incoerenti e spesso del tutto
incomprensibili.
“Mi dispiace”, ripete Astrid. “Tu hai pagato… per
tutti noi. E non è giusto.”
Tace. Hiccup non può sentirla, e forse è meglio
così. Non avrebbe mai il coraggio di parlargli in quel modo, se lui fosse
cosciente.
Poi ha un’idea. “Ti
ricordi la storia che ci raccontava tua nonna quando eravamo
piccoli?” domanda. “Quella del guerriero Vichingo che
s’innamora della Principessa Scozzese? E’ da quando lei
è morta che nessuno ce la racconta più. Certo che ti
ricordi. Quando eravamo piccoli, tu e io, con Moccio, Gambedipesce e
a volte i gemelli, ci stendevamo sul tappeto di casa sua, davanti al
fuoco, e lei iniziava a raccontare...”
C’era una volta una
Principessa di nome Merida, figlia primogenita di Re Fergus del Clan DunBroch,
il principale di Scozia, e di sua moglie, la Regina Elinor.
Non era bella e delicata come ci si aspetta dalle Principesse
protagoniste di una storia: era infatti robusta, coperta di lentiggini,
col viso e gli occhi rotondi, e la più intricata massa di
scintillanti capelli rossi che si fosse mai vista. Inoltre, malgrado
fosse una ragazza, era l’arciere più abile di tutto il
Regno.
Dopo
varie disavventure, riuscì ad ottenere dai suoi genitori di potersi sposare solo
per amore, e di non sposarsi affatto se non avesse trovato l’uomo giusto per
lei. Arrivata al suo diciottesimo compleanno ancora sola, decise di viaggiare
per il mondo, per conoscere altre culture e altri modi di vivere.
Dopo
alcuni viaggi verso Sud, decise di visitare le isole dei Mari del Nord. I suoi
genitori e i suoi tre fratelli minori erano preoccupati, perché si diceva che
quelle acque fossero infestate dai pirati: ma Merida non volle sentire ragioni,
e testarda com’era ottenne il permesso di partire.
Purtroppo, una terribile
tempesta investì la sua nave, che si inabissò. Non ci fu neppure il tempo di
gettare le scialuppe di salvataggio: i dodici uomini dell’equipaggio scomparvero
in mare, e sembrava che anche per la Principessa, aggrappata testardamente a un
pezzo dell’albero maestro, terrorizzata e intirizzita, non ci fosse più scampo,
quando ecco arrivare una nave Vichinga.
Pirati, riflettè Merida, ma in
quel momento non c’era troppo da fare gli schizzinosi. Si trattava di scegliere
se morire annegata, o vivere, ma diventare prigioniera.
Merida scelse di
vivere, afferrò la scaletta che le veniva gettata dalla nave e venne issata in
salvo.
Una volta che la tempesta si fu placata e la nave ebbe raggiunto la
terraferma, la Principessa venne condotta a casa del Capotribù.
“Benvenuta
nell’Isola di Berk, signorina”, disse il Capo. Era un uomo slanciato sui cinquant’anni,
con un caschetto di capelli rossicci, la barba scompigliata, la pelle
lentigginosa e scottata dal sole, il braccio destro coperto di tatuaggi,
raffiguranti teschi, pugnali e draghi. “Mi chiamo Hiccup Horrendous Haddock
Secondo, Capo della Tribù dei Bifolki Pelosi. Posso conoscere il vostro
nome?”
“Sono Merida Margareth Elinor del Clan DunBroch di Scozia”, si
presentò lei. Tremava per il freddo, la paura e lo shock, e il pensiero dei suoi
uomini appena annegati le mozzava il respiro. Ma non avrebbe pianto. “Figlia di
Re Fergus Quarto, e della Regina Elinor.”
“Mia bella Principessa”,
Hiccup incrociò le braccia con un sorriso soddisfatto, “Ora siete
mia prigioniera.”
“I vostri pescatori mi hanno tratta in salvo, Hiccup Horrendous Haddock Secondo”, ribatté
lei, altera, pronunciando quel nome pressoché impronunciabile con serietà.
