Hokuto
Umeda odiava perdere di vista le sue prerogative.
Odiava
agitarsi da un momento all’altro soltanto perché non sapeva come affrontare una
data situazione.
Amava
avere tutto in mano, così agguantato, fermo e sicuro in suo possesso senza
bisogno di cercare o allungare le braccia per afferrarlo. Ed amava se stesso,
di conseguenza a tutto questo, perché il suo raziocinio era abbastanza ferreo
da rimanere sempre congelato, fisso nelle sue parti e nei suoi comparti stagni,
gravido dei concetti in base a cui riusciva ad andare avanti nella vita senza
incertezze e avendo sempre la soluzione di ogni problema e ogni questione già
in se stesso.
Ma
guarda un po’.
Lo
diceva anche una disciplina zen, non ricordava esattamente quale.
Hokuto
Umeda non ricordava mai niente di tutto ciò che non riusciva a sopportare.
Ma
l’aveva comunque sentito, da qualche parte, un replicare senza diritti d’autore
della sua ferrea logica di vita.
Se
sei davanti ad un problema apparentemente senza soluzione fermati, e respira.
E
non cercare la soluzione fuori. Perché quello che cerchi è già dentro di te.
Merda.
Dare
ragione a degli psicopatici malati di yoga capaci soltanto di toccarsi il
sedere con la punta del piede –facendo passare la gamba da sopra la spalla- era
terribilmente fuori dalla sua logica, ma era costretto a farlo. Perlomeno per
mantenerla tale.
Merda.
Quel dannato Kayashima* lo stava influenzando in tutti i modi, tranne che
positivi.
Ad
ogni modo, anche Hokuto Umeda aveva i suoi momenti di empasse mentale.
In
cui la sua logica non diventava altro che un grande, inutile, alquanto
molliccio agglomerato di cadaveri di neuroni e cervella shakerati, che
ondeggiava nella scatola cranica. Da lobo occipitale a lobo frontale… da lobo
occipitale a lobo frontale. Poco utilizzabile al fine del concepimento di un
idea sensata o benché meno logica o razionale.
Un
immagine schifosa, ma decisamente calzante al fenomeno.
Ed
ebbene, Hokuto Umeda, sapeva che quello era uno di quei momenti.
Pestò
i piedi a terra, perché tanti erano davvero i ciottoli ovali che aveva
calpestato sulla via, di sbieco, maldestramente.
Tante
erano le scariche di dolore lungo la caviglia come piante rampicanti lungo una
colonna di marmo e tanti gli improperi che gli avrebbe lanciato addosso una
volta che se lo sarebbe ritrovato tra le grinfie.
Mais
oui madame.
Lasciò
passare senza danni rilevanti qualche studente in toga, graziandoli dalle sue
impetuose richieste d’informazioni –hai mica visto un ragazzo con lo sguardo da
bastardo, maniaco, sadico manipolatore da qualche cazzo di parte?- che
sembravano piuttosto propensi a tuffarsi a capofitto nella prima aiuola che si
trovavano a portata di mano pur di non avere a che fare con lui, allontanò una
cicca di sigaretta con un breve, nervoso scatto del tallone. E continuava a
mettere in conto.
Oh,
se continuava a mettere in conto. Meticolosamente nel suo cervello tanto, ma
tanto dotato.
Non
li avrebbe neanche potuti contare con tutte le dita delle mani e dei piedi i
debiti che avrebbe avuto da pagare.
Giganteschi,
enormi debiti.
Piantò
i piedi a terra, per la prima volta in non sapeva neanche più lui quante ore,
riordinò le idee in quella testa che era stato a sbatacchiare troppo da una
parte all’altra della scuola perché potesse ancora essere concepita nei normali
comparti stagni che compongono un perlomeno usuale cervello umano.
Solo
un grande, inutile, alquanto molliccio agglomerato di cadaveri di neuroni e
cervella shakerati, che ondeggiava nella scatola cranica. Da lobo occipitale a
lobo frontale… da lobo occipitale a lobo frontale. Poco utilizzabile al fine
del concepimento di un idea sensata o benché meno logica o razionale.
Così
poco utilizzabile che si stupì di riuscire a percepirlo.
Di
riuscire a percepire un qualunque cosa, in realtà.
Accarezzare
le narici, annidarsi, espandersi nella testa.
E
per un attimo ricordò in che facile, stupido modo il suo genio riuscisse ad
andarsene a puttane… per così poco.
Per
quanto lui potesse essere annoverato nella categoria del “poco”. Ed il
che, di successivo acchito, gli risultava assurdo soltanto nella già breve
associazione delle due parole. Soltanto un peso in più per la sua testa in
subbuglio, soltanto falso.
