Clair de Lune
Clair de Lune.
Perchè è quando
guardi la luna,
che ogni emozione
si annulla
devota alla sua
misteriosa bellezza.
La luna era alta nel
cielo, chiara, bella e malinconica.
Si stagliava fiera e
maestosa sullo Stretto di Messina e il suo riflesso rischiarava gli ambienti,
anche se le luci arancioni dei lampioni ne dimezzavano la bellezza. A quell’ora
vi erano poche persone intente a passeggiare, mentre un solo ragazzo stava correndo in mezzo ai
passanti rimasti, creando piccole nuvole
di condensa a causa della corsa.
Era alto e bello. Una di
quelle bellezze semplici, dagli occhi verdi e i capelli biondi.
Jacopo si guardò intorno:
a quell’ora tarda, chi voleva incontrare?
Chiuse gli occhi e
sospirò, auto insultandosi per aver ritardato anche quella volta.
Aveva tirato troppo la
corda con Daniel e adesso era stato piantato per l’ennesima volta, anche se era
una conseguenza diretta del suo ennesimo ritardo.
Scrollò la zazzera di
capelli biondi trovando inutile quel dato e si guardò intorno, mordendosi il
labbro rosa fino a farlo divenire rosso.
Era colpa esclusivamente
del principale e del fatto che le clienti facessero richiesta esplicitamente di
lui e dei suoi cocktail, al bancone; lui si sarebbe tolto la divisa in meno di
un secondo, se non gl’avessero chiesto di fare uno di quei straordinari spacca
schiena ma estremamente visibile sul portafogli.
Improvvisamente si sentì
perso. Perso semplicemente per il fatto
che fosse solo, a pregare per l’impossibile e a chiedersi come avesse potuto far
tardi anche quella volta.
Gli piaceva da impazzire
Daniel e lui non aveva creduto all’ultimatum mormorato dalle sue labbra,
cullandosi sul fatto che si erano appena dichiarati.
<< Aaah! >>
dal suo metro e ottanta era troppo facile vedere le teste delle persone, ma
nessuna aveva quella colorazione d’alabastro puro.
Si rannicchiò su se stesso
in una posizione fetale, incurante degli sguardi dei pochi passanti, e
mordicchiò l’unghia del pollice destro, mentre l’altra andava a posarsi in
testa.
Dalla visuale bassa in cui
era, il mondo appariva meno frenetico e decisamente più caotico, con le luci
soffuse, il vento meno sferzante e i suoni resi meno striduli grazie agli altri
corpi presenti in giro a fermare le vibrazioni nell’aria. Era una bella città,
quella di Messina.
Se non si badava ai cumuli
incolti a profanare le strade e a moltiplicarsi come funghi di spazzatura, si
ignorava bellamente l’assenza di trasporti pubblici e si censuravano i commenti
poco carini degli autisti, spinti oltre gli ottanta con il semaforo rosso…bhé,
nel mondo poteva anche esserci di peggio. Sopra ogni cosa: il mare. Così bello
e limpido in un inverno assurdamente rigido e piovoso per quei territori, da
attirare tutti i suoi sguardi.
Da dove proveniva lui, uno
di quei paesi montani dimenticati perfino dagli stessi Siciliani, il mare era
solo la fervida immaginazione di quelli che desideravano vederlo, espresso da
disegni infantili e temi sulle condizioni dei ghiacciai durante medie e
superiori. A lui era bastato il diploma
per cercare un lavoro pulito e mettersi in testa che l’Italia stava andando
allo scatafascio.
Alzò lo sguardo dal
piccolo rifugio che si era andato a creare e sospirò, pentendosi amaramente di
esser arrivato in ritardo: voleva vederlo.
Si alzò in piedi e si
mosse con l’intento di tornarsene a casa e pensò bene di chiamare Daniel,
promettendosi di portarlo a ballare al M’Ama quel sabato sera, così da sentirsi
meno in colpa.