“Credevo di essere vostra ospite.”
“Ma certo”, intervenne un ragazzo sui
vent’anni, alto e imponente, con barba e capelli color carota, acconciati in
trecce. Tolse l’elmo dalle lunghe corna e si produsse in un inchino impacciato. “Vogliate
scusare mio padre, Principessa… sapete, noi Vichinghi non siamo molto esperti di
buone maniere.”
“Stoick!” lo richiamò Hiccup, sdegnato.
Stoick
l’ignorò. “Mi chiamo Stoick Haddock, detto “l’Immenso”, figlio primogenito ed
erede di Hiccup Horrendous Secondo e di Valhallarama. Piacere di fare la vostra
conoscenza, Principessa Merida.”
Le baciò la mano destra, sfilandole l’anello
di zaffiro che indossava all’anulare e consegnandolo al padre. “Vogliate
considerarlo come un piccolo pegno per avervi salvato la vita… e per darvi
ospitalità nella nostra piccola isola. Ovviamente, sarete nostra ospite finché mio padre non deciderà di
lasciarvi ripartire per il vostro Paese.”
“C’è qualche altro prezzo da
pagare?” domandò Merida.
“Qui non siamo in Scozia”, iniziò Stoick.
“L’avevo capito”, l'interruppe Merida.
“Quello che volevo dire, è che dovrete
imparare un mestiere, e collaborare alla vita della comunità.”
“Io… so tirare
con l’arco”, disse Merida, dubbiosa. “Ma posso imparare anche a cucire e cucinare, se
occorre.”
“L’arco andrà benissimo”, intervenne Hiccup, con un sorriso storto,
che rivelò due fossette ai lati della bocca.
“Per le ascelle pelose di Loki”, gridò allora una
donna alta e formosa, con i capelli castani divisi in due trecce ai
lati della testa. Buttò addosso a Merida una grande coperta di
lana spessa un dito e vi avvolse la ragazza come in un bozzolo.
“Siete proprio dei cafoni. Non vedete che sta gelando? Vieni con
me, cara. Hai bisogno di asciugarti, di vestiti puliti e di un buon
pasto caldo, e di solitudine per piangere il tuo equipaggio.”
La donna mise una mano
intorno alle spalle di Merida e la condusse verso le scale che portavano al
piano superiore. Era più alta di lei di tutta la testa, e decisamente più
grossa. I suoi seni sembravano due grossi meloni e Merida si sentì rassicurata
dalla sua solidità.
“Io sono Valhallarama”, si presentò. “Moglie
di Hiccup Horrendous Secondo e madre di Stoick l’Immenso e
Granbestia Trippadibirra. A proposito, non chiedere mai a Granbestia
perché la sua barba è così corta. L'aveva lunga
fino al petto, ma la scorsa primavera un drago gliel’ha
incendiata, e per lui è stato un vero shock… ma è
stato fortunato che si trattasse solo di un Terribile Terrore.”
“Cosa?” fece Merida, sicura di
non aver capito bene l’ultima parte del discorso.
“Un Terribile Terrore,
cara”, aveva ripetuto Valhallarama. “In Scozia non avete i Terribili
Terrori?”
“Cosa sono i Terribili
Terrori?”
Mentre le preparava abiti asciutti, una tisana di erbe e una
ciotola piena di porridge, Valhallarama le raccontò la storia della propria
Tribù. I suoi antenati erano giunti a Berk più di trecento anni prima, e subito
avevano avuto a che fare con una vasta popolazione di draghi. Ce n’erano di
diversi razze, tipologie e dimensioni, ma una cosa li accomunava: a cadenza
costante, razziavano le riserve alimentari umane, incenerendo o artigliando
chiunque tentasse di impedirglielo e costringendo i Bifolki, al pari degli
abitanti di tutte le altre isole dell’Arcipelago Barbarico, a diventare
cacciatori di draghi.
