capitolo2
Capitolo 2
Rosso
Il cuore di
Johel pulsava a un ritmo folle. L’adrenalina era in circolo,
tanto che il ragazzo si sentiva quasi svenire. Finalmente, dopo giorni
di viaggio, era giunto a destinazione. Davanti a lui, immenso e
meraviglioso, si stagliava il Portale che lo avrebbe condotto su Gea.
Era un perfetto arco a sesto acuto, creato con un’unica lastra di
pietra di luna; si trovava sospeso a mezz’aria, con dietro una
cascata che si gettava nel Lago delle Fate.
Johel fece un passo in avanti, portandosi così sul limitare del
dirupo. Spinto dalla curiosità, s’azzardò a
guardare in basso. Nonostante non soffrisse di vertigini, per poco non
fu colto da un mancamento alla constatazione di quanta elevata fosse la
cima di Monte Olimpo. Deglutì, sentendo nelle orecchie il
rimbombo ritmico del suo cuore, unito allo scroscio incessante della
cascata. Anche a quella distanza poteva avvertire l’energia
magica che avvolgeva il Portale: era come un enorme campo di forza che
lo attraeva ma, allo stesso tempo, lo respingeva. Osservò con
una certa apprensione la via che avrebbe dovuto percorrere per
raggiungerlo: era data da un susseguirsi di rocce piatte sospese nel
vuoto, le quali andavano a formare una specie scalinata in pietra.
Il giovane si voltò, dando le spalle a quello scenario, per
poter vedere un’ultima volta il suo drago, che se ne stava
immobile e rannicchiato. Sembrava che Sarabi percepisse la magia insita
nel luogo e se ne volesse tenere a debita distanza. La sua coda si
muoveva con scatti rapidi e ciò era l’unica testimonianza
del suo nervosismo.
Drago e ragazzo si fissarono. Johel cercò di sorridere, ma la
tensione del momento gli fece piegare le labbra in una smorfia.
“Ci vediamo tra una settimana. Fai la brava.” Gli piangeva
il cuore, ma non poteva portarla con sé. Rifletté sul
fatto che la sorte fosse piuttosto ironica dal momento che doveva
recarsi sull’unico pianeta in cui i draghi si erano estinti.
Sarabi emise un rombo cupo dal fondo della gola, parecchio contrariata.
Poco prima Johel le aveva tolto la sella, perciò sapeva che quel
gesto voleva dire che era libera di andare dove preferisse, perlomeno
finché il giovane non l’avesse richiamata.
Il ragazzo si costrinse a distogliere lo sguardo.
Diamine, si trattava solo di una settimana! Non era la fine del mondo!
Le sue iridi si posarono sui Sovrani di Palazzo Verde, che lo avevano
accompagnato fino al Portale, come richiedeva l’etichetta di
Arcobaleno. Poiché da secoli non vi erano terrestri dotati di
potere magico che potessero restare a presidio di quel Portale, tale
controllo era stato assegnato al dio Pan e alla sua compagna
Eco.
Eco era dotata di una bellezza eterea tipica delle ninfe: aveva un
corpo con curve morbide, appena celato dal peplo celeste, e una pelle
che pareva seta bianca.
Osservandoli l’uno accanto all’altro, Johel constatò
che Pan era l’esatto opposto della sua leggiadra sposa: il suo
fisico muscoloso sembrava scolpito nella pietra, mentre i capelli e la
barba castana facevano da cornice a un viso fiero e volitivo. Come
tutti i satiri, possedeva due robuste zampe caprine e un paio di corna
ricurve.
“È tempo che tu vada,” disse Pan con tono fermo.
Poteva immaginare che il ragazzo fosse attanagliato dall’ansia,
ma tergiversare non lo avrebbe di certo aiutato.
Johel vide Eco annuire; un attimo dopo la ninfa sorrise e, sollevando
il braccio, gli indicò il Portale alle sue spalle. “Non
esitare,” mormorò con voce melodiosa.
La brezza del meriggio le scompigliò la lunga chioma corvina,
diffondendo nell’aria l’odore intenso dei fiori che
componevano la sua corona.
Johel fece un profondo sospiro prima di girarsi. Raccogliendo tutto il
coraggio che possedeva, balzò sul primo masso sospeso nel vuoto.
La magia del Portale lo avviluppò. All’improvviso gli
parve di fare tutto con enorme difficoltà: stare in piedi senza
vacillare, tenere lo sguardo fisso sulla sua meta; perfino respirare.
Non si diede per vinto e, con la sua tipica risolutezza d’animo,
continuò ad avanzare. Per ogni passo compiuto gli sembrava che
fare quello successivo risultasse più semplice, tanto che,
superato metà percorso, riuscì a progredire con maggiore
velocità. Poi, finalmente, fu dinnanzi al Portale. Da quella
distanza ridotta gli apparve ancora più magnificente. Col cuore
in gola, il rumore assordante della cascata a coprire ogni altro suono,
si decise ad attraversarlo.
Agli occhi di Eco e Pan, che erano rimasti a guardare la sua lenta avanzata, Johel, semplicemente, sparì.
Pianeta Gea, lunedì 27 agosto 2012
Federica, dopo aver dato l’ultima pennellata, osservò con
aria critica il proprio lavoro. Sorrise, le iridi scure risplendenti di
felicità. Le erano occorse settimane per fare quel dipinto, ma
ora, contemplandolo, si rese conto che ne era valso ogni sforzo. Scese
dalla scaletta, appoggiò con attenzione il pennello sporco sulla
tavolozza e si tolse il grembiule che aveva indossato fino a quel
momento per evitare di sporcarsi i vestiti.
Lanciò un’occhiata distratta al ragazzo disteso su una delle panche del locale.
Dorme ancora?, si chiese,
meravigliandosi di quel comportamento. Ultimamente l’amico le era
parso sempre stanco e svogliato, come se fosse tormentato da qualcosa.
In cuor suo sperò che, di qualsiasi problema si trattasse,
gliene parlasse al più presto. Come poteva aiutarlo, se quello
stupido ottuso non si confidava? Ogni volta era una lotta per cercare
di cavargli le parole di bocca.
Vide il giovane muoversi nel sonno, le palpebre chiuse che vibravano appena.
Chissà cosa sogna,
pensò Federica; poi corrucciò il viso, un po’
dispiaciuta di non aver avuto compagnia mentre lavorava al dipinto. Mi auguro almeno che tu stia facendo un bel sogno, Christian.
Il suo cellulare si mise a squillare e si affrettò a rispondere
prima che il rumore potesse infastidire l’amico.
“Nonno,” sussurrò al ricevitore, mentre si
allontanava il più possibile per poter conversare a un tono
più elevato. Ascoltò ciò che il suo interlocutore
aveva da dirle, annuendo a tratti, sebbene la persona che le stava
parlando non la potesse vedere.
