Storia
prima classificata al contest Come vivresti in una
cella? indetto da _Sebba sul forum di Efp.
Storia seconda
classificata al contest Con
una citazione migliora tutto! indetto da Niananima sul
forum di Efp. (Ma con i giudizi di Alchimista93)
Ha partecipato al
contest 10 songs flash contest indetto da Frandra sul forum
di Efp, senza classifica. Il bellissimo commento è nelle
recensioni.
Nota legale: La qui
presente storia originale è da considerarsi
proprietà esclusiva dell'autrice; pertanto, non
può essere riprodotta - totalmente o parzialmente
- senza il consenso di quest'ultima. Titolo © Strangeways,
Here We Come, 1987, The Smiths.
Avvertimenti:
tematiche delicate.
Note: Allora, ho
affrontato un tema delicato: la prigione, intesa nel vero senso del
termine, e un'altra prigione, diversa, più subdola,
rappresentata degli stereotipi e dai pregiudizi della
società. L'anno è 1985, come si può
intuire da riferimento al Live Aid, che, per chi non lo sapesse, fu un
festival organizzato da Bob Geldof per raccogliere fondi e
così estinguere la carestia in Etiopia. La canzone
che canticchia Zelda invece viene dall'album Meat Is Murder degli
Smiths, uscito nel febbraio dello stesso anno. #accurate.
Il titolo invece,
sempre degli Smiths, è tratto dall'omonimo album - quarto e
ultimo della band inglese. Strangeways Prison era - ed è -
prigione di massima sicurezza di Manchester.
QUI.
Subito.
Strangeways,
here we come
Forget
what we're told
Before
we get too old
Show
me a garden that's bursting into life
Let's
waste time
Chasing
cars
Around
our heads
(Chasing
cars, Snow Patrol)
Caro
Jon,
scusa
se ti scrivo dopo così tanto tempo, ma ho avuto il mio
bell’affare tra le mani.
Oggi
il sole brilla e fa caldo come quell’estate.
Il luglio
dell’85 era stato forse il mese più caldo che
ricordavano in diciassette anni scarsi di vita. Dalla radiolina
scassata venivano trasmessi sommessamente i pezzi migliori del Live
Aid, la voce di Bowie distorta nella calura del pomeriggio.
Ai piedi del vecchio
albero – un salice nodoso e verdissimo con la corteccia
coperta di muschio - vicino alla diga, sopra una vaschetta di gelato
alla fragola ormai sciolto e infelicemente lasciata a metà,
ronzava uno sciame impazzito di mosche.
«Potevi
anche portarne meno, di gelato. Quattro etti non ti sembrano un
po’ eccesivi per due persone sole?» il ragazzo
accucciato contro il tronco fece una smorfia disgustata, tentando
invano di scacciare gli insetti.
«Meglio
abbondare sempre, mio buon compagno. E specificherei di essere stata
l’unica a toccare cibo» girando pigramente il collo
verso destra, Zelda fissò soddisfatta il suo piatto vuoto e
il cucchiaio lucente.
Toc
«Quest’affare non funziona, dove l’hai
rimediato?» l’interrupe l’altro cercando
di far ripartire la musica.
Toc
«E non sviare discorso, Mister heilà, sono Jon e
non tocco cibo da quasi tre settimane. Credo sia giunto il momento di
affrontare l’argomento a viso aperto».
Toc, il colpo fu
più forte, più cupo. Se Jon non voleva parlare,
non avrebbe parlato.
«Da’
qua» Zelda si alzò sbuffando, strappando dalle
mani dell’amico, ossute, lunghe, mani da pianista –
mani da donna, quasi – l’orribile, minuscola radio
dai colori fluorescenti.
«Vai, mia
piccola McGyver!» Jon rilassò la fronte, un
accenno di sorriso sulle labbra, nell’osservare
l’altra armeggiare sapientemente con i circuiti, minuscoli
fili metallici colorati, incapaci di scaturire in lui alcun interesse.