-Se
sei davanti ad un problema apparentemente senza soluzione fermati, e respira..-
Posava
le labbra sulla ruvida carta arrotolata, catturava i cerchi grigiastri appena
attorno alla base, li rilasciava in un soffio aggraziato.
Si
permise di sfuggire la vista di una nuvola di fumo particolarmente raffinata,
per rivolgergli un sorriso obliquo da aspettativa delusa.
-…E
non cercare la soluzione fuori. Perché quello che cerchi è già dentro di te-
Dannato
bastardo, maniaco, sadico manipolatore.
-Quelle
sigarette sono mie, brutto demente-
Ryoichi
Kijima lo guardava, accucciato con le gambe compresse al busto, contro il muro
dello spogliatoio di un club sportivo indefinito –come se gli interessasse
davvero saperlo-, da sotto un ciuffo di capelli neri direttamente puntato
all’aperto cielo di primavera. Unico al mondo a riuscire a far passare una
pettinatura assolutamente ridicola e simil buffa per un taglio originale ed
anticonformista, nonché dannatamente artistico. O almeno, così aveva l’ardire
di sostenere.
-Ma
dai.. scherzi?- chiese ridendo, ruffiano, analizzando l’oggetto incriminato con
occhio critico.
E
non trovando proprio niente, assolutamente nulla di anormale in quel che stava
facendo. Nemmeno nell’ignorare il viso dall’espressione furiosa che Hoku chan
gli rivolgeva da ormai poco meno di qualche centimetro di distanza, piegando il
busto verso di lui ma rimanendo in piedi.
Senza
scendere al suo livello. Senza lasciarsi coinvolgere da niente se non dalla sua
furia potenzialmente distruttiva.
-Quel
che è mio non è necessariamente tuo. Anche se tu probabilmente lo pensi-
Esalò,
stringendo le mani sui fianchi sottili in una posizione di stizza plateale.
L’altro
aspirò altro fumo facendo altro casino. Quasi lo sentì, il rumore delle
nuvolette che appestavano i polmoni.
-Dovrò
assolutamente pensare ad un modo per rimediare.. allora-
Cercò
di essere il più veloce possibile, anche se sapeva che nessuno almeno dei
presenti sarebbe stato contrario al partito preso.
Aveva
afferrato le ciocche rossastre che facevano curva sinuosa sulla nuca, le aveva
strette saldamente tra indice e pollice sentendo la leggera frizione di una
presa davvero salda, e aveva tirato uno strattone. Così secco che era in dubbio
che l’effetto di quel gesto sarebbe stato davvero quello desiderato.
Ignorò
la sensazione di qualche capello che gli vezzeggiava il palmo della mano mentre
si lasciava andare al vento punteggiando di rosso l’orizzonte –la cravatta, da
buono appiglio quale era, era naturalmente coperta dalla toga-, ed affondò le
labbra in quelle che aveva davanti –bellissime, irresistibili- con tutto lo
slancio che aveva.
Addentò,
afferrò, agganciò tutto quello che poteva.
Si
resero conto che quello era un morso, un azzannare feroce. Non un bacio.
Ma
era decisamente meglio. Cazzo se lo era.
Le
lingue si rincorrevano, si afferravano, si dibattevano una contro l’altra senza
controllo e senza legge.
I
denti le cercavano di tanto in tanto, o si dedicavano piuttosto alla
stuzzicante lusinga delle labbra tremanti e vaganti, incastrandole tra dente e
dente, pressandole leggermente, per poi lasciarle di nuovo in balia del furore
della danza.
Respiri
catturati e rilasciati, ancora pregni del pastoso odore delle sigarette, rubati
da una bocca all’altra. Raggiungevano il limite della gola fin sul baratro del
non ritorno, venivano richiamati indietro ad impiastricciare, inacidire sempre
di più il gusto che sentivano, a coprire il sentore dolce delle loro bocche
–reale-, a riempirle. A gonfiare le guance tese.
Ne
aveva ancora uno in bilico, che ancora si dipanava sul palato, quando Hokuto si
separò, vacillante.
E
si fermò dal fare un sorriso così lungo da tagliargli il viso da parte a parte.
Perché
davvero non c’era niente che non fosse andato come doveva andare.
Non
sarebbe stato certo lui però, ad ammetterlo. Perlomeno non per primo.
-Ho
pagato il mio debito, Hoku chan?- domandò, con quella sua faccia da schiaffi.
Con
quelle sue labbra da baciare all’infinito. Da mordere, azzannare all’infinito.
-Non
sei nemmeno lontanamente prossimo al farlo, Ryo chan-
Arrivò
finalmente a capire che nessuno dei due avrebbe ammesso, o emesso un giudizio,
o detto alcunché su un qualunque elemento, o caratteristica, o dinamica del
loro rapporto, mentre la sua bocca veniva di nuovo invasa. Senza accorgersi di
logica conseguenza che non c’era nessun elemento, caratteristica, o dinamica,
che avesse più attrattiva di quello che già avevano.