“Nonno, sei sicuro di voler uscire con questo caldo? Non voglio
che ti affatichi! Io e Christian ce la sappiamo cavare anche da
soli.”
La ragazza cercò di persuadere l’amato anziano, ma come
aveva già presupposto con scarsi risultati, visto la risposta
prevedibile che le diede. Alzò gli occhi al cielo, rassegnata a
dovergliela dare vinta. “Va bene, nonno. Ti aspettiamo per le
tre, allora,” disse condiscendente. Dopo i saluti di rito, pose
fine alla chiamata.
Un ricciolo scuro sfuggì dalla costrizione della fascia che
teneva in testa, andando a solleticarle il naso. Con un gesto
distratto, Federica lo risistemò sotto la stoffa, stando attenta
che questa riuscisse a coprirle le orecchie. Aveva una vera e propria
fissazione per esse, dal momento che erano a sventola; era la parte del
suo corpo che meno prediligeva. Non che sporgessero in maniera
eccessiva, ma a sufficienza da darle fastidio; per tale motivo, ogni
stratagemma era buono per nasconderle.
Cercando di fare il minor rumore possibile, iniziò a mettere a
posto il materiale che aveva usato per dipingere. Da un lato era un
po’ indispettita che Christian non la aiutasse nemmeno in quel
semplice compito, dall’altro era cosciente che, se il ragazzo si
era addormentato in maniera tanto repentina, aveva accumulato sonno
arretrato e lei non se la sentiva di svegliarlo.
Sbuffò: a volte odiava il suo spirito da Croce Rossina.
Scacciando quei pensieri, si rimise al lavoro, sapendo che l’amico si sarebbe risvegliato per l’ora di pranzo.
***
Le dune del deserto sembravano un mare rossastro durante il tramonto.
La ragazza avanzò con passi
lenti e silenziosi, lasciando dietro di sé delle orme che
venivano presto nascoste: bastava un alito di vento e la sabbia mutava,
si trasformava, in un continuo gioco dinamico.
La giovane non ci fece caso; la sua
attenzione era focalizzata sull’oasi rigogliosa davanti ai suoi
occhi. Sapeva di essere nel posto giusto al momento giusto. Non avrebbe
fallito.
Impalpabile come un’ombra, si
acquattò alla base di una palma e attese. Se ne stette
lì, la spada giacente vicino ai piedi nudi, i lunghi capelli
neri tenuti a bada da un pezzo di stoffa e le iridi sanguigne a
scrutare la zona circostante.
Finalmente, dopo minuti che le
parvero ore, un bagliore improvviso la mise in allerta. Fu allora che
la scorse: il becco ricurvo, le piume del color dell’oro e la
lunga coda infuocata. Per la prima volta nella sua giovane vita Ailin
vide la leggendaria fenice, il meraviglioso uccello amato e venerato
dal suo popolo.
A tale splendida visione rimase senza
parole; poi, con la risoluzione tipica della sua Gente, decise di
agire. Sapeva che era rischioso, ma era fermamente intenzionata a
tornare a casa con una di quelle piume come ambito trofeo.
La mano brunita strinse l’elsa
della spada: era pronta ad attaccare. Si sentiva sicura e invincibile
ma, dopotutto, era pur sempre una Figlia dell’Arcobaleno.
Christian si destò di soprassalto, gocce di sudore gelido a
imperlargli la fronte. Si massaggiò le tempie nella speranza di
scacciare l’emicrania martellante.
“Ben svegliato, principino,” lo sbeffeggiò una voce
nota. “Sono felice di constatare che la mia compagnia sia tenuta
in così alta considerazione.”
Il giovane si guardò attorno, riconoscendo subito le panche e i
tavoli di legno intarsiato del locale in cui lavorava. Cavolo, si era
addormentato nella libreria! Poteva andare peggio di così?
Con un gemito si mise a sedere e solo allora notò che Federica,
la sua migliore amica nonché collega, lo stava osservando con
cipiglio severo. Nonostante un’altezza che non superava il metro
e sessanta, la ragazza aveva un atteggiamento combattivo che la rendeva
piuttosto intimidatoria. Era inquietante anche in quel momento, con le
mani sui fianchi, il fisico minuto avvolto in una corta salopette di
jeans e i riccissimi capelli bloccati da una fascia variopinta.
Christian scosse la testa, come se quel gesto potesse fargli schiarire
i pensieri. “Scusami, Chicca,” disse mesto, “nemmeno
mi ero accorto di essermi addormentato.”
L’amica alzò gli occhi al cielo, poi guardò
l’altro con maggiore attenzione. “Chris, sono giorni che
sei strano. Sei sicuro di non avere bisogno del medico?”
“Non sono malato!” protestò subito il ragazzo.
Rimase un attimo in silenzio, ragionando se fosse il caso di mettere al
corrente Federica su ciò che gli stava succedendo. Non che
temesse di venire deriso, dal momento che la giovane era sempre attenta
a non urtare i sentimenti altrui, ma egli stesso riteneva
l’intera faccenda assai strana. Alla fine decise di essere
sincero. “Da un po’ di tempo faccio dei sogni strani.
Quando mi sveglio non me li ricordo, ma poi, all’improvviso, ho
come dei flash e mi vengono in mente dei particolari.”
“Del tipo?” chiese Federica, inclinando la testa con fare assorto.
“Beh, sogno personaggi fantastici come elfi, draghi e fenici. E
la cosa assurda è che sono sogni talmente vividi da sembrare
reali.”
Christian si alzò e raggiunse l’amica, ignorando i dolori
alla schiena per aver riposato sulla panca che, nonostante
l’imbottitura dei cuscini bordeaux, rimaneva comunque una
superficie dura. “Pensare che io odio il genere fantasy. Mi piace
l’avventura ma, vi prego, basta con i soliti cliché di
draghi ed elfi.”
“Christian, stai parlando a vanvera, lo sai?”
L’altro emise una risatina. “Come al mio solito, no?”
disse, tentando di dare alla vicenda meno importanza possibile.
Federica scosse la testa e allargò le braccia, come se con quel gesto volesse dire: ‘Ci rinuncio!’
Quel lunedì pomeriggio avrebbero riaperto la libreria, dopo
quasi due mesi di chiusura per dei lavori di ampliamento. I genitori di
Federica, che ne erano i proprietari, avevano acquistato il negozio
accanto, indi per cui era stato necessario abbattere un muro in modo da
creare uno spazio unico. Ciò aveva portato a una distribuzione
dell’area in due zone distinte: una adibita a bar, con comode
poltroncine e tavolini tondi, e una prettamente per i bambini, dove vi
erano panche e tavoli più lunghi in modo che i piccoli potessero
stare insieme. Naturalmente ogni parete disponibile era occupata da
scaffalature ricolme di libri.
