Lost and found
Ciao a tutti, volevo solo spiegare due cosucce prima di lasciarvi alla
lettura.
Questa fanfiction è una traduzione della storia "Lost and
Found"
pubblicata su fanfiction.net da Anonymous Eli.
L'autrice mi ha gentilmente dato il permesso di tradurla (se volete, ho
le prove :-D) ed era molto contenta che la storia potesse
raggiungere un pubblico più ampio. Si tratta di una fic
famosa
nel fandom inglese che secondo me merita davvero di essere letta. Devo
avvisarvi però: potreste innamorarvi di Mycroft, a me
succede
tutte le volte che la leggo!
Se vi
va di lasciare qualche commento/recensione (sono sicura che all'autrice
farebbe piacere), sarò felice di far sapere la vostre
impressioni a chi di dovere. Se invece preferite leggere la storia
originale (e fate bene!), ecco il link: http://www.fanfiction.net/s/7703111/1/Lost-and-Found
La smetto di blaterare e vi lascio a Sherlock e Mycroft!
AUTORE: Anonymous Eli
TRADUZIONE: Badwolf16
La parola più
pericolosa in ogni lingua umana è la parola fratello.
- Tennesse Williams
Era una notte fredda, e Sherlock aveva perso la sua sciarpa.
Be', forse perso
era la parola
sbagliata. Un colpo di vento gliel'aveva strappata via in un momento
imprecisato tra il salto dal secondo piano del magazzino e il suo
atterraggio tutt'altro che perfetto sull'asfalto sottostante.
Nei
momenti successivi era stato decisamente troppo disorientato per capire
dove fosse finita.
La sua gamba era rotta - quella sinistra - e una sconcertante
quantità di sangue gli colava dalla tempia. Niente
che minacciasse la sua vita nell'immediato futuro,
né di
particolarmente interessante, quindi Sherlock mise le diagnosi e il
dolore da parte per concentrarsi sulla sciarpa.
Cinque metri e mezzo, forse, tra la finestra del secondo piano e il
terreno. Vento da sud - sudest, a circa ventitré chilometri
orari. Sciarpa di cashmere, a maglia fine. Probabile posizione ...
I suoi pensieri si bloccarono per un momento. Probabile posizione...
"Maledizione" disse a voce alta. Le informazioni rifiutavano
di
formare una soluzione coerente nella sua testa. Il che, insieme al
fatto che il dolore nella sua gamba stava peggiorando, lo condusse ad
una conclusione del tutto diversa: era ora di chiamare John.
Con dita intorpidite in maniera preoccupante - da quanto le sue membra
avevano iniziato a tremare? - Sherlock raggiunse la tasca del cappotto.
Gli ci vollero diversi tentativi prima di riuscire a chiudere la mano
intorno al suo cellulare e uno sforzo estenuante e
insopportabile per tirarlo fuori. Era frustrato dal modo in cui il suo
corpo rispondeva ai comandi. Così impreciso, strano, lento.
Era straziante.
Dopo una breve lotta, riuscì a schiacciare i tasti giusti, e
il
telefono iniziò a squillare. Una, due, tre volte. E poi la
voce
registrata di John: "Salve,
avete
contattato John Watson. Lasciatemi un messaggio e vi
richiamerò
il prima possibile. Sherlock, comprati il tuo dannato latte da solo."
L'angolo della bocca di Sherlock si piego in un ghigno. Molto bravo,
John.
Rimase immobile per un momento dopo il bip, con il cellulare premuto
contro l'orecchio, prima di chiudere la telefonata e lasciarsi cadere
le mani in grembo. Stava iniziando a sentirsi davvero male, il dolore
gli si arrampicava sulla gamba e gli perforava la tempia, lo stomaco si
torceva in maniera sgradevole. E il tremore stava iniziando a
diventare preoccupante.
Doveva provare con qualcun altro.
Il suo primo pensiero andò a Lestrade - lo aveva
già
chiamato in situazioni simili, prima di John, e si era sempre
presentato. Furioso, di solito, e con la predica pronta ("Non puoi dare la caccia ai
criminali, Sherlock. Sei un civile, idiota!),
ma c'era sempre qualcosa nel suo tono che suggeriva preoccupazione, e
un esasperato senso di affetto. Sfortunatamente Lestrade era nel
Somerset, dalla sorella, fino a venerdì.
Quindi rimaneva una sola persona, per quanto l'idea lo facesse stare
male.
Sherlock considerò per un momento l'idea di chiamare Molly
Hooper, o Mrs Hudson. Doveva pur esserci qualcun altro. Chiunque altro.