E fu così che Merida si stabilì sull’isola di Berk, a
casa del Capo Hiccup Horrendous Haddock Secondo e di sua moglie Valhallarama e,
grazie alle sue straordinarie doti di arciere, divenne un’altrettanto
straordinaria cacciatrice di draghi. In capo a due anni, ne uccise più di
qualsiasi donna Vichinga della sua età, e a poco a poco riuscì a
guadagnarsi la stima dell’intera Tribù.
Stoick in particolare, presto si
innamorò della Principessa, della sua saggezza e della sua generosità, del suo
sarcasmo e della sua furbizia, della sua cocciutaggine nel voler a tutti i costi
mantenere alcune abitudini scozzesi, che lei riteneva assolutamente necessarie,
come quella del bagno giornaliero, e sì, anche del suo aspetto fisico, simile a
quello Vichingo nei colori, ma molto più contenuto nelle forme.
Merida era a
sua volta attratta di Stoick, ma era restia a lasciarsi andare: a Berk era
trattata con tutto il rispetto, addirittura acclamata per le sue doti di
combattente, ma pur sempre una prigioniera, costretta a rimanere sull'isola e far conoscere i suoi movimenti.
A quel tempo, Stoick aveva due amici, che conosceva
dall’infanzia: Skaracchio Ruttans, più vecchio di lui di
cinque anni, fabbro e ottimo costruttore di armi, al quale un
drago aveva amputato il piede destro e la mano sinistra, che sostituiva
con protesi intercambiabili di sua creazione e varia utilità, e
Alvin l’Onesto, coetaneo di Stoick, con lunghi capelli rosso
fuoco, che invece proveniva da una famiglia di agricoltori, sempre in
lotta con i draghi che distruggevano puntualmente le coltivazioni pochi
giorni prima del raccolto. I tre erano ottimi amici, pronti a dare la
vita l’uno per l’altro, affiatatissimi in battaglia.
Skaracchio non vedeva di buon occhio
l’innamoramento di Stoick: non si era mai visto che un futuro Capo Vichingo prendesse in moglie una straniera, Scozzese, prigioniera nella sua terra: un’unione
del genere, qualora lei avesse acconsentito, avrebbe portato certamente dei
grossi guai.
"Perché poi non dovrebbe acconsentire?" spesso ricordava
Skaracchio all'amico. "Sarebbe la prima ad avere dei vantaggi,
sposandoti. Sembra perfettamente integrata fra noi, è
riuscita ad abbindolare praticamente tutti, compresi i tuoi genitori...
ma se stesse solo aspettando il momento giusto per scappare... o
peggio, per vendicarsi?"
"Taci", chiudeva Stoick, torvo. Se il fabbro non fosse stato uno dei
suoi migliori amici, non gli avrebbe permesso di parlare così
della Principessa. "Tu non la conosci. Lei non è
così."
Ma Skaracchio rimase perplesso, fino al giorno in cui venne attaccato da un
Teschione alato, che si era allontanato troppo dalla rispettiva Isola e si era
perso, ritrovandosi sulla spiaggia di Berk. Il fabbro era un ottimo guerriero, malgrado i suoi handicap
se la cavava egregiamente con qualsiasi arma, anche a mani nude se necessario, ma da solo contro un mostro del genere,
le sue speranze di sopravvivenza erano sotto lo zero. Fu Merida a intervenire,
affiancandolo nel combattimento con la propria spada preferita, Gliocas, Saggezza: un'arma decisamente leggera se confrontata a quelle di fattura Vichinga, ma potente, affilata e precisa.
Dopo un’estenuante battaglia, il
Teschione fu atterrato e ucciso, e Skaracchio e Merida, finalmente amici, si
scambiarono le spade, in segno di rispetto e fiducia reciproci.
In seguito a quell’episodio, grazie alla complicità del
fabbro, Merida si avvicinò sempre di più a Stoick. Chi
invece non apprezzava la nuova situazione era Alvin, che si
allontanò sempre più dai suoi due amici, rifugiandosi
nella coltivazione della terra e nelle battaglie con i draghi,
invidioso e incattivito: da sempre affascinato dalla Principessa,
qualche mese prima le aveva reso manifesti i propri sentimenti,
ricevendone però un insindacabile rifiuto.