Christian adorava lavorare lì. Secondo il suo modesto parere, il Rainboow Book Bar
era una delle librerie più belle della città. Ogni
cliente che entrava veniva immerso in un ambiente caldo e confortevole,
soprattutto grazie a un arredo in legno scuro e tappezzerie dalle
sfumature del sole. Ciò che rendeva il locale ancora più
caratteristico era la presenza di piccoli lampadari composti con prismi
in cristallo, i quali rifrangevano la luce, creando così
numerosi arcobaleni perfettamente visibili sui mobili in mogano.
“Che ne dici?” chiese la ragazza, indicando con un cenno
della mano l’unica parete del locale libera da scaffalature,
ornata invece da un enorme dipinto.
Christian osservò il lavoro appena concluso e lanciò un
fischio d’apprezzamento. Il disegno era tanto bello e dettagliato
che gli pareva di trovarsi per davvero dentro a quel bosco incantato,
insieme ai variegati personaggi fantastici impressi. Notò che
Federica, per richiamare il nome della libreria, aveva raffigurato un
magnifico arcobaleno sullo sfondo.
“Chicca, ti sei superata!” esclamò con ammirazione.
“Ma credevo che per le ali delle fate ti saresti ispirata alle
farfalle,” aggiunse dubbioso, lo sguardo fisso su quel dettaglio
appena menzionato.
Federica scrollò le spalle. “I loro abiti sono già
abbastanza colorati. Troppe cromie avrebbe reso il disegno
d’insieme stucchevole. Preferisco le ali in questo modo:
trasparenti e con i bordi frastagliati.”
Il ragazzo la guardò con un’espressione ebete.
Federica alzò un sopracciglio. “Perché quella faccia?”
“Potresti parlare come mangi, per favore?”
A tali parole, l’amica scoppiò a ridere. “Scusa, ma
la colpa è dei miei genitori. Secondo il loro giudizio, il fatto
che io abbia scelto l’Accademia di Belle Arti invece che quella
di Lettere non è una scusante per limitare il mio
vocabolario.”
Christian ridacchiò: quello era proprio un pensiero tipico dei
coniugi Rossi. In cuor suo invidiava Federica per avere una famiglia
tanto unita, così in antitesi con la sua. Scacciò subito
quel pensiero molesto: ai suoi genitori non voleva proprio pensarci.
Per fortuna, la voce di Federica lo aiutò a distrarsi.
“L’acrilico dovrebbe asciugarsi completamente nel giro di
un’ora.”
“Ottimo! Nel frattempo che ne dici di pranzare?”
Federica si diresse verso il bancone del bar, dove aveva posto le
pietanze preparate in precedenza. L’aroma di riso al curry con
verdure riempì l’aria e lo stomaco di Christian
brontolò per la fame. “Oh, Chicca, amo quando cucini
etnico!”
“Tu ami qualsiasi cosa,” fece lei con un sorriso materno.
Non poté evitare di bearsi dell’espressione estatica del
ragazzo alla vista del cibo: a volte si comportava proprio come un
bambino. Pensare che avevano due anni di differenza; ciononostante, se
messi a confronto, sembrava lei quella più grande. Forse
perché l’amico, sebbene presentasse un’altezza
elevata, possedeva un faccino molto giovanile. Pareva ancora un
diciannovenne, invece che un ventitreenne.
I due iniziarono a mangiare, crogiolandosi nella quiete che li circondava, ben consci che non sarebbe durata a lungo.
***
Johel sbatté le palpebre e si guardò attorno un po’
frastornato. Si trovava in un vicolo senza uscita, occupato solo da una
serie di bidoni dell’immondizia. Avvertendo l’odore poco
gradevole che aleggiava in quel luogo, reso ancora più intenso
dalla calura estiva, si affrettò ad allontanarsi, il viso
distorto da una smorfia schifata.
Io capisco che sia necessario materializzare i Visitatori in una zona sicura, pensò, ma qui si esagera.
Poco dopo sbucò su una strada molto più ampia e
decisamente frequentata. La prima cosa che notò fu il rumore
assordante delle automobili, seguito dall’aria, che gli parve
quasi soffocante. Alzò gli occhi per fissare il cielo: era
grigio, sebbene privo di nubi; un’uniforme patina color cenere.
Johel non era mai stato uno studente modello, ma amava talmente tanto
la natura che era rimasto molto colpito quando il suo precettore gli
aveva spiegato quali condizioni ecologiche imperversassero su Gea. A
quella lezione era stato particolarmente attento, di conseguenza sapeva
che quel cielo, che a lui appariva anomalo, era causato
dall’inquinamento dilagante.
Ma io adoro le mie decisioni impulsive, rifletté con una certa ironia.
Oh, se fosse andato a conoscere Zac non si sarebbe trovato in un
ambiente tanto alieno ai suoi costumi. Dopotutto Arstgard, insieme a
Blue Moon, era il suo pianeta preferito. Per un attimo si perse nel
rimembrare la vegetazione lussureggiante del Secondo Pianeta; poi,
però, quando il suono acuto di un clacson lo fece sobbalzare,
decretò che non era di certo il momento per sognare ad occhi
aperti. Si frugò nei pantaloni alla ricerca di qualcosa di
utile: sapeva che il Portale gli aveva fornito tutto l’aiuto
necessario. Ci mise un po’ in quel compito, in quanto
l’abbigliamento che Pan ed Eco gli avevano fatto indossare
consisteva, oltre che in una maglietta, in un paio di bermuda pieno di
tasche. Alla fine trovò un portafoglio, contenente soldi e
documenti, un mazzo di chiavi e una mappa. Con una certa trepidazione
si affrettò ad aprire quest’ultima. Sorrise, quando sulla
cartina comparve il disegno animato di un piccolo se stesso. Il Johel
cartaceo lo salutò con aria irriverente, facendogli al contempo
l’occhiolino; pochi attimi dopo, accanto alla sua figura,
comparve un baloon. Il Johel
in carne e ossa lesse velocemente la domanda postagli: voleva vedere la
casa dove avrebbe alloggiato o preferiva andare da Christian?
Impaziente per natura, la risposta che diede fu quasi istantanea. Christian! Voglio incontrarlo subito.
Il Johel dipinto annuì, intendendo che aveva captato il suo
pensiero e, come se una mano invisibile stesse disegnando proprio in
quel momento, sulla cartina apparve la via dove si trovava il ragazzo,
seguita presto dalle indicazioni stradali necessarie per raggiungere il
terrestre. Il giovane memorizzò velocemente il percorso,
sollevato dal fatto che non sembrava essere molto distante. Stava per
richiudere la mappa, quando notò che il suo alter ego sul foglio
aveva altro da dirgli.
“Va’ e fallo tuo, tigre!”
Johel lesse quelle parole in un basso mormorio, arrossendo di colpo
appena si accorse che il fumetto era accompagnato da un altro disegno
animato, dove vi erano lui e Christian impegnati in atti ben poco
casti. Sconvolto e senza parole – Io non sono un tale maniaco! Questa cartina è difettosa! – si affrettò a metterla via.
