Di vento e di maschere
Penelope
alzò lo sguardo dalla
tela e prese in mano lo specchio arrotonadato. Osservò i
suoi
occhi truccati di nero, stanchi di non fissare altro che il mare dalla
terrazza. Ormai non c'era quasi più luce, se non quella
della
candela che aveva acceso pochi minuti prima.
Cercò
le salviette nella borsa di iuta strapiena di fogli
sparsi del copione, trucchi e abiti di scena altrui, ne tirò
fuori una ed iniziò a struccarsi in tutta calma. La luce era
tronata, constatò vedendo il bagliore dei lampioni filtrare
dalle serrande socchiuse. Decise di restare nella penombra, stanca per
le luci del palco. Sciolse i capelli ricci, scuri, e si accorse di una
lacrima, una sorprendente, sola lacrima che le rigava una guancia
lasciandovi una riga nera di mascara. Cercò di espliorare
quegli
occhi neri più in profondità, ma quelle
pupille
dilatate dal buio erano troppo grandi per non perdersi. Si
arrese e si voltò dall'altra parte, con un moto d'ira
ingiustificato.
Lacrime
salate come il mare, che le
aveva causato tanto dolore, scorrevano lente sul viso magro di lei, che
si stese sul talamo d'ulivo troppo grande per lei sola, tormentata da
sensazioni non
ancora chiare alla mente.
Cercò
di focalizzare i pensieri che volteggiavano nella
sua testa, ma sfuggivano, come le poche auto notturne sulla strada,
sfrecciando.
Si rialzò in piedi e si affacciò. Era una bella
serata
calda, secca, senza un filo di vento, di certo sarebbe uscita a fare
una passeggiata da sola per la Kalsa, se non fosse stata tanto stanca
per lo spettacolo, fino allo Spasimo, e lì, dove aveva
imparato
a recitare, si sarebbe calata ancora una volta nelle parti dei suoi
personaggi, di quelli che vivevano il lei, che avevano lasciato parte
di sè nel suo corpo. Si ricordò della prima
recita
teatrale, a quattordici anni, nella chiesa scoperchiata, e
dell'emozione provata nel sentire la propria voce suonarle estranea,
nel silenzio speciale di quel luogo. Quel silenzio che le invadeva le
orecchie ogni volta che, con la mente, tornava lì con
Khalid, il
ragazzo algerino che aveva conosciuto ad un laboratorio teatrale tenuto
proprio alla Kalsa dalla sua regista, a cui partecipavano, insieme agli
attori della compagnia, i ragazzi dei quartieri degradati di Palermo.
Khalid era un giovane talento, ed aveva continuato a recitare, lei
aveva più esperienza, e le fu affidata la parte di prima
attrice. Il protagonista era lui, e quando si erano abbracciati sul
palcosenico avevano capito che la storia che interpretavano era la
loro, e avevano provato a conoscersi senza maschere.
Ma
poi lui era partito, benchè
non lo volesse, e sulla più grande delle navi aveva preso la
via
del mare. Tutti aspettavano il loro re, ma era passato troppo
tempo perché potesse fare ritorno. Chi non lo dava per
morto,
credeva avesse rinunciato al ritorno; peggiore sorte, pensava Telemaco
irato, aveva promesso, pensava Penelope.
Tornò
a maledire la maniera in cui veniva gestita l'immigrazione, come aveva
fatto innumerevoli volte, a non capire cosa ci volesse a dimostrare
l'onestà di un individuo, a prescindere dal possesso di un
permesso di soggiorno, a dubitare addirittura della volontà
di
lui. Erano già passati due anni, da quando Khalid aveva
lasciato
l'Italia. Novantasette giornate, dall'ultima telefonata che le aveva
fatto.
-Tornerò,
Penelope- aveva detto -Tu rimani qui con animo fermo, e aspettami, se
anche dovessi tardare-.
Lei aveva giurato di aspettarlo nelle tenute regali, e non ne era mai
uscita. La guerra era finita, e lui tardava ancora. Eppure lei sapeva,
sapeva che nemmeno la morte avrebbe potuto vincere l'astuzia del saggio
marito, che desiderava il ritorno.
Il
flusso di ricordi fu interrotto da quello dell'acqua del rubinetto.
La donna si lavò il viso e fece scorrere
via le
lacrime. Niente, ancora una volta non riusciva a scollarsi di dosso
quel personaggio. Nuovamente la regista, chissà fino a che
punto
involontariamente -la conosceva bene, ormai- aveva scelto il ruolo
giusto: quello che più le somigliava, che più la
aiutava
a capire sè stessa. Pensò alle
maschere di
Pirandello, alle Maschere
Nude,
che privavano gli attori delle proprie, scoprendo il loro
vero volto. Lei portava una maschera nuova, e non riusciva
più a vedere
con chiarezza il suo vero volto. La cartapesta si era fusa alla pelle,
rendendo doloroso ed orrendo il distacco.
Penelope
non perdeva la speranza. Ogni volta che una nave si scorgeva
all'orizzonte, la attendeva con sguardo acuto e cuore vivo.
Il
telefono squillò alle prime luci dell'alba. Lei
sollevò
il ricevitore e rispose stanca, desiderando tanto l'ardore che aveva
Penelope.
-Ho
bisogno di sapere che mi stai aspettando ancora-.
-Ti
aspetterò sempre, Ulisse-.
Aggiorno con un piccolissimo lavoro d'introspezione -fittizia- seguito
alla visione di due spettacoli teatrali a cui hanno partecipato persone
a me care. Nonostante le due rappresentazioni fossero molto differenti
fra loro, in entrambi casi ho avuto modo di riflettere
sull'attribuzione delle parti, e ho avuto come l'impressione di avere
la possibilità di conoscere meglio la persona, attraverso il
personaggio. Dunque questa storia, poco rifinita, breve e scritta di
getto e con una vena romantica del tutto superflua ed irritante, è dedicata ai miei amici attori, ed in particolare a
Silvia e Raniero.
La Kalsa è un quartiere abbastanza degradato della vecchia
Palermo, in cui, a soprpresa, in completo contrasto con l'ambiente
circostante, si trova una splendida chiesa sconsacrata, priva oggi del
tetto ma avente un'acustica straordinaria e particolarissima,
utilizzata per i concerti dalla confinante scuola di musica di recente
fondazione, che ho avuto modo di visitare alcuni anni addietro.
Vi ringrazio della lettura,
Hari.
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