La zona della passeggiata,
nei pressi della Fiera di Messina, era completamente deserta, salvo qualche
macchina a tutta velocità con gli autisti euforici ed ebbri di festa, mentre
tutte le luci andavano a rendere troppo illuminata una zona che, di solito e
norma, sarebbe dovuta rimanere all’oscuro. Dopo una quarantina di metri, due
semafori rotti superati senza fretta e un incrocio ampio quattro gareggiate,
Jacopo sentì lo sciabordio lento dell’acqua che si infrangeva contro le pietre
del porto delle imbarcazioni pescherecce e di quelle della Marina militare e ne
rimase affascinato. Decise allora di passare dal lato opposto della strada e,
guardato a destra e sinistra, saltò senza nessun ostacolo il divisorio fra
marciapiede e rotaie del tram, arrivando direttamente sulle rotaie.
Con un sospiro teatrale
Jacopo tagliò per le rotaie saltò sul
marciapiede opposto, superò la strada a doppio senso di percorribilità
all’altezza di Perigolosi, la gelateria seconda solo a Santoro a Piazza
Cairoli, scavalcando anche la recinzione nuova di mesi, fatta per dividere la
zona portuale dalla strada, e atterrò
sul molo bagnato dalla salsedine annusando a pieni polmoni ciò che Daniel
chiamava tanfo.
Lui trovava quell’odore
come caratteristico e affascinante.
Tutti i turisti forse la
pensavano come lui, ma il fatto era uno e semplice: viveva a Messina dal 2009 e
non si era ancora abituato a quella bellezza spropositata.
Poi quella sera doveva
essere la sua notte fortunata: la luna era alta in cielo e veniva riflessa dal
mare presente nello Stretto, mentre la tranquillità delle onde che si
infrangevano contro le pietre sembravano una cantilena atta ad affermare la
bellezza della luna stessa. Da dove era posizionato lui, si riusciva a vedere
perfino il Pilastro di Messina e la Calabria.
Daniel.
Fu il lamento della sua testa e sospirò, sedendosi sul bordo dei mattoni
umidicci e neri del porticciolo, con la testa incassata nelle spalle. Prese il
telefono dalla tasca dei jeans e poggiò la borsa con le birre al suolo.
<< Non pensi che sia
tardi per mandarmi un messaggio? >> la voce perennemente bassa e roca di
Daniel lo fece saltare sul posto., facendogli quasi perdere la presa
sull’Iphone. Con il display illuminò la persona che gli era al fianco, in piedi
con le mani nelle tasche, un leggero fiatone, in tenuta da corsa con una
semplice felpa primaverile a coprirlo e dei pantaloni aderenti che mettevano in
risalto le gambe non troppo muscolose ma atletiche.
I suoi occhi verdi,
incontrarono quelli ambra di Daniel, mentre i capelli d’ebano si confondevano
con le ombre in giochi poco chiari di colori: cos’era più scuro?
Jacopo boccheggiò un paio
di volte e Daniel s’accomodò al suo fianco, togliendo dalle orecchie anche
l’altra cuffia dell’Mp3 per andare a posarlo dentro l’unica tasta davanti la
felpa blu notte che indossava.
<< Sono le tre del
mattino, quando volevi dirmi che non saresti venuto nemmeno oggi
all’appuntamento? >> continuò imperterrito, facendo valere meno di una
merda il biondo.
L’altro incassò ancora di
più la testa fra le spalle e si scusò. << Mi hanno trattenuto fino le due
al bar senza darmi tregua. >> si giustificò poi, vedendo che l’altro
continuava ad avere la sua solita faccia inalterabile e fredda e guadava il
panorama.
<< Jacopo… >>
disse ad un tratto Daniel. << Sono stato ad aspettarti fermo per più di
tre ore. Avevamo appuntamento alle undici e mezza: cosa ti costava prendere
quello stupido aggeggio e mandare un messaggio? >> in viso nessun
cambiamento, solo una labbro leggermente arricciato e la voce accigliata.
<< Comunque… >> aveva sospirato il corvino rimettendosi in piedi.
<< Io t’avevo avvertito. >>
E così come era arrivato
alle sue spalle, dopo essersi rimesso in piedi, stava andandosene.
<< A-Aspetta!
>> tartagliò Jacopo e quello fece finta di nulla, riprendendo a correre
con un auricolare, segno che non lo stava ignorando del tutto.
I passi di Daniel erano
silenziosi, in una corsa leggera e senz’affanno, anche se manteneva un ritmo
serrato, abbastanza veloce.