E
che era un discorso mentale che aveva fatto smisurate volte. Non c’era nemmeno
da perderci tempo.
Il
loro tempo era già, assolutamente, degnamente occupato.
-Hokuto
kun?-
-Hn-
-Avevi
qualcosa da dirmi?-
-Cosa
ti fa pensare.. ch.. che avessi qualcosa da dirti?-
-Perché
ce l’hai ancora-
Si
staccò ancora, perché era rimasto davvero troppo poco fiato nei suoi polmoni
per poter parlare e baciare contemporaneamente –anche in condizioni normali, in
verità, sarebbe stato incredibile se ne avesse avuto-, si sedette con un sonoro
tonfo accanto a lui.
-Può
darsi-
Allargò
le braccia, afferrando le gambe, portandosele e stringendosele addosso al
petto. Appoggiando la testa sulle ginocchia un po’ indolenzite. Rivolgeva la
vista allo scorcio delle piste del club di atletica in ristrutturazione, ai
macchinari dalla sconosciuta funzione che stazionavano in locazioni disordinate
sull’immenso campo che s’estendeva all’orizzonte.
Non
aveva proprio niente d’interessante, ma rimaneva a guardarlo giusto per il
gusto di avere la vista riempita di qualcosa.
Qualunque
cosa. Anche priva del suo più minimo interesse. Anche se non gli riempiva la
mente.
-Tu..
che cosa farai.. adesso?-
Ryoichi
sembrò pensarci su, senza poi tutto questo impegno, facendo volteggiare la
sigaretta dimezzata nella mano senza un po’ di controllo dei suoi stessi
movimenti, senza nemmeno stare ad osservare quel che stava facendo. Con il
collo leggermente reclinato in avanti, la testa volta di conseguenza.
-Appenderò
il diploma sul muro del corridoio di casa, con tanta cura, e starò a guardarlo
con malinconia ricordando i bei tempi andati-
-Parli
come un vecchio sul letto di morte-
-E
tu che farai?-
Sputò
quella punta di umorismo nero con un vago senso d’inadeguatezza, insieme ad un
po’ di cenere che, non sapeva né come né quando, gli si era annidata in bocca.
Non lo faceva parlare, bloccava le parole in bilico tra l’essere dette ed
essere pensate.
Bastava
la sua presenza per impedire ad Hokuto Umeda di parlare come Hokuto Umeda
sempre faceva.
Appunto.
Tranne che per quando lui entrava a far parte delle incognite delle sue
equazioni mentali.
Hokuto
soffiò aria priva di caligini dalle labbra ancora umide, sistemò la schiena
lungo il muro da poco riverniciato, di un bel colore verdognolo che si adattava
divinamente all’ambiente. Assestò i propri pensieri in aperta rivolta al suo
sistema mentale dittatoriale, per trovare la risposta.
-Voglio
tanti bei ragazzi.. tanti bei ragazzi intorno a me tutta la vita-
Disse,
con un lungo obliquo sorriso delle labbra sottili e brillanti.
Non
si aspettava nessuna dimostrazione di gelosia, o di violento possesso, o di
ostilità al progetto.
E
non ebbe nulla di tutto questo, assolutamente niente anzi. Solo un'altra
boccata di fumo che infrangeva il profilo di una nuvola bianca del cielo e ne
inquinava la candida vista. Un breve movimento di assestamento della testa
prima della boccata successiva. Assolutamente niente.
-Probabilmente,
allora, non andrai molto lontano da qui.. Dottor- maniaco- ninfomane- Umeda-
Una
constatazione obiettiva, nulla di sentimentale o che tradisse un qualunque
coinvolgimento.
Voce
polare, il minimo ed indispensabile interesse alla faccenda, all’argomento del
discorso. Non era neanche lì, in quel momento.
Non
conoscevano la posizione uno dell’altro, la parvenza uno dell’altro, neanche
più si conoscevano l’un l’altro.
Prima
che le labbra e le bocche sempre pregne del sapore del tabacco si toccassero,
si azzannassero.
Ma
andava bene così. Rimaneva tutto nella freddezza, nella lucidità e alla luce
del sole.
Andava
schifosamente, gelidamente bene. Bene per la sua logica di vita.
-E…
Masato?-
Lo
chiese in poco meno di mezzo secondo. Come un respiro lasciato e tagliato a
metà per poi essere inghiottito ancora.
Nemmeno
adesso si aspettava una qualche reazione, in realtà. Non era quello che voleva,
non era quello che desiderava da lui.
Una
reazione diversa da quelle che di solito vedeva in lui, non era merce di
scambio che valesse la pena aspettarsi.