La sua speranza crollò definitivamente quando, in una sera d’estate, durante una
riunione alla Meade Hall, un emozionato Hiccup Horrendous Secondo e una commossa
Valhallarama annunciarono il fidanzamento di Stoick con Merida, di fronte a
tutti i Bifolki Pelosi. Merida quella sera era bellissima ed emozionata, aveva
legato i capelli in una folta treccia, alla maniera Vichinga, ma indossato un
abito lungo di evidente fattura Scozzese. Indossava l’anello di zaffiro, che
Hiccup le aveva restituito, e una collana con un lungo e scintillante dente di
Incubo Orrendo come pendente, regalo di Valhallarama.
Un mese dopo venne
celebrato il matrimonio, a cui erano presenti anche i genitori di Merida e i
suoi parenti più stretti, nonché una delegazione Scozzese. Una settimana dopo,
Stoick e Merida partirono per la Scozia, che la ragazza desiderava poter
rivedere prima di stabilirsi definitivamente a Berk, e quando la coppia tornò,
tre mesi più tardi, Merida annunciò di aspettare un bambino.
Astrid si ferma. Sul suo viso appare un sorriso
triste. “A questo punto, quando eravamo molto piccoli, tua nonna terminava con,
E vissero tutti felici e contenti. Poi
un giorno, quando avevi quattro anni, tu le domandasti, Ma allora, perché la
mamma è morta?”
Passa di nuovo una mano fra i capelli di
Hiccup, ormai ridotti a una massa informe e scompigliata.
“Tua nonna ti accarezzò la testa e disse: Hai
ragione, è ora che ti racconti la fine della storia. Vissero tutti felici
e contenti… per qualche mese. Perché non sempre le cose filano lisce... e tutti
erano felici, tranne uno.”
Alvin non era ancora riuscito a dimenticare
Merida, e un giorno approfittò di un momento in cui lei stava facendo una
passeggiata solitaria nel bosco e l’aggredì, bloccandola contro il tronco di
una grossa quercia. Lei era forte, aveva con sé l’arco e le frecce, ma era
incinta di ormai sette mesi e mezzo, e rallentata nei movimenti, malgrado la sua pancia non fosse ancora esplosa.
“Lasciami,
Alvin”, ordinò.
“Perché?” le domandò lui. “Perché Stoick? Perché non
io?”
“Non lo so”, rispose Merida, tremando. Aveva paura, paura per sé, e
soprattutto paura per il suo bambino, ma non l’avrebbe mostrato. “Mi sono
innamorata di lui, e non di te. E’ successo e basta. Ora lasciami andare.”
“No”, disse lui, tenendola bloccata senza alcuno sforzo. “Sarai
mia, almeno una volta.”
Lei allora lo guardò, con gli occhi fiammeggianti d’orgoglio. “Potrai anche avere il mio corpo”,
disse, senza alcuna esitazione nella voce. “Ma non potrai mai avere il mio
cuore.”
A quelle parole, Alvin rimase di ghiaccio. Rabbioso e umiliato, fece
quello che fanno gli uomini per umiliare le donne che non riescono a
sottomettere, finché non udì la voce di Stoick
esclamare, furente e sorpresa: “Per l'ira di Thor, cosa diamine stai facendo?”
Stoick agguantò Alvin per le spalle, lo tirò via dalla
moglie e iniziò a prenderlo a pugni, vomitandogli insulti
irripetibili. Lei si accasciò ai piedi dell'albero, semisvenuta.
Le braccia forti di Skaracchio l'aiutarono a tirarsi a sedere, la
sua voce roca le chiese come stava.
“S-sto bene”, disse Merida, ma venne
colpita da una fitta al basso ventre che la fece boccheggiare e ripiegare su se
stessa, con le mani sulla pancia.
“Ehi, Meri, che hai?” domandò
Skaracchio.
“Io…” iniziò lei, ma un’altra terribile fitta la fece gridare.
Era come se una morsa di ferro rovente le stringesse il busto.