Cercando d’ignorare il suono fastidioso del traffico,
iniziò a incamminarsi di buon passo. La città gli si
presentò come un insieme di palazzi enormi, caratterizzata da
persone che avevano l’aria di essere di gran fretta e da un
costante rumore di sottofondo. Tutto ciò che vedeva era fonte di
stupore: un conto era leggere le notizie sui libri, un altro era
osservare le cose con i propri occhi. In fin dei conti era la prima
volta che metteva piede su Gea. Se da un lato era eccitato da quella
nuova avventura, dall’altro era anche un po’ intimorito nel
constatare quanto diversi fossero gli usi e i costumi della Terra
rispetto al suo piccolo pianeta. E se si fosse reso ridicolo, magari
proprio davanti al terrestre per cui aveva affrontato un tale viaggio?
Ma Johel non era il tipo da angustiarsi troppo; infatti ben presto quei
pensieri nefasti furono sostituiti da altri più ottimistici. In
fondo era un ragazzo piuttosto intraprendente: se la sarebbe cavata
anche in quella situazione.
La modestia proprio ti manca, eh?
Sorrise tra sé e sé: quell’ultimo pensiero aveva lo
stesso tono irritato che avrebbe avuto Yane se fosse stata presente. In
un contesto tanto alieno, perfino la sua saccente sorella gli mancava.
Mentre era perso nelle sue considerazioni personali, svoltò
l’angolo, immettendosi in una via più stretta e meno
trafficata. Se non ricordava male, doveva essere quasi arrivato a
destinazione. Apprezzò subito il cambio di scenario, in quanto
le strade più strette non permettevano il passaggio delle
automobili, conferendo a quella zona della città
un’atmosfera più tranquilla.
Fu allora che notò l’anziano: era solo e si stava
tamponando la fronte sudata con un fazzoletto; sembrava piuttosto
provato e quasi sul punto di svenire.
Johel si affrettò a raggiungerlo. “Signore?”
Fu trafitto da uno sguardo penetrante. Johel si accorse che la mano con
cui l’uomo sorreggeva il bastone era pervasa da un lieve tremito.
“Sì?”
Il ragazzo si schiarì la voce, improvvisamente a disagio. Come
suo solito aveva agito d’istinto e solo troppo tardi gli sorgeva
il dubbio che avrebbe potuto risultare invadente. “Ah, mi scusi;
le sembrerò inopportuno, ma mi pareva in difficoltà,
quindi volevo solo accertarmi che stesse bene.”
Con suo sommo sollievo, si vide rivolgere un sorriso riconoscente.
“Giovanotto, è molto gentile a preoccuparsi, ma sto bene.
Purtroppo questo caldo implacabile mette a dura prova il mio
fisico.”
Johel si rilassò, lieto di non aver fatto nulla di male. Le sue
conoscenze sui costumi del Pianeta erano assai nebulose. Forse Yane non
aveva tutti i torti a dargli dell’ignorante reale. Proprio in
quel momento percepì una goccia di sudore scendergli lungo la
fronte; non osava nemmeno immaginare la condizione del proprio aspetto.
Se lui si sentiva tanto accaldato, poteva comprendere quanto fosse
difficile per l’anziano. “Se ha bisogno di una mano,
l’accompagno volentieri.”
Johel non riuscì a trattenersi; in tutta coscienza non poteva proseguire senza prestare aiuto.
Vide il signore scuotere la testa. “È gentile, ma non
sarà necessario. Devo arrivare alla libreria che si trova in
fondo a questa via.” L’uomo alzò il bastone
puntandolo su un negozio poco distante. “Come potrà
notare, è molto vicino.”
Johel, una volta letta l’insegna del locale,
s’illuminò in viso. “Oh, ma devo andare
anch’io lì!”
L’anziano intascò il fazzoletto, poi iniziò ad
avviarsi con passo leggermente claudicante. “In tal caso,
giovanotto, sarò lieto della compagnia. Ah, il mio nome è
Bruno.”
“Johel,” fu la pronta replica del ragazzo, il quale si
affrettò a seguirlo. “E mi dia del tu, per favore.”
“Oh, benissimo! A bando le formalità, hai ragione. Che
nome singolare che possiedi; sei per caso straniero? Perché hai
tanto l’aria di un turista. Sono curioso; in genere conosco quasi
tutti di questa zona della città e tu sei un ragazzo che si fa
notare. Come direbbe la mia adorata nipotina, sei piuttosto
cool.”
Bruno s’interruppe un momento per emettere una bassa risatina.
“Non che io abbia afferrato pienamente il significato di questo
termine, bada bene. Ah, le nuove generazioni con il loro linguaggio
tanto strano. Devi sapere…”
Bruno continuò a parlare, lasciando al suo interlocutore ben
poco spazio per potersi inserire nel discorso, ma a Johel non
dispiaceva. Adorava ascoltare la gente e, a quanto pareva, Bruno era un
ottimo oratore. Si mise a prestargli attenzione con gioia, soprattutto
perché tutte quelle chiacchiere erano in grado di scacciare
l’ansia che provava per l’incontro imminente con Christian.
*
Bruno entrò nel locale, seguito da Johel, che fece un sospiro di
beatitudine: la temperatura della libreria era di parecchi gradi
più bassa rispetto all’esterno. Ebbe appena il tempo di
guardarsi attorno, perché tutta la sua attenzione si
focalizzò su una ragazza che si avventò
sull’anziano, il viso una maschera di angoscia.
“Nonno! Sei qui, meno male! Non arrivavi più e mi sono
preoccupata. Lo sapevo che non avresti dovuto uscire con questo caldo.
Lo sapevo! Ma perché non mi ascolti mai?”
“Tesoro, stai calma. Sto bene.”
Se Bruno pensava che le sue parole, dette in tono volutamente basso e
rassicurante, sarebbero riuscite a rabbonire la nipote, si sbagliava di
grosso. Federica, infatti, alzò le mani al cielo, ricominciando
a inveire. “Sta bene, dice lui! E certo, perché non si
ricorda della gente che si preoccupa, che sta in ansia, che pensa al
peggio…”
“Chicca!”
Il tono secco ebbe il potere di farla tacere.
“Tesoro, mi dispiace di averti fatto preoccupare, ma ora sono
qui, quindi calmati. Non è saggio per una signorina gridare a
questo modo, soprattutto davanti a dei giovanotti.”
Detto ciò, Bruno indicò con il bastone il ragazzo che
l’accompagnava. Federica seguì con lo sguardo
l’oggetto e solo allora si rese conto della presenza di Johel.
Arrossì, portandosi le mani al viso. “Oh.”
Questa fu tutta la sua eloquente risposta, mentre il suo cervello era bloccato su un’unica modalità: Cazzo, cazzo, cazzo!
