01 - Wyrd
Il tempo è breve; chi insegue l'immenso perde l'attimo presente.
[Euripide]
01 – Wyrd
Bianca guardava il vuoto, davanti a
se. La grossa porta di metallo pesante era chiusa con un lucchetto,
impossibile da forzare, segnata da diversi fori di proiettili e chissà
quale altre armi. Il grosso lucchetto luccicava in quella notte oscura:
doveva essere nuovo, perché non vi erano segni di effrazione e, in una
zona come quella di Londra, sembrava qualcosa d’impossibile. Alla fine,
bastava vedere la metropolitana e la sua fermata: il Lambeth North era
una zona invivibile oramai, soprattutto quando il sole scendeva e si
alzava il freddo londinese.
Scoccarono le nove e quaranta
quando la giovane Bianca alzò il cappuccio della grossa felpa bianca e
s’incamminò verso la stazione metropolitana che distava da quella
strada per circa dieci minuti: sarebbe poi salita sulla linea marrone
fino a Oxford Circus dove avrebbe cambiato sulla linea rossa e sarebbe
scesa a Tottenham Court Road, nel centro di Soho, dove aveva un piccolo
appartamento in condivisione con altri studenti.
Quando la prima goccia toccò la
custodia rigida della chitarra, sbuffò appena, allungando il passo per
non trovarsi fradicia: i jeans stretti e scuri che portava erano
arrotolati alle caviglie che le lasciavano scoperte alle intemperie e
le scarpe bianche e crema, di quei modelli alti quasi alla caviglia che
andavano tanto di moda, si infangavano ad ogni passo.
Entrò nella stazione che puzzava di
ogni odore possibile con i lunghi e mossi capelli rossi che uscivano
dal cappuccio cadendo sul petto oramai fradici, la felpa bianca
diventata aderente e la custodia della chitarra bagnata:
fortunatamente, quella era impermeabile. Scese dalle scale e, dopo aver
fatto passare l’abbonamento nell’apposita macchinetta, si mise in fila
con tutti gli altri poveri e sfortunati viaggiatori. Estrasse dai jeans
il cellulare ultimo modello che le era stato regalato ma che tanto
odiava: troppo ingombrante, con uno schermo talmente grande che non
poteva usarlo con una sola mano. Mandò poi un messaggio ad Axel, uno
dei suoi coinquilini, scrivendo che sarebbe tornata a casa entro un’ora.
-Come è andata stavolta?- Fu
la celere risposta. Bianca rimase zitta e lasciò quel messaggio in
sospeso, mentre saliva sui grandi vagoni ancora affollati a quell’ora e
si sedette nel primo posto che trovò.
Prese fuori una cartina dalla
scatola oramai segnata dalle mille avventure che aveva vissuto e, con
precisione scientifica, vi pose dentro dell’ottimo tabacco: arrotolò
poi il tutto e, con una leccata leggera e veloce, chiuse quella piccola
sigaretta che presto si sarebbe potuta gustare. Era uno dei vizi che
aveva, quello del fumo. Uno dei tanti.
Quando fu annunciata la stazione di
Oxford Circus si avvicinò lentamente alla porta: affianco a lei, una
bambina dai grandi occhi azzurri la fissava. Attirava spesso lo
sguardo: alcuni dicevano che era per la sua bellezza, ma lei non ci
credeva mai molto. Sapeva che era per quella guancia destra, segnata da
un orribile cicatrice verticale, che arrivava fino all’angolo creato
dalla congiunzione delle labbra. Il suo inizio, invece, era coperto dai
capelli, ma si trovava vicino all’orecchio. Oramai quel segno era
rimarginato, ma lasciava sempre un alone di terribile mistero dietro al
viso dai grandi occhi neri in cui la pupilla scompariva, visto quel
tenebroso colore: era sempre un segno in superficie che la segnava,
solo una mera trasposizione dell’immenso dolore interno che ancora
provava.
Finalmente arrivò alla strada in
cui abitava e, con sommo stupore, lesse “Affittasi”: solo allora le
venne in mente quanto stupida era. Dopo tre mesi che si erano
trasferiti in Baker Street ancora sbagliava la strada: era causato dal
trauma che aveva subito, diceva sempre Axel, lui coi suoi studi sulla
psicologia freudiana.
Baker Street distava parecchio da
lì, ma decise comunque di muoversi a piedi, per il semplice fatto che
odiava i taxi e che l’aria, quella sera, era piacevole: per quanto la
pioggia continuasse a scendere inesorabile, s’intende. Le strade, anche
le più affollate, erano spoglie di gente: vi erano solo molti Salary
Man che correvano da una parte all’altra, scendendo e salendo da
eleganti macchine nere lucide come poche altre. Tutta quella frenesia,
Bianca, non riusciva a capirla: per lei, che aveva vissuto per sedici
anni in un paesino di appena duecento persone nella fredda Norvegia,
proprio nella cima dello stato, tutto quel mondo ancora sembrava
strano. Anche se oramai viveva a Londra da sei anni, aveva sempre
mantenuto quell’allure nordico: aveva una camminata elegante, a volte
sembrava volasse da quanto era leggera, un fisico asciutto e lo sguardo
freddo e cattivo, forse a causa di quel colore oscuro.