I passi di Jacopo erano
trascinati e stanchi, incespicanti, e tenevano il passo senza fatica, poiché se
Daniel compiva tre passi, a lui bastava farne uno abbastanza ampio per
raggiungerlo. << Sei irritante, Jacopo. >> borbottò il corvino e
l’altro sorrise, cercando di farsi rivolgere come minimo un’occhiata.
Daniel affrettò il passo
sul lungomare, per nulla intimorito dal freddo pungente invernale e dalla
pioggerellina che stava prendendo a cadere dal cielo e Jacopo, nella corsa, si
tolse il giubbotto a vento, per gettarlo sulle spalle del più basso,
arrendendosi al fatto che non gl’avrebbe rivolto nemmeno un insulto e se ne
andò con un sorriso sghembo in viso.
Daniel si fermò tenendo
ben salda la giacca sulle spalle e guardò dietro sé: non vide più nessuno;
automaticamente si guardò intorno e lo vide attraversare la strada deserta con
la testa infossata nelle spalle, il passo lento e mogio e un broncio degno del
miglior bambino testardo che voleva la caramella e non poteva averla.
A Daniel non piacevano le
caramelle, né tanto meno i dolci, quindi, non sarebbe mai stato in grado di
dare il contentino a nessuno… improvvisamente rifletté sulla parola
‘contentino’ e scoppiò a ridere, immaginandosi delle orecchie da cucciolo di
Labbrador sulla testa di Jacopo, seguite a ruota da un nasino piccolo, la
lingua penzolante e una coda morbida scodinzolante.
Esatto: Jacopo alcune
volte era un cucciolo di Labbrador che non era ancora riuscito a lasciare la
sua parte bambina e che lo rendeva così
irritante e pieno di allegria.
Sospirò, trovandosi ancora
molto arrabbiato per quella serata e riprese a correre, cercando di cancellare
dal petto la delusione e la rabbia.
A lui non piacevano né i
cani, né i bambini, né gli idioti. Si chiedeva sempre come fosse riuscito a
farsi ammaliare da Jacopo e puntualmente
alzava le spalle, senza trovare risposta.
Lui, Daniel Serri, la
mente più brillante del corso di psicologia criminale, infantile e di tante
altre discipline, non riusciva a trovare una soluzione.
In fondo sapeva che era
impossibile psicoanalizzare se stessi, ma contava sul fatto di riuscire a
pensarsi in terza persona e a parlare di sé oggettivamente come da sempre
faceva.
Sospirò e decise che per
quella notte aveva corso abbastanza, ricordando che l’indomani aveva delle
lezioni e da lavorare.
Tornò a casa verso le
cinque meno venti del mattino e dormì tre ore prima di alzarsi e andare
all’università.
Quando arrivò davanti
all’edificio e vide le anticipazioni delle sessioni di esami alzò le spalle,
avendo già studiato tutti i tomi e le dispense dei professori e trovato anche
dei riferimenti interessanti su alcuni libri.
Per tutte le quattro ore,
si era sorbito le lamentele dei suoi colleghi e di Cassandra, la ragazza più
chiacchierona e pettegola del corso di pedagogia, su quanto fosse stanca di
stare al gioco di quattro vecchi bacucchi, sapendo all’ultimo momento le date.
<< Studia. >>
si era limitato a sbuffare mentre ascoltava in modo passivo il professore e
contemporaneamente la castana, in carne e dalle forme generosamente abbondanti
che, a quella risposta così disinteressata e articolata, aveva cambiato posto e
aveva preso a lamentarsi con altre ragazze.
Quando finì le lezioni il
professore lo chiamò chiedendogli se l’avesse potuto aiutare con un progetto
sulla memoria e le tecniche di memorizzazione.
Daniel aveva alzato le
spalle con la solita aria sfaticata e fannullona, prima di controllare
l’orologio. << No problem. Però devo essere a Provinciale prima delle
cinque. >> aggiunse, mentre il professore lo trascinava a destra e manca
per la sede, mettendolo alla prova: la sua memoria era fenomenale.
Dicevano spesso che casi
come lui erano rarissimi e quasi introvabili, specie se si riusciva a
memorizzare materie su materie in una settimana e ricordarne il contenuto a
vita.
La cosa non lo toccava
minimamente e, anzi, più domande gli facevano, più il pensiero andava a quell’idiota
di Jacopo e al fatto che non gli avesse mandato un messaggio, nemmeno per
scusarsi.
