Lucrezia sta
tentando di scrivere quella lettera da ormai troppo tempo e in cuor suo
sa che non la finirà mai e le sue parole invecchieranno nel
cestino. È inutile perdere altro tempo a scervellarsi: una
volta recapitata verrebbe comunque stracciata, lanciata nel fuoco,
mangiucchiata fra le lacrime.
L’idea
le era piaciuta, per qualche ora; metterlo per iscritto
l’avrebbe reso più reale, avrebbe dato al tutto un
languore romantico, lo avrebbe purificato. Non può scrivere
perché le trema la mano. Dopotutto non è ancora
successo niente e imprimerlo sul foglio con la penna sarebbe come
emettere un’amara e prematura sentenza; il Caro Francesco in
alto a sinistra sa di presa in giro e anche le due righe successive le
risultano estranee: non può scrivere altro perché
non ha niente da dire e infiocchettare quella lettera venefica con
piccole concessioni e aneddoti affettuosi non ha alcun senso. Sono
tutte cose che Francesco scoprirebbe per la prima volta da un pezzo di
carta, piuttosto che dalla bocca di sua moglie.
Lucrezia
controlla l’ora e decide di lasciar perdere: se mai ne avesse
voglia, potrà scriverla dopo.
La pioggia
batte forte contro le imposte, le sembra di avvertire dei brividi sulla
schiena. Dà un’ultima occhiata allo specchio e si
stringe la cinta della vestaglia. Le sue cose sono al loro posto sul
mobile – profumi, creme per il corpo, smalti e cosmetici vari
– e il letto è intatto; non una piega sul piumone,
non un lembo che fuoriesce; la valigia è nascosta sotto la
scrivania; le tende sono accostate e la stanza ha un’aria
raccolta che le piace molto. È tutto in ordine, ogni cosa
è al suo posto. Lucrezia fa due passi per la stanza e si
guarda ancora nello specchio; non mostra un briciolo di tensione, non
una smorfia di agitazione.
Fa un respiro
profondo e, raccolte le estremità della veste, si siede sul
letto ad aspettare. È un momento curioso, si dice: si trova
in una sorta di limbo, è venuta in quella camera
d’albergo vincendo l’indecisione, sulle pareti
appaiono proiezioni dell’adulterio, ma non è
ancora successo nulla. È in tempo per tornare indietro,
potrebbe riportare tutto a casa e nessuno si accorgerebbe di nulla.
A un certo
punto, quella mattina, si è chiesta che cosa diavolo stesse
facendo e ha avuto l’impulso di scappare. Tante sue amiche
hanno ricevuto quel genere di offerte più o meno esplicite e
tutte, per quanto abbiano vagheggiato compiaciute quella
possibilità, hanno rinunciato; la salvaguardia del vincolo
matrimoniale prima di tutto; i figli prima di tutto; la
rispettabilità prima di tutto; la sicurezza economica prima
di tutto. Lucrezia invece ha detto il suo sì con tono
sicuro, senza nascondersi dietro ammiccamenti o rossori di sorta. Ha
detto sì ed è rimasta nella stanza. Una parte di
lei sa con lucidità che non può permettersi di
fuggire, che c’è qualcosa che la tiene ancorata al
letto – un
uomo che guarda una donna con concupiscenza ha già commesso
adulterio con lei nel suo cuore.
Ha imparato a
memoria ogni anfratto di quella camera; l’ha percorsa a passi
nervosi per tutto il giorno, ha provato la vasca da bagno e saggiato la
morbidezza dei cuscini, controllato i cassetti e serrato bene le
finestre. Sa perfettamente dove si trova – nella camera di un
motel in periferia – che cosa ce l’ha portata
– un uomo le ha chiesto di incontrarsi lì
– e che cosa sta per fare – un’ora di
amore clandestino con lui.
Ha pensato:
se non venisse? Durante le prime ore è stata tentata dal
prendere il cellulare e telefonargli, avere la certezza di non essere
da sola, di non aver sognato tutto quanto, ma non l’ha fatto.