Cielo, aveva fatto la figura della pazza isterica. Vai così, Chicca!, cantilenò la sua mente, maligna.
Federica vide il giovane lanciarle uno sguardo divertito: si capiva che
stava facendo di tutto per non scoppiare a riderle in faccia.
“Tesoro, lui è Johel,” intervenne Bruno. “Mi
ha visto in difficoltà ed è stato tanto gentile da
accompagnarmi qui. Che ne dici di offrirgli da bere?”
Johel porse la mano con educazione. “Piacere.”
Federica, ancora rossissima, fece altrettanto. “Piacere mio. Sono Federica.”
Sorrise: la stretta che aveva ricevuto era forte e decisa. Se
c’era una cosa che le faceva subito inquadrare una persona era il
primo scambio di convenevoli. Inoltre, qualcuno che si era preoccupato
del suo adorato nonno era degno di riguardo. “Cosa preferisci
bere, Johel?”
“Dell’acqua fresca andrà benissimo, grazie.”
La ragazza scoppiò a ridere. “Un uomo di poche pretese,
che rarità. Vieni con me, uomo di poche pretese.”
Johel non se la prese per quella bonaria presa in giro. Il modo di fare
di Federica era così aperto e amichevole che si trovò
subito a suo agio. Mentre la seguiva, la valutò con maggiore
attenzione: non l’avrebbe mai potuta definire bella, ma aveva un
sorriso solare e degli occhi scuri che brillavano di sincerità.
Di sicuro il suo carattere spumeggiante colpiva più del suo
aspetto. Johel capì di trovarsi al cospetto di una di quelle
rare persone di cui risulta immediato fidarsi.
La sua tranquillità si dissolse appena scorse il ragazzo dietro
al bancone del bar. Christian era intento ad asciugare un bicchiere, ma
i movimenti sembravano meccanici, poiché i suoi occhi erano
fissi sul nuovo venuto.
I due si guardarono.
L’aria parve farsi per un secondo elettrica.
Il silenzio calò tra loro.
Johel trattenne il fiato mentre due iridi verdi sondavano il suo volto.
Christian lo valutava alla stregua di un animale selvatico. Guardingo.
Lo vide stringere le labbra in una linea sottile, poi fare un semplice
cenno di benvenuto. Nessun sorriso, nessuna parola.
La delusione colpì Johel come un pugno. Non si ricorda.
Sapeva che era un’eventualità molto probabile, ma trovarsi
davanti alla verità, nuda e cruda, era tutt’altra
questione. E, dal cipiglio di Christian, sembrava avesse fatto una
pessima prima impressione.
“E questo, Johel, è il musone Christian. Non farci caso,
è sempre così con gli estranei: diffidente di
natura.”
La voce allegra di Federica ebbe il potere di sciogliere
l’atmosfera tesa che si era venuta a creare. Johel cercò
di rilassarsi e fece un ampio sorriso. “Ciao.”
Era una tattica collaudata: a detta di molti, le sue fossette erano
irresistibili. Il cipiglio di Christian si approfondì.
“Ciao,” borbottò, dandogli di seguito la schiena.
Ottimo approccio, Johel. Davvero ottimo!
Perché la sua coscienza doveva avere la stessa voce irriverente
di Yane? Il ragazzo sospirò mentalmente. Aveva una settimana per
riuscire a conoscere Christian e sperare che si ricordasse di lui; non
si sarebbe arreso alla prima difficoltà.
“Chris, dai un bicchiere di acqua a Johel,” disse Federica, lanciandogli al contempo un’occhiataccia.
Johel capì che la ragazza non era per niente contenta del
comportamento dell’amico e non faceva nulla per nascondere tale
disappunto. Un attimo dopo, però, la vide sorridere a Bruno, che
li aveva raggiunti sedendosi sullo sgabello accanto al suo.
Anche un cieco si sarebbe accorto del profondo affetto che legava i due.
“Nonno, tu cosa bevi?”
“Niente per ora, grazie. Piuttosto, temo di avere una cattiva
notizia: poco prima di uscire di casa, mi ha chiamato Lucia per
avvisarmi che si è ammalata, quindi oggi non potrà essere
presente.”
“Oh, no!” fece Federica con voce affranta. “E chi leggerà ai bambini?”
“Dovrai pensarci tu, tesoro.”
“Nonno, Christian non può occuparsi da solo del bar. Il
pomeriggio è sempre affollato e avrà sicuramente bisogno
di aiuto; senza contare che tantissime mamme amano rimanere qui mentre
i figli ascoltano la storia.”
Bruno si lisciò i baffi grigi. Sua nipote aveva ragione, ma non
c’erano altre soluzioni possibili. “Qualche vostro amico
sarebbe disposto a venire?”
La ragazza aggrottò le sopracciglia mentre rifletteva su chi
avrebbe potuto chiamare. “Forse Chiara. È tornata ieri
dalle vacanze…” mormorò pensierosa. Si rivolse
all’amico. “A te viene in mente qualcuno?”
Christian scrollò le spalle con aria rassegnata. “Credo
che nessuno sia allettato all’idea di leggere a dei bambini per
un intero pomeriggio. Chicca, non starei nemmeno a chiedere; anche
perché il primo gruppo dovrebbe arrivare qui tra neanche cinque
minuti. Non abbiamo molto tempo.”
Dopo le sue parole, vide l’amica torturarsi il labbro inferiore
con i denti. Sapendo quanto Federica tenesse a quelle letture
organizzate, cercò di rincuorarla a modo suo. “Tu stai
pure con i bambini, al bar ci penso io. Vedrai che riusciremo a
farcela. In caso chiama Chiara e chiedile se è disposta ad
aiutarci con il gruppo delle cinque.”
“Ma sei sicuro di riuscire a fare tutto da solo?” chiese lei con apprensione.
“Tranquilla, mi saprò arrangiare.”
Johel aveva seguito con curiosità il discorso e, sebbene non
ambisse a lavorare, capì che quello sarebbe stato un ottimo
pretesto per rimanere nel locale. “Se volete, posso darvi una
mano io.”
Gli occhi di Federica brillarono come due piccole stelle. La ragazza
fece un sorriso enorme, afferrando con impeto le mani del giovane tra
le sue. “Oh, davvero ci aiuteresti? Oh, ma tu sei il nostro
angelo salvifico!”
Johel scoppiò a ridere, mentre Christian si mise a tossire,
imbarazzato. Diamine, come faceva Chicca ad essere tanto espansiva con
gente che aveva appena conosciuto? A volte invidiava il suo modo di
fare così aperto ed esuberante, poiché la portava a far
amicizia con estrema facilità. Non come lui, che era
estremamente scorbutico. Intercettò lo sguardo del ragazzo e lo
stomaco gli parve annodarsi.