Arrivò a Baker Street che erano le
dieci inoltrate oramai: salì fino al secondo piano ed entrò
nell’appartamento in stile ottocento che divideva con quattro persone.
Sfilò le scarpe e le lasciò fuori, per non bagnare ovunque: saltò poi
nel salotto, in cui le fiamme del caminetto creavano un’atmosfera molto
accogliente e calda, attenta a non poggiare nulla sui tappeti che
riempivano il pavimento di legno scuro. Due dei coinquilini, Axel e
Francine, una deliziosa francese che ancora non parlava perfettamente
inglese, erano seduti davanti al camino, in due poltrone rosse, che
giocavano a scacchi, uno dei loro impegni preferiti.
Erano talmente impegnati che Bianca
riuscì a sparire al piano superiore, dove si diramavano le stanze. La
prima a sinistra era quella di Axel, un bell’americano dagli occhi di
vetro, i capelli di fuoco e una pelle ambrata tutto l’anno. La seconda
a sinistra era quella di Bunny, la scozzese: una tipa tutta pepe, con
corti e riccioli capelli color carota, curiosi occhi verdi e un nasino
simile a quello di una fatina. Era una tipa strana, Bunny, con le sue
passioni per la mitologia nordica e i suoi studi di biologia applicata:
era immersa sui libri quasi tutto il giorno e, nel periodo di libertà
da quest’ultimi, stava per intere ore a domandare alla povera Bianca
della sua Norvegia, e di ogni credenza che vi era.
A destra, vi erano altre tre
stanze: la prima era quella di Vladimir, il russo, che era l’ultimo
arrivato. Un tipo silenzioso e misterioso, alto quasi due metri e dal
fisico scheletrico, con grandi occhi azzurri e una pelle diafana: era
andato ad abitare lì dopo il loro trasferimento e studiava
criminologia, o almeno questo Bianca ricordava.
La seconda stanza era occupata da
Michelangelo, un giovane italiano che Bianca aveva conosciuto appena
arrivata a Londra: era un artista, e da un nome simile non ci si poteva
aspettare altro. Era un tipo allegro, intelligente ed estremamente
dotato nel disegno: era un pittore nato, e spesso si vedeva della tinta
uscire dalla sua porta. Era un moro alto, dagli occhi scuri e
penetranti, che aveva sempre avuto un certo interesse per la nordica,
che però mai era stato ricambiato. Era però un ottimo confidente,
qualcuno di piacevole con cui girare per Londra, vista la sua immensa
cultura.
L’ultima stanza era la sua. Era tra
le più grandi, soprattutto paragonata a quella di Vladimir: aveva una
finestra da cui si poteva vedere il Tamigi e il palazzo dei reali. Un
grosso letto sulla parete destra, un armadio su quella sinistra ed un
immensa scrivania piena di qualunque oggetto possibile: aveva anche una
libreria, posta sopra il letto, che doveva raggiungere grazie ad una
scala, vista la sua minima altezza.
Fu proprio Michelangelo a vederla
quella sera: aveva la porta aperta, da dentro si sentivano strani
rumori e Bianca si affacciò giusto per curiosità. L’artista stava
lavorando un pezzo di creta che per ora prendeva la forma di un busto:
Bianca sorrise, riconoscendo in quel busto il volto di Thor.
Probabilmente era stata una richiesta di Bunny, e Michelangelo non
aveva saputo dire di no.
<< Mi meraviglio sempre che
tu abbia tale bravura, Michelangelo. >> Disse alla fine Bianca,
vedendo il volto perfettamente scolpito che sembrava proprio quello del
Dio del Tuono.
<< È sopravvivenza, mia cara!
>> Disse lui, senza muoversi da quel posto. << Se non
avessi creato tale opera, Bunny non mi avrebbe più fatto vivere!
>> Bianca adorava l’enfasi che Michelangelo usava per ogni suo
discorso: si vede che amava la vita, quel ragazzo.
La rossa gli sorrise semplicemente,
prima di avviarsi a passo leggiadro nella propria stanza, in cui trovò
le finestre spalancate brutalmente: se quelle furono le prime cose che
notò, solo successivamente il suo sguardo saltò sul letto sfatto,
l’armadio aperto e, orribilmente rovinata, la scrivania in cui sopra
ora non vi era più niente. Ebbe un balzo al cuore, prima di scattare
velocemente a quest’ultima e trovare una scatolina aperta, in cui il
contenuto era stato rimosso: rimase in silenzio per qualche secondo,
prima di richiamare l’attenzione di tutti gli altri abitanti della casa.
Mentre nella casa tutti si erano
mobilitati per chiamare la polizia, Bianca rimase a fissare la
scatolina: non sentiva le domande di Axel che chiedeva se mancava
altro, o il sano stupore di Vladimir che, giurava, di non aver sentito
passo o rumore proferire a quel piano.
Eppure qualcuno aveva cercato
ovunque, quell’anello: la piccola fede d’argento, che riportava un
rubino al centro, donato dalla madre alla giovane norvegese prima di
partire. Poi il suo occhio fu attirato da quel foglio minuscolo, che
ora prendeva posto dell’anello: la parola “Wyrd” era scritta
velocemente, in calligrafia confusionaria e disordinata.
Bianca rimase in silenzio, prese il
foglio e si accomodò poi sul letto sfatto, aspettando la polizia a cui,
con sincerità, non avrebbe saputo cosa dire.
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