Per un brevissimo momento pensò addirittura ad Anderson. E poi,
naturalmente, c'era sempre l'opzione di rimanere lì a
morire...
Ma alla fine, doveva essere Mycroft.
Soprattutto dal momento che Sherlock aveva perso la sua sciarpa.
Tristemente, impose alle sue dita, ancora più intorpidite di
prima, di digitare il numero privato di suo fratello. Come si
aspettava, a Mycroft bastarono due squilli per rispondere.
Dopotutto, l'ultima volta che aveva intenzionalmente chiamato suo
fratello, quattro anni prima, era appena andato in overdose con un mix
particolarmente potente di cocaina ed eroina. Certe cose
tendevano a creare un senso di urgenza, riteneva.
"Sherlock?" disse Mycroft con decisione, alla sua voce mancava il
solito piatto senso di sufficienza.
Sherlock si era preparato le parole, una valutazione sbrigativa e
clinica della situazione, condita con pochi ricercati insulti: stava
seguendo una pista, perché lui era abbastanza
in forma da poter raccogliere informazioni da solo,
e si era trovato di fronte ad un piccolo contrattempo. Poteva Mycroft,
per favore, mandargli un autista se non era troppo impegnato a rifilare
notizie false al governo colombiano?
Ma le parole non uscivano.
"Sherlock", Mycroft ripeté insistentemente.
Sherlock costrinse le parole ad uscire dalle sue labbra intorpidite.
"Ho bisogno...di te," biascicò. "East End."
Ci fu una breve pause, poi: "Quanto gravemente sei ferito?" la voce di
Mycroft era addirittura preoccupata.
Di nuovo, con grande frustrazione di Sherlock, la sua eloquenza venne
meno. Stava cominciando a capire che le sue ferite potevano essere
più gravi di quanto non avesse pensato all'inizio. "Testa,"
disse brevemente. "Gamba."
"D'accordo. Ti stiamo localizzando." Si sentiva parecchio trambusto in
sottofondo; dita sulla tastiera, fogli svolazzanti e passi veloci.
Una macchina in partenza.
Non ci sarebbe voluto molto adesso; qualcuno sarebbe venuto a
prenderlo. Il sollievo sembrò succhiargli via l'energia che
gli
rimaneva. Stava diventando insopportabile, la lentezza, il dolore, il
freddo...il freddo...
"Mycroft?" sussurrò.
"Sono qui, Sherlock." La voce di suo fratello, lontana.
Doveva dirglielo. "L'ho persa. La mia sciarpa."
"Va tutto bene," disse Mycroft con un tono gentile che confuse Sherlock.
"No. La tua...sciarpa. Quella che mi hai dato..." Era importante.
Sherlock doveva fare in modo che suo fratello capisse.
"L'avevo capito. Va tutto bene." Malgrado le sue parole, Mycroft
sembrava teso.
Stava diventando difficile tenere il telefono all'orecchio; Sherlock
doveva chiudere la chiamata, nonostante si sentisse stranamente
riluttante a farlo. "Mycroft. Devo...mettere giù."
"D'accordo. Cinque minuti. Rimani sveglio, Sherlock."
E poi la chiamata terminò. Sherlock lasciò andare
il
cellulare per terra, lasciò che la mano gli cadesse di lato.
Chiuse gli occhi, ed esalò un lungo respiro.
Mycroft aveva detto che andava bene, la questione della
sciarpa,
ma non era vero. Era la preferita di Sherlock. Blu navy. Cashmere.
L'aveva rubata dall'armadio di suo fratello prima che Mycroft partisse
per l'università; era stata una delle tante proteste messe
in
atto - non parlare per giorni, portare a casa dei brutti voti, e
proporre un "esperimento" particolarmente memorabile durante
la
cena - per impedire al fratello di andarsene. Ma non era servita a
nulla, naturalmente.
Neanche quattro mesi dopo la partenza di Mycroft, Sherlock, per gentile
concessione del suo compagno di classe Alan Henshaw e della sua banda,
era finito in ospedale con un polso rotto e diversi lividi. Henshaw era
misteriosamente venuto in possesso di una sciarpa blu navy molto bella
mentre Sherlock aveva perso la sua.
Poi durante le vacanze di Natale, altrettanto misteriosamente, Alan
Henshaw cambiò scuola. La sciarpa finì
chissà
come, il giorno
in cui Mycroft torno all'università, dentro un pacchetto
involtato con cura sul letto di Sherlock con un biglietto appuntato
sopra: Dimmelo se la
perdi di nuovo. - M
E adesso Sherlock l'aveva persa di nuovo.
