Faceva un caldo insopportabile quel
giorno, me lo ricordo ancora. Noi, io e i miei amici, tipi famosi per la loro particolare furbizia, avevamo deciso di andare a
giocare a calcio e in visto che nella città non c’erano molti spazi a nostra
disposizione, ci recammo in un baluardo sulle mura.
Ci eravamo messi in cerchio e
facevamo un po’ di passaggi fra noi, visto che fare una partita seria non era
consigliabile, il pallone sarebbe potuto finire di sotto dalle mura e andarlo a
riprendere sarebbe stata una fatica insopportabile per dei tipi volenterosi
come noi.
Non eravamo soli, una ragazza, molto carina a dire il vero,
era sdraiata in un angolo del prato con la schiena appoggiata al muretto che
separava il baluardo dai venti metri di precipizio.
In realtà era già un po’ che osservavo quella ragazza mentre
continuavo a giocare ed esibendomi in giochi complicati con la palla giusto per
mettermi in mostra. Facevo sempre così quando adocchiavo una ragazza che mi
piaceva, anche se quasi sempre mi dimostravo soltanto
un pagliaccio, ma ero fatto così, perché cambiare?
Ogni volta che mi voltavo per guardarla lei era lì che
osservava me a sua volta, sorrideva, quel dolce viso un po’ rotondetto
sorrideva. Ogni tanto si sistemava la fascia colorata che aveva fra i capelli
riccioluti, poi riprendeva a sorridere, mentre seguiva il nostro mediocre
gioco. Andando avanti presi a fissarla con più insistenza: si, era proprio
carina.
Poi la palla schizzò via sull’erba, non riuscii a stopparla
e il caso la volle condurre proprio vicino a quella visione angelica. Uno dei
miei amici era già partito per rincorrere la palla:
“Fermi! Vado io!”
E presi a correre più forte dell’altro,
che si fermò quando gli passai accanto. Non la guardai in quegli attimi
e, appena raggiunsi la palla, allungai la gamba e feci per tirare verso di me
la palla. E come succede molte volte quando ci si
vuole mettere in mostra, quando si vuole fare i “fighi”,
si finisce per fare una figuraccia: la palla non si mosse di un millimetro e io
persi l’equilibrio e caddi a terra. Bene,
bravo Simone, bella pagliacciata!
Sentii gli altri scoppiare a ridere e prendermi in giro, ma
non mi importava niente degli altri. All’improvviso
captai una presenza vicina al mio corpo disteso. Feci per rialzarmi e mi vidi
davanti, inginocchiata ad un metro da me quella bellissima ragazza dai verdi
occhi dolcissimi, che mi chiese teneramente:
“Ti sei fatto niente? Tutto apposto?” Sul suo viso non vi
erano segni di scherno, ma sembrava realmente preoccupata.
“No, no, non ti preoccupare…” Risposi abbassando lo sguardo
il prima possibile, mi vergognavo a farmi vedere negli occhi dopo la figuraccia
che avevo fatto davanti ai suoi occhi.
“Ehi, maniaco, vedi un po’ di passarci la palla invece di
starci a provare con quella ragazza!”
Mi alzai e tirai la palla con rabbia verso i miei amici, poi
mi voltai di nuovo verso di lei che si era di nuovo appoggiata al muretto.
“Fanno sempre così. Sono degli stupidi, ma sono sempre miei
amici…”
“Sono simpatici, invece… Vuoi sederti?” mi chiese
cordialmente indicando con la mano l’erba accanto a sé. Naturalmente non me lo
feci ripetere due volte e mi accomodai.
“Che sbadato!” esclamai tirandomi
un colpetto sulla fronte “Non mi sono nemmeno presentato: sono Simone” e feci
per porgerle la mano, ma lei mi sorrise alla sua maniera stregandomi e la mia
mano si fermò a mezz’aria, tornando sui suoi passi.
“Io sono Giada”
La osservai meglio: il suo corpo sembrava brillare
leggermente. Probabilmente era soltanto una mia impressione,
dovevo essere cotto. Tutte le volte era così, bastavano due parole con
una ragazza carina e perdevo la testa. Ma questa
sembrava essere diversa dalle altre, anche se questa frase la ripetevo ogni
volta.
Chiacchierammo per ore finché non fummo soli, i miei amici
si scocciarono presto di giocare e fecero ritorno a casa, mentre io rimasi lì
sdraiato con quella ragazza. Parlavamo e guardavamo il cielo azzurro, senza
nemmeno una nuvola, incorniciato dai rami delle piante sopra le nostre teste.
Gli uccellini cantavano per noi, accompagnando ogni nostra parola con soavi
note, mentre un leggero vento si era alzato a sventolare le piccole bandierine
verdi sugli alberi.
Si fece tardi e il sole iniziò ad abbassarsi sull’orizzonte.
Ma in tutto quel tempo non ci fu nessun contatto fisico tra noi, ma non mi importava, era così bello stare lì, soltanto a parlare
oppure stare zitti, ma sapendo che lei era lì accanto a me, pronta a sorridere
ogni volta che avessi voltato lo sguardo verso quel visino da bambina.
Il cielo si fece rosso ad ovest, ci
sedemmo sul muretto per guardare il tramonto. Pian piano il sole scese
giù fino a sparire, la gamma di rossi e rosa si inseguivano
sulle piccole nuvolette e i nostri cuori volavano in alto, sopra il cielo,
sereni e felici come bambini che hanno appena ricevuto un nuovo regalo, senza
nessuna preoccupazione.
In breve si fece tempo, era arrivato il momento di andarsene
per me, altrimenti a casa avrebbero iniziato a
preoccuparsi:
“Io dovrei andare…”
“E’ il momento anche per me. Ti accompagno per un po’.”
Passeggiamo sulle mura per qualche minuto raggiungendo la
discesa più vicina. Non parlammo, non sembrava essercene bisogno in quel
momento, ma all’improvviso un dubbio, un’intensa paura, un fatale presagio
lambì le paradisiache coste del mio pensiero.
“Ci rivedremo?”
Mi fermai, aspettando una sua risposta. Lei proseguì di alcuni passi e poi si girò verso di me. Non sorrise
questa volta, il suo volto era triste. Si avvicinò a me, il
suo viso si accostò al mio. Chiusi gli occhi. Qualcosa di freddo si posò
sulle mie labbra e poi si riversò per tutto il corpo fino a raggiungere il mio
povero cuore. Quando riaprii gli occhi, lei non c’era
più.