Anche telefonargli avrebbe significato rendere il tutto reale, farlo
accadere di già. Lucrezia ha voluto riservarsi fino
all’ultimo la libertà di rifiutare, di andarsene
via; con questi pensieri contraddittori si è sistemata nella
stanza con l’idea di rimanere lì fino
all’ora di pranzo. Una volta lì dentro,
però, ha scoperto una tranquillità che non aveva
idea di possedere. Quella camera d’albergo l’ha
raccolta e protetta da ogni esitazione, tutto ciò che di
pauroso e incerto le girava per la mente è rimasto
lì, dietro la porta. La lettera per suo marito è
stata partorita in un momento di noia, nella sciocca idea di volersi
sentire come l’eroina di un romanzo ottocentesco. Caro Francesco ti scrivo per
dirti come ho passato la mia giornata oggi. Stamattina ho raccolto le
mie cose e mi sono sistemata in una camera d’albergo; ho
aspettato un uomo per tutta la giornata e poi ha
abbandonato la penna. Ora fissa la maniglia d’ottone, il
cuore le batte più forte, le pare di aver sentito il rumore
di una portiera; presto qualcuno arriverà da dietro quella
porta e, in un modo o nell’altro, la priverà di
qualcosa. I due colpi brevi e secchi esigono una risposta precisa, un
sì o un no.
Da quel
momento in poi succede una cosa strana; è lì
sulla soglia, mette il naso fuori timorosa di non trovarlo, poi a un
tratto si allontana: è come se una mano invisibile
l’avesse presa e portata su palco privato che dà
sulla camera, come non fosse presente a se stessa in quel corpo, in
quelle ciabatte: lei che apre la porta e quasi indietreggia, scossa
dalla sua presenza, lui che si infila nello spiraglio con modi spicci.
«Entra,
fa freddo.»
Lui che si
dà un’occhiata in giro, controlla che non ci sia
niente di strano e indugia per qualche secondo in più sulla
scrivania.
«Niente,
non sapevo come passare il tempo» minimizza lei, che si
affretta a trarre a sé la lettera incompiuta.
Non ci
può credere, non le sembra vero finché non sente
–sente e vede– le sue mani infilarsi sotto la
vestaglia, spingerla oltre le spalle e lungo le braccia, i loro piedi
calpestarla insieme ad altri vestiti, loro che si schiantano sul
materasso senza dirsi niente. Lei che cerca di sistemarsi fra i
cuscini, lui che deve fare attenzione a non cascarle addosso; lei che
domanda: «Sei contento?», lui che la tira per i
fianchi.
Lucrezia si
ripete che è ciò che vuole, ma non riesce a
scendere da quel palco e riconoscersi nell’uccellino che
è stato acciuffato da una mano nodosa; sta lì a
guardarsi con la paura di pensare, figurarsi proferire parola.
«Ti
sei fatto crescere la barba?»
Lui si
acciglia, puntellandosi su un gomito.
«Ce
l’ho sempre, la barba» risponde.
Lucrezia
sorride e gli passa una mano sulla guancia. L’altra volta non
pungeva così tanto, pensa, tuttavia continua a sorridere con
affetto. Anche lui ricambia il sorriso e le accarezza i capelli.
«Che
cosa hai fatto oggi?» domanda.
«Come
cosa ho fatto? Ti ho aspettato» fa lei, con
semplicità.
«Tutto
il giorno?»
«Sì,
tutto il giorno.»
Lucrezia,
anche dal palco, può vedere benissimo gli occhi di lui
sgranarsi per la meraviglia.
«Tutta
la mattina» precisa, persistendo nel sorriso.
Lui sbadiglia
intorpidito, lei si raccoglie le braccia al petto.