Stupido, stupido,
stupido! si
rimproverò. Tentò di cambiare posizione, di
sistemarsi in
maniera più comoda contro il muro, ma muoversi si
rivelò
un sbaglio. Miseramente Sherlock si curvò in avanti e
vomitò lo scarso contenuto del suo stomaco sul pavimento.
Tè, osservò con indifferenza, che John lo aveva
obbligato
a mandare giù quella mattina, ben sapendo che lui si sarebbe
rifiutato di mangiare durante un caso.
Buon, affidabile, prevedibile John. All'improvviso Sherlock voleva solo
essere a casa a Baker Street, con gli antidolorifici prescritti, il suo
violino, e un dottore dell'esercito brontolone tutto affaccendato
intorno a lui. Se solo l'assistente di Mycroft fosse arrivato ...
E improvvisamente, come se li avesse evocati, udì dei piedi
correre, e sentì una mano toccargli il viso con molta
gentilezza. Gli occhi di Sherlock si spalancarono e per un momento
non fu in grado di elaborare quello che vide.
Mycroft, Mycroft,
in ginocchio
davanti a lui, che gli toccava la guancia. Strizzò gli
occhi,
confuso. Quand'era stata l'ultima volta che Mycroft si era mosso per
lui? Riusciva a ricordare solo assistenti e autisti, dottori, clienti,
che suo fratello aveva mandato
da lui.
E soprattutto; quando era stata l'ultima volta che Mycroft aveva corso?
Solo in quel momento Sherlock realizzò che suo fratello gli
stava parlando in modo molto sincopato, serio.
"Sherlock? Sono qui, va tutto bene. Guardami. Ci siamo. L'ambulanza
sarà qui tra due minuti."
Cercò di dire qualcosa, ci provò davvero, ma non
riuscì a coordinarsi. Rimase quindi in silenzio, a
fissare
lo sguardo di Mycroft , fino a che delle luci rosse lampeggianti non lo
costrinsero a chiudere gli occhi, e una rassicurante
oscurità lo
inghiottì.
Si svegliò con il bip regolare del monitoraggio
cardiaco, e con il leggero russare di John.
Prima di aprire gli occhi, organizzò attentamente i suoi
pensieri. Il caso Chris Collins. Trafficanti. Cinque omicidi, tutti
opera di un professionista. Il magazzino nell'East End. Ah,
sì.
Con le spalle al muro, armi da fuoco illegali, un salto mal calcolato
dalla finestra del secondo piano. Dolore, richiesta di aiuto. Vaghi
ricordi di suo fratello. E adesso l'ospedale, e John.
Sospirò sommessamente mentre ogni pezzo del puzzle andava al
suo
posto, e aprì gli occhi su un soffitto molto bianco. Dio,
sperava di non essere ferito gravemente. Gli ospedali erano
così
disperatamente, orrendamente noiosi.
Cercò di mettersi a sedere con il solo risultato di
ritrovarsi con un intenso
dolore alla gamba. Un involontario, strozzato suono sfuggì
dalle sue labbra.
Il che, ovviamente, sveglio John.
"Sherlock!" disse John, elettrizzato e preoccupato allo stesso tempo.
Mise una mano sulla spalla di Sherlock e lo spinse di nuovo
giù.
"Piano, piano. Non muoverti. Sei ferito."
"Ma dai," disse Sherlock con voce stridula, la sua gola era secca.
John rispose con un vero, genuino sorriso, mentre gli prendeva
dell'acqua,
"Dio, non mi importa nemmeno del sarcasmo, sono così
sollevato.
Tu sì che sai come gettare tutti nel panico. Lestrade
è
persino ritornato in macchina dal Somerset."
"Solo una gamba rotta e una commozione cerebrale. Noioso",
disse Sherlock con aria di scherno.
John divenne improvvisamente serio, e Sherlock lo guardò
davvero
per la prima volta. Capelli scompigliati, barba corta sulle guance,
spalla ferita affaticata. Tutti segnali che indicavano diversi
giorni
passati su una sedia d'ospedale.
"No," gli disse John. "Non noioso. Quando sei atterrato ti sei rotto
praticamente ogni osso del piede. Per non parlare della tua gamba.
Frattura esposta. Hai perso molto sangue."
Sherlock lo fissò. Sicuramente si sarebbe accorto del
sangue...ma d'altra parte i suoi ricordi dell'intero incidente, fin dal
momento in cui si era gettato della finestra, erano molto confusi.
Forse era stato incosciente per un po', e poi in stato di shock.
"Ti ho chiamato," ricordò, cercando di capire.