Alle due del pomeriggio,
mentre mangiava un panino al volo, il suo Nokia-modello-anti-carroarmato prese
a vibrargli in tasca.
<< Dovresti
comperarti un nuovo telefono. Sai? >> alzò gli occhi dal telefono solo
per incrociare gli occhi ambra della
sorella e alzare le spalle, indicandole il posto vuoto davanti al suo con un
cenno del capo.
<< A me piace
questo. >> sbottò, addentando nuovamente il panino.
La sorella, il suo esatto contrario, sorrise
in modo furbo e si appoggiò allo schienale della sedia, adocchiando uno dei
camerieri del locale.
<< Com’è andata ieri
con Jacopo? >> chiese in fine, spronando il fratello a parlare.
<< Quale Jacopo?
>> lasciò intendere tutto e la sorella si batté una mano sulla fronte,
scotendo il capo.
<< Hai seguito il
tuo ultimatum? >> sospirò affranta mentre il corvino si ripuliva gli
angoli delle labbra con un fazzoletto e si dirigeva alla cassa per pagare.
<< A me piacciono le
ragazze, Sara… >> mormorò camminando sotto il sole caldo in direzione di una delle fermate del tram, guardando
di sottecchi il Tribunale e la sua spropositata cupidigia.
<< Lo so, ed è per
questo che quel ragazzo era l’eccezione, no? >> cantilenò la ragazza e
lui la guardò male, passandosi una mano fra i capelli e frizionandoseli appena.
<< E’ un idiota.
>> ammise infine e attraversò la strada mentre Sara gli si appiccicava al
braccio con fare gioioso.
<< Non lo sono anche
io, fratello? >>
Daniel sospirò al ghigno
vittorioso della sorella e annuì sbrigativo, mentre vedeva da lontano il mezzo
pubblico.
Alle quattro e mezza, dopo
due ore nelle mani di Sara a fare shopping
selvaggio, fu davanti alla porta della signora dove lavorava a suonare il
campanello sulla quale era inciso un
cognome con lettere eleganti. Quella era via Antonello, una delle piccole vie
adiacenti a Provinciale, che la mattina vedeva passare le studentesse dell’ex
Magistrale Emilio Ainis dal quale si era diplomato tre anni addietro. Era una
salita abbastanza ripida e stretta, dove due sbocchi a destra e a senso unico,
permettevano di tornare senza fatica e ingorghi a Provinciale stesso, pur
essendo quella di via Antonello una stradina ad unico senso di percorribilità.
La porta fu aperta dalla
padrona di casa e lui sorrise appena. << Buongiorno Daniel! >>
trillò la vecchina e lui salutò, non con altrettanta verve, ma con un generoso
<< Buongiorno signora. >> mentre la donna gli faceva spazio per
entrare e come al solito si perdeva in aneddoti della giornata e del fatto che
si fosse sentita terribilmente sola.
Il suo lavoro lì
consisteva semplicemente nel fare compagnia alla signora, autosufficiente ma
con uno stato di alzheimer che la stava divorando poco a poco.
<< Sta mangiando?
>> domandò in modo piccato, notando la magrezza del volto e delle
dita affusolate.
<< Certo… >>
rispose e si andò a sedere su una delle poltroncine del grande salone
indicandogli di fare altrettanto.
Lui lo chiamava “lavoro”
quello, ma in realtà era un favore che faceva alla sua migliore amica, andata a
Londra per un corso studi di due anni, che non aveva nessuno di fidato a cui
affidarla.
S’era preso la briga di
farlo solo per due motivi: era una signora così colta da essere ammaliante con
la sua parlantina mai troppo noiosa o troppo gioiosa e oramai la considerava
come la nonna che non aveva mai avuto l’onore di conoscere.
E poi lui e la signora
Nina avevano un patto: quando lei non sarebbe stata più in grado di ricordare,
lui le avrebbe riraccontato ciò che lei aveva raccontato lui, senza omettere
nulla.
Il pomeriggio passò così,
fra un racconto e un altro, confermando la tesi di Daniel sulla solitudine
delle persone anziane, che sopravvivevano ai loro figli e della loro
desolazione nel petto quando raccontavano a qualcun altro le loro storie.
Il telefono vibrò per
quindici volte.
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