Zelda, al contrario, ne era affascinata, lo era stata fin da bambina,
con quella sua mania testarda di voler sempre capire tutto, smontando e
rimontando i più strani apparecchi che disgraziatamente
finivano sulla sua scrivania. Spostò i capelli dalla fronte
sudata, lo sguardo vittorioso di chi ha appena combattuto e vinto
un’ardua battaglia.
“I want to
go home
I don't want to stay
Give up life
As a bad
mistake”¹
Gli Smiths iniziarono
a cantare, la voce stonata della ragazza unita alla loro, mentre
portati dal vento risuonavano i rintocchi di campana di qualche chiesa
battista.
«Dovresti
mangiare» un sussurro flebile, un guizzo di malinconia negli
occhi blu pallidi e Jon capì subito che la sua muta
preghiera di lasciar cadere il discorso non era stata esaudita.
«Sai, amore
e musica possono bastare a colmare una vita» le mani
disegnavano ghirigori nell’aria «il resto
è poca cosa» sorrise timidamente, lui e i suoi
ragionamenti naif, il suo modo caparbiamente ingenuo di approcciarsi
alla vita, uno stupore instancabile nei suoi enormi occhi da bambino
cerchiati di occhiaie, in balia di un continuo caleidoscopio
di colori, sapori, sensazioni, note.
Zelda stette in
silenzio, tacendo anche che l’amore, per quanto nobile
sentimento, non riempiva lo stomaco e lei non voleva il pallido
riflesso di un migliore amico, lo voleva fatto da carne e ossa e
muscoli che guizzano.
Ma capiva che, come
gli occhi delle mosche, ognuno decompone la sua realtà. Si
buttò giù sull’erba umida, cullata dal
gorgoglio del fiumiciattolo limaccioso che nasce dalla diga: erano
davvero diversi, loro due.
Jon
considerava ogni momento irripetibile, come se fosse a
sé stante, forse era quella la sua vera forza. Scomponeva la
vita in attimi più sopportabili e meno dolorosi, per
dimenticare gli insulti e gli sputi, presenze costanti nelle meccaniche
giornate passate dentro un istituto bigotto e ipocrita, che gli stava
stretto come una prigione.
«E poi, se
dimagrisco, credo di avere anche più speranze con il
quarterback» il ragazzo fece l’occhiolino.
Eccolo
lì, il suo migliore amico, quaranta chili di ossa
e amore: Jon il cazzone, che doveva rovinare ogni momento topico.
Jon il confidente
più amato.
Jon il frocio.
Semplicemente, Jon.
La ragazza
gattonò per qualche metro per avvicinare la punta del naso
al viso spigoloso dell’amico.
«Se me ne
stessi qua sdraiata, se proprio me ne stessi qua, staresti con me e ti
dimenticheresti del mondo?»²
un sospiro, una testa che si solleva, due corpi che si abbracciano
«Sì».
Le campane suonarono
nuovamente: erano lì da un tempo indefinito, sarebbe potuto
durare per sempre.
Eravamo
giovani, così giovani.
Se
dovessi descrivere quei pomeriggi, l’unica parola possibile
sarebbe “felicità”.
Forse
è questa la felicità, non un sogno, non una
promessa, solo un istante. Ma è fragile, delicata come le
ali di una farfalla. Come quelle di una mosca.
Quella sera, Zelda non
riuscì a contattare Jon, né la mattina
successiva, né quella dopo ancora.
Ed ebbe paura: un
terrore lacerante e viscido, come non provava da tanto tempo, da prima
di incontrare quel ragazzetto svampito con la passione per David Bowie.
Zelda si ricordava
ancora la bocca impastata, la bile ristagnate, le notti insonni, il
respiro affannato come dopo una lunga fuga, una fuga da se stessi.
Ma come fai a sfuggire
da te stesso? È follia, pazzia pura.