“Ehi, Stoick,
lascialo a me e vieni qui”, disse Skaracchio. “Tua moglie sta male.”
Stoick trasportò a casa Merida, tenendola fra le braccia,
mentre Skaracchio conduceva Alvin verso le segrete della Meade Hall, in
attesa che gli Anziani decidessero cosa fare di lui. Una volta a casa,
Valhallarama prestò le prime cure alla ragazza, mentre Hiccup
correva a chiamare sua madre Gothi, la sciamana del villaggio,
nonché il Vecchio Moltegrinze, il medico, e Granbestia, che era
diventato suo assistente.
La situazione era disperata: Merida era entrata in travaglio, e non
c’era modo di evitare che il bambino nascesse, anche se sarebbe stato prematuro di almeno
un mese e mezzo.
“Salvate il mio bambino”, singhiozzava la Principessa, e a Stoick
gelò il sangue quando udì Moltegrinze bisbigliare, “Sarà una fortuna salvare
anche uno solo dei due.”
Cinque ore dopo, mentre Stoick, Skaracchio e Hiccup
attendevano impazienti fuori dalla stanza, si era sentito un terribile urlo e,
dopo un tempo che era sembrato interminabile, ecco finalmente il vagito del
neonato. Poi Valhallarama era uscita con un involto fra le braccia. “E’ vivo”,
aveva detto, con le lacrime agli occhi.
Stoick corse subito dalla
moglie. Merida era sudata e pallidissima, nel letto pieno di sangue. Lui
s’inginocchiò al suo capezzale, le prese la mano che lei strinse debolmente,
sorridendo.
“Hai visto?” mormorò Merida. “Ce l’ha fatta. E’ piccolissimo… ma
Gothi dice che è sano, e ce la farà. Diventerà un eroe… destinato a grandi
imprese.”
Stoick guardò Gothi, Moltegrinze, Granbestia, tutti dietro di lui,
le espressioni indecifrabili. Gothi annuì, accennando un sorriso.
“Merida…”
mormorò Stoick, con voce strozzata.
“E’ un maschio”, fece lei. “Come vogliamo
chiamarlo?”
“Meri, senti… ne parliamo quando stai meglio, va bene?”
“Stoick, non starò meglio”, disse Merida,
guardandolo negli occhi. Poi continuò: “Visto che
è nato prima del tempo, come tuo padre… pensavo di
chiamarlo come lui. Hiccup Horrendous… Terzo, naturalmente. Lo sai, ho sempre pensato che i vostri
nomi fossero assurdi… ma ora, spero che gli porti fortuna. Ne avrà tanto
bisogno.”
“Merida”, per una delle prime volte nella sua vita adulta, Stoick stava piangendo. “Non parlare, non
stancarti…”
“Stoick, mi dispiace”, disse Merida. Le lacrime le scorrevano
sulle guance in rivoletti lucenti. “Ma dovrai occupartene tu. Cerca di
proteggere il nostro Hiccup, finché non potrà farlo da solo.”
“Non dire
idiozie! Tu sarai con me, e gli insegnerai a tirare con l’arco, e…”
“Abbi
cura del nostro bambino”, mormorò Merida, e cercò di sorridere. “Io… vi guarderò
dal Valhalla. E quando ci rivedremo… ti dirò…”
Ma non riuscì a terminare la
frase. Chiuse gli occhi e reclinò la testa, e quelle furono le sue ultime
parole.
Stoick, pazzo di dolore, bandì Alvin, e di lui non si seppe più
nulla; probabilmente, fuggì nelle Lande dei Rinnegati, dove si rifugiano tutti i
Vichinghi ripudiati e allontanati dalle proprie Tribù di origine per atti di
estrema malvagità e ferocia. Per Merida venne celebrato un funerale Vichingo,
con tutti gli onori che si riservano a un’Eroina, mentre il piccolo Hiccup
Horrendous Terzo riuscì a sopravvivere, anche se rimase sempre piccolo, gracile
e malaticcio.