Ha degli occhi blu magnifici.
Tale pensiero intensificò il suo disappunto. Non si fidava dei
giovani troppo belli e sicuri di sé; non gli erano mai andati a
genio e quel tipo non faceva eccezione. Anche se… appena
l’aveva visto aveva avuto una stranissima sensazione di déjà vu.
Aveva già scorto quel viso… Ma dove?
“Allora è deciso!” fece Federica, battendo con
allegria le mani. “Johel leggerà ai bambini, il nonno
penserà alla cassa, mentre io e Chris ci occuperemo del
bar.”
“Ah, no, aspetta!” intervenne Johel, preso in contropiede
da quell’annuncio. “Io volevo dare una mano come cameriere,
non come lettore. Sono un disastro con i bambini: non ho pazienza o
alcun tipo di esperienza!”
“Sono sicura che te la caverai benissimo,” lo liquidò la ragazza.
“Ma io…” cercò di obiettare ancora Johel,
lievemente terrorizzato all’idea di passare il pomeriggio con un
gruppo di piccoli urlanti. Decisamente non faceva per lui. Federica,
però, si mise a canticchiare tra sé, ignorandolo
completamente.
Bruno gli poggiò una mano sulla spalla e il ragazzo lo
guardò con aria affranta. “Inutile che ci provi. Quando
mia nipote decide una cosa, niente la smuove.”
Il viso dell’anziano mostrava una tacita comprensione per la
situazione, ma i suoi occhietti azzurri brillavano di divertimento.
Ah! Ma è tale e quale alla nipote!
Johel si sentì preso in giro. Bruno sorrise. “Ti ringrazio
molto per l’aiuto. Dai, vieni con me, che così ti faccio
scegliere il libro. Già che ci siamo, potresti anche dirmi di
che cosa eri in cerca. Quando ci siamo incontrati, eri diretto anche tu
qui, vero?”
“Oh, sì! Tra pochi giorni è il compleanno del mio
fratellino e, dato che adora leggere, penso che qui troverò il
regalo adatto.”
Johel non si sentì affatto in colpa a propinare quella scusa. In
fondo era una mezza verità: sebbene Ismael avesse già
compiuto quattordici anni – ricevendo, a detta sua, fin troppi
regali – avrebbe sicuramente apprezzato un libro proveniente da
Gea.
Appena i due si allontanarono, la porta del locale fu aperta.
“Ciao, ragazze,” salutò Federica con un sorriso caloroso.
“Ciao, Fede! Ci potresti portare due tè freddi, per piacere?”
“Certo, arrivano subito!”
Dopo aver seguito con lo sguardo le clienti che prendevano posto a
sedere, Federica si girò per affrontare di petto il collega.
“Senti un po’, cos’era quel comportamento che hai
tenuto poco fa con Johel?”
“Chicca, non iniziare. Non so di cosa parli,”
replicò imbronciato Christian. Sapeva che l’amica non gli
avrebbe fatto passare liscio il suo atteggiamento. In genere non era
mai particolarmente estroverso con chi non conosceva, ma era cosciente
del fatto che con Johel aveva dato il peggio di sé.
Si affrettò a riempire il vassoio con l’ordinazione, nella speranza che Federica lasciasse perdere.
“Non ci provare, Chris! Sei stato estremamente maleducato.”
“Non mi sta simpatico, va bene?”
Federica roteò gli occhi. “Oh, ti prego, non fare la parte
del complessato che ha avuto un’infanzia triste e difficile. Lo
so che non ti piace perché è figo! Hai questa tua folle
teoria che tutti i ragazzi belli siano degli stronzi egocentrici.
Tesoro, non vorrei ricordartelo, ma allora in quella categoria dovresti
rientrare anche tu. Non sarai figo come Mister Universo di là, ma di sicuro non sei un cesso da buttar via.”
Suo malgrado, Christian rise. “Vaffanculo, Chicca.”
La ragazza gli diede un leggero schiaffo sul sedere. “Quello
piacerebbe a te. E non dire parolacce, che se ti sente mio nonno inizia
con le sue ramanzine.”
Christian congiunse le mani tra loro. “No, ti supplico! Le filippiche di Bruno, no!”
“Allora fa’ il bravo, altrimenti ti sguinzaglio contro il
mio nonnino” lo minacciò Federica, sventolandogli
intimidatoria un dito davanti al naso; poi afferrò il vassoio,
sbrigandosi a portarlo al tavolo.
Lei e Christian erano un pericolo per il buon funzionamento del locale,
dal momento che perdevano fin troppo tempo in bambinate simili. Era
vero che in quel modo il lavoro era divertente, cosa che doveva
riflettersi anche nell’atmosfera generale, poiché i nuovi
clienti, una volta apprezzata la sensazione rilassante che aleggiava
lì, tornavano di buon grado. Senza contare di quelli abituali,
con i quali era bello scambiare delle affabili chiacchiere.
“Ecco qui i vostri tè freddi.”
Le due ragazze, intente fino a quel momento in una fitta conversazione,
interruppero per un attimo la discussione. “Grazie, Federica.
È bello che abbiate finalmente riaperto: mi mancava questo
posto. Ah, senti, non è che ci sarebbe quella fantastica torta
ai frutti di bosco?”
“Elisa, e la tua dieta?” chiese l’amica con finto rimprovero.
“Quale dieta?” fece l’altra in tono vago, il viso leggermente colpevole.
Sara scosse la testa, ma si vedeva che era divertita.
“Allora due fette di torta” rettificò Elisa.
Sara la guardò con tanto d’occhi. “Due? Adesso non stai esagerando?”
L’amica sorrise con aria maligna. “Una è per te,
altrimenti va a finire che mangi metà della mia con il pretesto
di assaggiarla.”
Federica si unì alla risata generale, mentre annotava i dolci sul block notes. “Ve le porto subito.”
“Fede, aspetta!” Sara la fermò prima che si potesse
allontanare. “Senti, ma quel ragazzo che è con tuo nonno
chi è? Lavora qui? È nuovo?”
Mano a mano che Sara progrediva con le domande, abbassava il tono di
voce, arrivando a sussurrare per timore di essere sentita. Federica fu
costretta ad avvicinarsi molto per riuscire a comprendere ciò
che diceva.
“Ah, parli di Johel? L’ho conosciuto oggi. Si è
offerto di aiutarci a leggere ai bambini. Aspetta che te lo chiamo,
così ci parli.”
Sara divenne subito rossa, mentre la sua amica stava facendo di tutto
per non ridere. Mai fare richieste simili a Federica, perché non
si sarebbe fatta nessun problema a metterti in imbarazzo. E la cosa
assurda era che non si rendeva conto che non tutte erano estroverse
come lei. Sara, poi, dovevi costringerla con la forza per farla parlare
con un ragazzo cui era interessata.