Attacchi di panico, li
avevano definiti i dottori.
Erano arrivati una
bella mattina, quando Zelda faceva ancora le medie, ed erano spariti
l’estate del secondo anno delle superiori, così
come erano venuti.
Jon l’aveva
curata, senza chiedere niente in cambio, facendosi carico di terrori
non suoi, ma aggiunti a quel suo segreto inconfessabile.
L’aveva confessato, infine, era stato il più
coraggioso di tutti.
Deviato, pazzo, contro
natura. Uno schifoso pervertito succhia cazzi, l’aveva
definito Mary Kate, nella sua purezza di pluridecorata figlia del
pastore della parrocchia.
Così, un
soleggiato pomeriggio di luglio, suo padre l’aveva portato
via, l’aveva rinchiuso in una clinica.
«Lì ti cureranno» aveva detto
«sarai normale» con l’ansia ad
attanagliargli le viscere. Con una convinzione cieca di poter
aggiustare un meccanismo perfetto.
Zelda sapeva che,
quando ci si intestardisce a voler migliore un oggetto già
funzionante, lo si rompe definitivamente.
Le era successo con il
cucù del nonno, successe anche con Jon.
Nessuno le
raccontò cosa accadde dentro quella clinica, ma Zelda si
immaginò un bianco, bianco accecante ovunque, puzza di
varichina, disinfettante, puzza di ipocrisia e terrore, così
forte da far dimenticare tutto il resto.
Non lo vide per sei
mesi: anche l’autunno del Maine aveva perso i suoi colori.
Il suo migliore amico
tornò nel gennaio ’86 e non era più lo
stesso, aveva lasciato da parte lei e i caleidoscopi. Le merende, le
mosche sul gelato e David Bowie.
Seguiva il football in
televisione, non suonava più Bach e si era fidanzato con una
certa Betty o Mary, forse Jenny.
Una bionda tutta
ciglia e labbra rosa che capiva le battute con quindici minuti di
ritardo. Secondo tutta la comunità, era diventato una
persona migliore quando morì, il dicembre dello stesso anno.
Le cronache raccontano
di una coltellata in pieno petto.
Ognuno
ha la sua prigione, avevi detto.
La
tua era fatta di dita spinte in gola fino a cacciare gli occhi fuori
dalle orbite.
Erano
le botte, il sangue secco, i pettegolezzi nei corridoi di scuola.
La
mia era l’incapacità di agire, quella paura cieca
che mi attanagliava lo stomaco ogni volta che dovevo prendere una
decisione, il terrore di essere notata.
Alle
fine credo di essere diventata la tua migliore amica proprio
perché eravamo complementari. Per me eri una scarica di
adrenalina e sei stato fondamentale con la tua voglia di vivere,
nonostante tutto, così impetuosa, inarrestabile come
l’onda di Hokusai sul poster in camera di tuo fratello.
Ricordi te l’avevo detto una mattinata chiara, forse era
primavera: ho bisogno della tua grazia per ricordarmi di trovare la mia.³
Ed
era vero.
Grazie
a te, alla fine sono uscita dalla mia prigione. Ora le sbarre che mi
circondano sono ferro, freddo e reale.
Volevo
solo sdebitarmi, liberarti a tua volta, e spero di esserci riuscita.
Quello
non eri tu. Hai sorriso, quando ti ho infilato il coltello tra i
polmoni.
Una
radiolina trasmetteva Space Oddity.
Scusa
se ti ho ucciso.
Tua,
Zelda
Note:
¹
The
Headmaster Ritual, The Smiths;
²
Chasing
cars, Snow Patrol: If I lay here /If I just lay here /Would
you lie with me and just forget the world?
³
Chasing cars, Snow Patrol: I need your grace /To remind me /To find my
own.
(Se cliccate sui
titoli vi ascoltate delle canzoni meravigliose - ah, la tecnologia!)
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