«Ma
c’è la finestra aperta? Sento freddo»
Si siede e
allunga il collo per controllare lo stato delle imposte, che sono
esattamente come le ha lasciate: sprangate. Anche la porta è
chiusa, eppure Lucrezia sente freddo e si guarda intorno nella speranza
di scoprire un pertugio, una fessura dalla quale proviene lo spiffero.
Tutto è in ordine, tutto è come lo ha lasciato,
tranne per i vestiti sparsi sulla moquette e le lenzuola arricciate.
«Hai
freddo?» domanda lui.
«Sì,
ho freddo.»
L’attira
a sé, abbracciandola. Lucrezia ha un verso di sorpresa e
cerca di divincolarsi.
«Di’
la verità, che cos’è quella roba sulla
scrivania?»
«Che
roba?»
«Il
pezzo di carta là sopra.»
«Non
so di che parli.»
«Ma
dimmi la verità!»
Lucrezia vede
dal palco il suo amante sogghignare e muovere le mani sul suo corpo,
lei innervosirsi. Prova quasi pietà per se stessa, le
verrebbe voglia di irrompere sulla scena e separarli, mandarlo via.
L’unica cosa che le riesce di fare è tornare su
quel letto, voltare il capo e baciarlo sulla bocca. Sente ancora freddo
e la sensazione di vergogna non scompare; ha il suo sorriso cattivo
contro le labbra.
Stavolta
chiude gli occhi, volta il capo; si concentra su di lui, sui loro corpi
intrecciati e non osa guardare finché non sente il cigolio
del materasso.
«Dove
vai?»
Lui si volta
e fa un sospiro. È proprio necessario che te lo dica?,
sembra dire. Lucrezia non coglie alcun barlume di affetto nei suoi
occhi. Si riveste.
«Devo
andare.»
Nota che
indugia ancora sulla lettera e le pare di vederlo sorridere. Allora si
alza di scatto, raccoglie la vestaglia per coprirsi e lo accompagna
alla porta. Il nodo della cravatta non è ben stretto, la
camicia è arricciata attorno alla cintura.
«Aspetta,
faccio io.»
«Oh,
grazie.»
Lucrezia lo
aiuta a lisciare bene le pieghe per nascondere il turbinio in cui
l’indumento è stato coinvolto. Lui si guarda nello
specchio e si sistema i capelli, poi fa per andarsene. È un
po’ imbarazzato: non sa come congedarsi.
«Hai
la macchina?»
Le sorride,
grato per averlo tratto dall’impaccio.
«Sì.
Ciao.»
La porta si
apre e Lucrezia rabbrividisce; lui fa due passi fuori dalla stanza, poi
ci ripensa e torna da lei. Le prende una mano fra le sue e la bacia,
rivolgendole un sorriso.
Lucrezia non
freme al tocco delle sue labbra, non si commuove per quel gesto.
Accompagna il suo allontanarsi chiudendo la porta, la fa scattare con
eccessiva violenza. Si ferma dietro le tende per controllare se la
pioggia batte ancora, le scosta sperando di scoprire una feritoia, ma
è tutto quieto e le finestre sono chiuse. Rimette a posto le
lenzuola, raccoglie la sua biancheria da terra; per la prima volta nota
la polvere sulla moquette e pensa che, una volta a casa, le
toccherà caricare la lavatrice. Le creme e i cosmetici che
aveva disposto sul mobile finiscono dentro il beauty-case, da un
cassetto spuntano un maglione scuro e dei pantaloni comodi; due scarpe
dal taglio sportivo si allungano oltre il comodino. Lucrezia raccoglie
le sue cose, strappa il principio di lettera e si sposta nel corridoio
del motel.
Si gira a
guardare la stanza buia; ha l’impressione di aver lasciato
qualcosa lì dentro, così strizza gli occhi per
individuarla. Fa anche un giro attorno al letto, ma proprio non la
trova e allora, rassegnata, si chiude la porta alle spalle. Preme il
pulsante dell’ascensore e mentre aspetta che la raggiunga
scrive un messaggio a Francesco: sono
stata da mia madre. Sto tornando a casa.