“Ehi, Johel, verresti qui un attimo, per favore?” lo
richiamò Federica, ignorando i sussurri concitati di Sara, che
la pregava di lasciar perdere.
Quando Johel, con aria vagamente curiosa, li raggiunse, Federica si
sbrigò a fare le presentazioni, per poi lasciarli a parlare
mentre lei se ne tornava al bancone del bar.
Christian, che aveva seguito tutto, non si astenne dal dire la sua.
“Sei tremenda! Lo sai quanto è timida Sara; guarda come
l’hai messa in agitazione, poverina.”
L’amica esibì il suo viso più angelico, senza
nemmeno voltarsi a osservare la scena. Sapeva che Sara tendeva a
balbettare e a giocare con la treccia quando si sentiva a disagio.
Federica fece finta di nulla. “Chi, io? Le ho fatto un favore. Si
capiva che era interessata, perché non approfittarne? Carpe diem! Questo è il mio motto,” spiegò pimpante, mentre tirava le ciocche di Christian.
“Smettila, Chicca!”
“Ah, quanto sei musone,” si lamentò lei, sbuffando
indispettita quando vide il ragazzo raccogliersi i capelli in un
codino.
“No, ti stanno meglio sciolti!”
“Ma non hai nessun altro da tormentare?”
“No.”
Federica cercò di sfilare l’elastico, ma con scarsi
risultati, dal momento che Christian, intuendo le sue intenzioni,
faceva di tutto per essere fuori portata delle sue mani.
“È inutile che insisti, sei troppo nana,” la derise.
“Stronzo! Io lo facevo per te: sei più bello con i capelli
sciolti. Non riuscirai a rimorchiare nessuno conciato
così.”
“E chi vuole rimorchiare?!”
“Sì, continua in questo modo e finirai per essere un
vecchio gay musone e solo, costretto a parlare con il suo gatto,
altrettanto musone e solo.”
Christian contò mentalmente fino a dieci, facendo finta di non
sentire i rimbrotti della ragazza. Presto si sarebbe stufata, o avrebbe
trovato un altro malcapitato su cui riversare le sue attenzioni un filo
morbose.
“Ehi, Chris, secondo te Johel è etero, gay o bisex?”
Bingo!
Christian non si prese nemmeno la briga di guardarla, troppo concentrato nel tagliare la torta ai frutti di bosco.
“Dai, mi rispondi? È una domanda seria.” La voce di
Federica aveva raggiunto un tono petulante. Christian sapeva che era
meglio assecondarla; già in quel momento l’amica stava
tamburellando le dita sul bancone solo per farlo innervosire.
“Cosa diavolo vuoi che ne sappia? Dato che non hai peli sulla lingua, chiediglielo!”
“Ma… e il tuo gay radar? Non funziona?”
Christian sollevò con studiata lentezza la testa, trafiggendola
con uno sguardo che era un misto di esasperazione, ironia e
divertimento. La ragazza lo stava fissando con un’espressione di
trepidante attesa. Era seria, quella sciagurata!
“Chicca, non esiste nessun gay radar! Quante volte te lo devo dire?”
“Nah! Non ci credo. Secondo me è il tuo ad essere difettoso. Quello di Andrea funziona benissimo.”
Il suono dei campanelli che annunciava l’entrata di nuovi clienti
evitò a Christian di rispondere per le rime. Una cosa tipo: “Andrea ci proverebbe con chiunque di carino. È un pansessuale, lui.”
Per sua fortuna, però, l’attenzione di Federica si era
trasferita sul gruppo di mamme che aveva appena varcato il negozio. Il
chiacchiericcio, le risate e le urla dei bambini erano inconfondibili.
Sarà una giornata molto lunga, pensò Christian affranto.
Notò il volto allarmato di Johel alla vista di quella piccola folla. Gli fece quasi tenerezza. Quasi.
Appena il ragazzo si voltò dalla sua parte, i loro sguardi s’incrociarono.
A Christian gli si mozzò il respiro in gola. Si odiò per
quello. Non poteva provare quel tuffo al cuore ogni volta che
intercettava quegli occhi. Non era normale. Si costrinse a convincersi
che non volesse dire nulla. Nulla!
Tentò di calmarsi.
Per fortuna i nuovi ordini ebbero il potere di distrarlo. Prima di
concentrarsi totalmente sul lavoro, ebbe il tempo di fare un grosso
sospiro, mentre al contempo rifletteva sul fatto che sì, sarebbe
stata una giornata molto lunga.
Molto, molto lunga.
***
Johel rincasò che erano le otto di sera.
Aveva finito il suo compito in libreria quasi un’ora prima, ma
pur di restare accanto a Christian, si era offerto di dare una mano nel
mettere a posto il locale. Federica era stata felice della sua proposta
e gli aveva sorriso con riconoscenza, investendolo presto con la sua
parlantina, mentre Christian… Sospirò. Non sapeva per
quale motivo, ma aveva l’impressione che Christian lo avesse
preso in antipatia. Era rimasto muto e distaccato per tutto il
pomeriggio, senza accogliere nessuno dei suoi approcci per cercare di
conoscerlo.
Chissà se è così chiuso di suo o sono proprio io a non piacergli.
Con un altro sospiro sconsolato entrò in casa. Come da
tradizione, l’alloggio gli era stato fornito dai Signori di
Palazzo Verde; era anche loro compito assegnargli una guida che lo
aiutasse durante la sua permanenza su Gea. Johel non l’aveva
ancora incontrata, poiché si era recato subito da Christian, ma
ora che era arrivato nell’appartamento gli sembrava strano che la
Creatura non si fosse palesata.
“Ehi, c’è nessuno?” domandò ad alta voce.
Si guardò attorno: l’entrata dava direttamente su un
soggiorno molto grande, con due divani, una televisione e una libreria.
Una vetrata scorrevole divideva quella zona da una cucina tanto lustra
da sembrare finta. Da quella prima veloce occhiata, il ragazzo
capì che la casa era nuova e tenuta in maniera impeccabile. Dopo
avere notato la cucina, scorse un corridoio, il quale sicuramente dava
accesso alla camera da letto e al bagno. Stava riflettendo che forse
era il caso di farsi una doccia, quando all’improvviso una
luminosa piccola sfera gli saettò davanti, mettendosi a fare
evoluzioni in aria, come se cercasse di attirare la sua attenzione.
Johel si bloccò sul posto, annichilito.
“No!” esclamò oltraggiato.
Scosse la testa e chiuse gli occhi, nella speranza che il bagliore
rossastro scomparisse dalla sua vista. Era uno scherzo, vero? I Signori
di Palazzo Verde non potevano avergli mandato una piccola, inutile,
insopportabile…
“Una fata no!” sbottò adirato. E lui che aveva
sperato di avere come guida un elfo: loro erano Esseri degni di nota.