Fu subito chiaro che aveva detto la cosa sbagliata. John
impallidì. "Mi dispiace tanto, Sherlock. Avevo tolto la
suoneria
al telefono. Quando Mycroft mi ha scritto che eri in ospedale, e ho
visto la chiamata persa...e poi quel messaggio. Dio, è
stato..."
Sherlock si ricordava solo di essere rimasto in silenzio dopo aver
ascoltato la segreteria di John. Fissò il suo amico con
uno sguardo assente.
John deglutì. "Trenta secondi. Potevo sentirti respirare,
gemere. Sembrava davvero grave. Mi dispiace tanto."
Sherlock aggrottò le sopracciglia. "Non è stata
colpa tua. E non mi ricordo di quel messaggio, non proprio."
John rispose con un debole sorriso. "Me lo aspettavo. Hai quasi perso
la gamba. Sai, tre diverse operazioni. Ma mi hanno detto che ti
riprenderai del tutto e, dopo aver visto i raggi, sono
d'accordo."
Era una cosa molto difficile da elaborare. La sua memoria - la sua mente
- non lo aveva mai tradito in questo modo prima. Sherlock
tentò di
guardarsi la gamba, che era appoggiata su diversi cuscini. Era
ricoperta da gesso e bende dalle dita dei piedi fin sopra il ginocchio.
Poteva sentire i punti tirare sulla pelle, e un dolore
fastidioso
e pulsante, ma per il resto stava bene. Ma d'altra parte gli stavano
somministrando antidolorifici via endovenosa.
"Mycroft?" chiese. "È davvero venuto da me?"
John annuì. "Non l'ho mai visto in quello stato," disse.
"Era livido.
Non ci avevo mai davvero creduto prima, ma avevi ragione. L'uomo
più pericoloso che abbia mai...che mai
incontrerò. Quegli
uomini, quelli che ti hanno intrappolato nell'edificio...non sono
sicuro di voler sapere cosa gli ha fatto."
Sherlock provò a ricordare cosa potesse aver detto, o fatto,
mentre parlava con Mycroft, da spingere il fratello a reagire in quel
modo. Aveva pianto, o sbraitato a sproposito, o ...
E poi si ricordò della sciarpa.
"Oh," sussurrò Sherlock. "Oh."
Otto settimane dopo, quando Sherlock fu in grado di muoversi un po' con
le stampelle, lui e John tornarono a Baker Street. Sebbene l'alloggio
che Mycroft aveva messo a loro disposizione fosse incredibilmente
lussuoso (e al primo piano, il che costituiva la sua più
grande
attrattiva), tornare a casa fu a dir poco meraviglioso.
Sherlock volle a tutti costi lottare da solo con le scale di casa, ma
permise a John di stare dietro di lui in caso fosse caduto. Gli era
successo spesso, in quei giorni, durante le sedute di
fisioterapia.
Quando finalmente entrarono nell'appartamento, Sherlock
crollò sul divano, esausto. John si affrettò a
sistemargli la gamba sul bracciolo con il suo cuscino della bandiera
inglese. "Posso portarti qualcosa?" chiese.
John era stato assolutamente fantastico da quando quell'incubo era
cominciato. Quando Sherlock pensava che sarebbe morto dalla
noia,
o soffriva per il dolore, o era così frustrato per i suoi
pochi
progressi da rifiutarsi di parlare o mangiare per giorni,
John lo sapeva, lo capiva, e faceva qualunque cosa
fosse necessaria. Persino quando ciò significava
urlare e
persuadere e incassare ogni insulto che il considerevole intelletto di
Sherlock riusciva a concepire.
"Lestrade ci ha portato i fascicoli di qualche altro caso?" chiese
Sherlock. Anche quell'uomo era un dono del cielo.
"Te li ho lasciati sul comodino vicino al letto," rispose John mentre
si muoveva per la cucina. "Dopo", disse.
Sherlock, essendo Sherlock, non aveva intenzione di tollerare un dopo.
Con molta attenzione riuscì ad alzarsi dal divano e
afferrare le
stampelle. Più velocemente che poté,
zoppicò fino
alla camera da letto alla ricerca della pila di fascicoli. Ma la sua
attenzione fu attratta da un pacchetto involtato con cura.
Esalando un respiro, timoroso di crederci, Sherlock si sedette sul
materasso. Doveva toccarlo un momento per esserne sicuro.
La sua sciarpa, fresca di lavanderia, esattamente come la ricordava.
Appuntato sul cashmere c'era un biglietto: Trovata di nuovo. Cerca di
tenertela stretta questa volta. - M
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