Nessuna
aspettativa era utile poi.
-I
suoi genitori sono tornati. Sono andati tutti a vivere ad Okinawa**. Il padre
ha trovato lavoro là-
Allungò
la mano. Afferrò la sigaretta che si stava di nuovo per dirigere verso le sue
labbra.
-Quindi?-
-Quindi
cosa?-
Se
ne appropriò con menefreghismo per il derubato.
Tirò
la più lunga, asfissiante, infinita boccata della sua vita.
-Riuscirai
a stare in piedi da solo.. senza avere qualcosa a cui aggrapparti?-
Per
un attimo era sfuggito alla sua sistematica mente. Merda.
Non
fece caso al breve tremore del braccio a contatto con la sua spalla. Non ci
fece caso perché quella era il massimo della reazione che riusciva ad ottenere.
Sapeva cosa significava, cosa nascondeva, sapeva di tutto ciò di cui era
preludio e eloquente pronostico.
Di
ciò che forse sapeva, che forse non sapeva di lui. Ciò che sfuggiva alla sua
sistematica mente.
Ricordando
che la sigaretta che aveva in mano era la sua, aspirò il doppio del fumo. Lo
assaporò il triplo del tempo.
-Non
capisco di che parli-
Fece
dondolare la sigaretta di lato, in segno d’ovvietà.
-Questo
non riesco a dimenticarlo-
Aspettò,
senza fretta. Senza aspettative.
Nei
occhi vide chiaramente che non c’era proprio nessuna volontà di rispondere.
Rimasero
in silenzio, la sigaretta lasciata in balia del fuoco che la divorava
centimetro per centimetro.
Immaginando
magari di poter salire in cielo, aspirare le nuvole e assaporarle come il fumo
che avevano sempre in bocca.
Ma
sarebbe stato più dolce, più delicato sul palato. Non avrebbe impregnato il
sapore dei loro baci.
Non
avrebbe coperto quel che nascondevano.
Nuvole
con l’azzurro del cielo infinito.
-Il
cielo di Magritte-
-Hn?-
Si
stupì di vedere il suo palmo vuoto allungarsi verso il cielo.
Con
dentro niente, senza afferrare niente.
-Disegnerò
un cielo.. un cielo anche più bello di quelli di Magritte..-
Chiudendo
il pugno sul profilo di una nuvola ingannatrice, che sembrava tanto vicina,
sentì che qualcosa c’era.
C’era
qualcosa che ancora poteva afferrare.
-…è
questo che farò-
Si
sentì un traditore, dopo aver ascoltato quelle parole.
E
non perché le grazie di Ryoichi Kijima non potevano bastare al soddisfacimento
dei suoi obbiettivi di vita.
Non
perché sapeva che ne avrebbe cercate altre, e di altrettante avrebbe goduto.
Non
perché non era mai riuscito a dirgli quanto sapesse di lui, senza il suo
permesso.
Non
perché, per quanto continuasse a dirglielo sempre, lui non riusciva mai a
dimenticare niente.
Niente
dei loro baci, di quello che sapeva di lui senza che nemmeno lui lo sapesse.
Ma
perché, beh, mentre vedeva il profilo longilineo del suo uomo stagliarsi
all’orizzonte comprendo il profilo della nuvola che la sua mano non era
riuscito ad afferrare, aveva capito, meglio di quanto avesse mai potuto fare.
Meglio di quanto sarebbe mai riuscito a fare.
Ryoichi
Kijima gli aveva fatto capire una cosa pressoché fondamentale al raggiungimento
dei suoi obbiettivi.
La
sua logica era davvero una gran cazzata.
Corse
verso di lui.
Per
afferrarla.
Perché
lui afferrasse quel che tanto cercava.
-Potrai
aggrapparti a me.. quando vorrai-
Sorrise.
Sentendo
quando fosse buono il gusto, il suo sapore.
Il
sapore dell’ultima boccata.
*Naturalmente
parlo del padre del Kayashima del manga (il compagno di stanza di Nakatsu che
vede gli spiriti e le entità spirituali, e che ama fare yoga, per l’appunto).
Non so se anche lui frequentasse l’Osaka, né se come il figlio fosse
appassionato anche lui di yoga, ma se così non è, beh, passatemi la licenza
poetica per piacere XD
**
Naturalmente anche questo me lo sono inventato di sana pianta XD
Ecco!!!
Adesso chi di voi legge altre mie fanfic capisce perché le aggiorno una volta
ogni morte di papa.
Praticamente
sono stata mesi e mesi senza scrivere niente e bam.. da un momento all’altro mi
si accende la lampadina sulla prima cosa che mi capita davanti.
Bah..
comunque è una cosina senza troppe pretese.
Ma
se commentate mi fa piacere.
Baci.