Anche un satiro non sarebbe stato male; erano parecchio divertenti i
satiri. Ma una fata… Che cosa c’era d’interessante
nelle fate? Sì, erano graziose, ma facevano delle magie
dannatamente ridicole; inoltre erano delle vere rompiscatole.
“Ehi, tu! Smettila di agitarti e fatti vedere bene!”
Erano passati solo pochi secondi e già quella stupida
l’aveva innervosito. Dannazione, tra tutte le creature magiche
esistenti doveva capitargli proprio quella che meno sopportava?
A quell’esclamazione, la fata smise di zigzagare come una
trottola impazzita, si posizionò ad un palmo dal naso del
ragazzo, riducendo di molto il bagliore che lei stessa irradiava.
Il giovane, appena registrò un corpicino esile, un paio di
antenne e delle grandi ali color amaranto che, con il loro frullare,
provocavano quel tipico barlume, fece una faccia schifata. Di male in
peggio, gli era capitata una Fata dei Boschi: l’Essere più
innocuo di tutti e sette i pianeti. Alla faccia del suo spirito bramoso
d’avventura!
“Mi sento male,” mormorò Johel con aria
melodrammatica, arrancando fino a un divano e sprofondandoci sopra di
peso. La fata lo seguì, sedendosi composta sulla coscia sinistra
del ragazzo. Quest’ultimo le rivolse un’occhiataccia, poi
emise un sospiro. Era inutile lamentarsi per qualcosa che non avrebbe
potuto cambiare. Ad ogni modo, per fugare ogni dubbio, si accinse a
chiedere una conferma: “Sei tu la mia guida?”
La fata sbatté le palpebre, nascondendo per una frazione di
secondo i suoi grandi occhi neri, poi fece un cenno affermativo.
“Fantastico!” esultò Johel in tono canzonatorio.
La fata scrollò le spalle, come a voler far intendere all’altro che non era colpa sua se era stata scelta.
“Io volevo un elfo!”
Alla sua affermazione, Johel vide la Creatura imbronciare le labbra,
probabilmente offesa. Quella reazione lo fece ridacchiare; almeno era
una fata con un certo spirito. Le diede un’altra occhiata. Oh,
beh, poteva ammettere che con quei boccoli aranciati e quella pelle
ambrata era davvero carina. A quell’esame più attento,
Johel notò un particolare assai interessante, che prima gli era
passato inosservato. Infatti, nonostante i fianchi della fata fossero
circondati da foglioline verdi che creavano una specie di minuscola
gonnellina, il resto del fisico era nudo.
“Sei un maschio,” constatò il ragazzo, le iridi blu
fisse sul petto piatto, dove spiccavano due piccoli capezzoli scuri. Fu
un po’ rincuorato da quella scoperta, perché perlomeno i
maschi delle fate erano meno rompiscatole delle loro compagne.
Le antenne della Creatura vibrarono, segno che era divertita. Il
ragazzo fu costretto a essere concorde con la sua ilarità;
dopotutto, aveva fatto una constatazione talmente ovvia da risultare
ridicola.
“Il tuo nome?” chiese Johel con voce assai più
gentile. Dava per scontato che la sua guida sapesse tutto di lui: era
la prassi.
‘Trixystainschanein,’ mormorò la fata nella sua mente.
Il giovane emise un gemito sconsolato: era praticamente impronunciabile per lui.
“Ti chiamerò Trixy, va bene? Mi risulterà molto
più semplice,” propose, sperando di non offenderla.
Per la prima volta da quando erano insieme, vide la fata sorridergli e annuire.
“Bene, adesso vorrei farmi una bella doccia. I miei effetti personali sono in camera?”
Trixy fece cenno di sì, i suoi boccoli vaporosi che ondeggiavano
ad ogni piccolo movimento. Johel si alzò, desideroso di vedere
dove avrebbe dormito. La fata, intuendo le sue intenzioni, lo
precedette svolazzando a zig-zag.
Il ragazzo aprì la porta della stanza con un certo impeto, poi
si bloccò sulla soglia, le palpebre che si spalancavano per lo
shock. La sala era enorme, con un magnifico letto a quattro piazze
posto nel centro, ma non fu quello a meravigliarlo, quanto piuttosto
ciò che ingombrava il resto dello spazio disponibile. Piante
rampicanti s’inerpicavano su tutte e quattro le pareti
raggiungendo anche il soffitto, che pareva una volta erbosa, e ad esse
si intrecciavano varie specie di fiori.
Johel riconobbe una grande pianta di ibisco che, con i suoi rami,
circondava tutta la testata del letto; i suoi fiori erano grandi, di un
rosso intenso, con stami lunghi e pregni di polline. Diverse liane
scendevano dal soffitto e alcune di esse erano avvolte da altre piante
in piena fioritura.
Era un tripudio di colori e profumi.
Johel ne rimase estasiato: gli sembrava di trovarsi in una giungla lussureggiante.
Solo quando si fu ripreso dalla sorpresa capì che tutto quel
lavoro era stato fatto per creare l’ambiente più idoneo
per Trixy, la quale necessitava di un habitat puro e incontaminato.
Conoscendo le condizioni ecologiche di Gea, per il giovane fu facile
supporre che ben pochi posti del pianeta fossero rimasti tali; era
probabile che il numero di fate presenti si fosse considerevolmente
ridotto. Si rattristò a quel pensiero. Perché i terresti
erano diventati tanto ciechi e insensibili?
Non avendo risposte per quelle domande, s’inoltrò nella
stanza, ma solo dopo essersi tolto le scarpe: il pavimento era
costituito da un prato primaverile ricolmo di margherite e Johel
affondò i piedi nudi in quella morbidezza naturale con gioia
infantile.
Appena raggiunse il letto, vi si sedette sopra: il materasso era alto e
duro proprio come prediligeva, ricoperto da un semplice lenzuolo di
cotone.
La trepidazione per il viaggio, la realizzazione di essere in un luogo
nuovo e l’ansia di un futuro incerto gli si abbatterono addosso,
tanto che percepì una grande stanchezza invaderlo.
Sbadigliò, poi guardò il letto, pieno di desiderio. Beh, rifletté, non c’è nulla di male se mi faccio un pisolino.
Mentre si sdraiava e chiudeva le palpebre fattesi improvvisamente
pesanti, ebbe la forza di bisbigliare un semplice: “Svegliami tra
venti minuti, Trixy.”
La fata si sedette su un fiore di ibisco, le piccole mani poggiate sul
petalo delicato, le gambe ciondoloni nel vuoto. Da lì attese,
vegliando sul sonno del ragazzo di cui si doveva prendere cura.
Continua…
*Pan ed Eco di questo capitolo sono proprio gli stessi della mitologia
greca che tanto adoro. Li ho presi in prestito; perdonate
quest’escamotage, ma sono cose che amo fare^^.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto; mi scuso per il ritardo con cui ho postato.
Alla prossima!
Baci,
Aurora
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