Per evitare che il figlio si mettesse in pericolo durante gli attacchi
dei draghi, Stoick lo affidò a Skaracchio, affinché lo
sorvegliasse, tenendolo nella sua bottega come apprendista fabbro. In
effetti, Hiccup era una vera calamita per i guai. E la sua
personalità, sensibile e ironica, unita al fisico minuto ed
esile, lo stava allontanando dai suoi amici d’infanzia, che
invece si stavano preparando a diventare cacciatori di draghi.
Ma un giorno, accadde qualcosa di straordinario…
Hiccup stringe debolmente la mano di Astrid,
bisbiglia alcune parole con voce quasi impercettibile. Poi apre gli occhi, che sono stanchi e vitrei. “N-nonna”, mormora.
“No”, dice lei.
“Sono io, Hiccup. Sono Astrid.”
“A… Astrid…?”
“Sì”, conferma lei,
annuendo. “Come ti senti?”
“Hai… una… una
d-domanda… di riserva?” lui tenta un sorriso, con scarsi
risultati. “Ma voi… tutto… tutto bene?...
State... tutti... b-bene?”
“Sì”, ripete Astrid, che sente la gola annodata e le
lacrime agli occhi. Quello stupido di Hiccup sta soffrendo, deve sentirsi
malissimo, ma il primo pensiero è stato per loro. Stupido idiota di un altruista. “Stiamo tutti bene.
Tutti quanti, grazie a te. Ora siamo a casa, siamo tornati a Berk.”
“A… casa?...
Come…?”
“Sui draghi”, spiega lei. “Le navi erano tutte
distrutte, così siamo tornati pochi alla volta sui draghi che tu hai
addomesticato per noi.”
“Dov’è… Sdentato?” la voce di Hiccup si fa rotta e
preoccupata.
“E’ qui”, risponde lei. “Sta dormendo. Anche lui sta
bene.” Gli carezza una guancia con il dorso di una mano. “Stai tranquillo, non
devi preoccuparti di niente. Devi solo pensare a rimetterti.”
Lui sospira, sorride
con quel suo sorriso storto, questa volta con maggiore successo, e chiude gli
occhi. “G… razie… per l-la storia.” Poi, in un sussurro biascicato: “Avevo
proprio voglia di risentirla.”
“Tu… l’hai sentita?” domanda Astrid.
“Hmm”, fa Hiccup, e
gira la testa. Il suo corpo si rilassa, la respirazione rallenta.
Si è di nuovo
addormentato. Ma questa volta era lucido e cosciente.
E se è successo una
volta, presto succederà di nuovo.
Astrid sorride, si china e lo bacia leggermente sulle
labbra aride. “Quando starai meglio penseremo al resto.”
Credits: "Fading Lights" è una canzone dei
Genesis.
Disclaimer: i personaggi di Astrid Hofferson, Hiccup Horrendous
Haddock Terzo, Sdentato, Stoick l'Immenso, Skaracchio Ruttans, Granbestia
Trippadibirra, Alvin il Rinnegato, il Vecchio Moltegrinze, Gothi e
Valhallarama, appartengono a Mrs. Cressida Cowell e DreamWorks, mentre Merida
DunBroch e la sua famiglia a Disney Pixar.
Se qualcuno riconoscesse nella mia
storia idee che ritiene di sua proprietà, mi creda se gli dico che non l'ho
fatto apposta, e spero non si offenda.
Infine, preciso che questa storia è
stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Nota dell'autrice: lo so che questa storia fa a pugni con tutti
gli altri crossover scritti su "Dragon Trainer" e "The Brave". Tuttavia, è il
primo intreccio che mi è venuto in mente quando, una sera, mio figlio mi ha
domandato dov'era finita la mamma di Hiccup nel film - nei romanzi, sua madre è
viva e ha l'assurdo nome di Valhallarama. A un figlio, su certe cose, non si può
rispondere semplicemente "E che ne so!", e avendo visto "The Brave" da poco, ho
immaginato che la mamma di Hiccup potesse essere una certa Principessa
Scozzese... anche se a lui non l'ho raccontata esattamente così.
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