Prima di tutto una precisazione.
Questa fanfiction non ha pretese di essere un capolavoro (anche se posso dire di essermi impegnato per
cercare di darle una forma decente): l’ho scritta come regalo di compleanno per
una mia amica che è una grande fan di due manga, Death Note e Ouran High
School Host Club di Bisco Hatori, ed è questo il motivo per cui ho scelto
questo cross-over. I personaggi originali che appaiono in questa fanfiction
(vale a dire Keito, Meiko ed Hane) sono trasposizioni di persone reali, e lo
dico perché altrimenti la loro presenza potrebbe sembrare un po’ strana.
Detto questo, spero che la storia vi piaccia, ma se la
giudicate negativamente vi invito ad esprimere
ugualmente le vostre critiche senza timore di offendere.
Enjoy!
CAPITOLO I
Giardini che nulla hanno da invidiare alla reggia di Versailles.
Edifici magnifici che svettano
come giganti del passato, saggi e maestosi, le loro finestre come spalle su cui
i nani del presente possono issarsi per guardare in avanti e vedere più lontano
nel panorama della sapienza.
Aule di musica il cui ingresso è
come una porta verso un’altra dimensione fatta di vibrazioni paradisiache, dove
i sensi fluttuano cullati dalle note di Bach, Beethoven, Chopin, Tchaicokvskij.
Corridoi dove bidelli
elegantissimi sono pronti a porgere aiuto con il sorriso sulle labbra.
Porticati e gazebo per ripararsi
dal sole troppo forte, fontane che danno ristoro dal caldo, allietano la vista
e riempiono l’aria del suono fresco dell’acqua che zampilla, panchine lucenti e
intarsiate per riposare le membra stanche da ore di studio, stanze ampie e
luminose, biblioteche ricche dei tomi più preziosi.
“... e non una
cazzo di bancarella da cui sgraffignare una mela”
Il flusso dei pensieri di Keito
era l’unica cosa in grado di rovinare la dolcezza che la vista dell’Accademia
Ouran sapeva instillare anche nel cuore più duro, ma per fortuna di tutti quei
pensieri restavano nel chiuso della sua mente e non erano udibili da alcun
essere umano. Del resto, nemmeno lui era visibile ai damerini incravattati e
alle ragazze ridicolmente agghindate con abiti dalle gonne gonfie che sarebbero
stati fuori moda ai tempi delle loro nonne, e invece
lì venivano adottate addirittura come divise scolastiche. Cosa
avevano di sbagliato le uniformi alla marinara con minigonne inguinali che
erano adottate in tutte le altre scuole del Giappone (stando a quanto dicevano
i manga)? Troppo plebee per quella scuola di ricchi?
Che visione distorta: non sapevano, quegli amanti del barocco, che nella culla
della bellezza moderna, l’Ottocento neoclassico francese, gli uomini e le donne
più potenti del tempo posavano senza remora nudi per
statue che avrebbero tramandato ai posteri la loro fama? Ovviamente, se a
spogliarsi così pubblicamente non fosse stato l’imperatore Bonaparte o sua
sorella ma un qualsiasi popolano, delle guardie a cavallo sarebbero
giunte per portare l’impudente in una cella per oltraggio alla cristiana
morale, ma quello era un altro discorso.
Keito si fermò di fronte
all’ingresso dell’Accademia, compiaciuto dalla propria erudizione (che era
vasta quasi quanto la sua vis polemica). Nel mondo
degli shinigami era tutta sprecata, ma in quello degli umani avrebbe
potuto metterla a frutto, in qualche modo. Ma
come, se nessuno poteva vederlo, sentirlo o toccarlo?
Un metodo c’era, ovviamente. Il death note.
Keito lo aveva lasciato cadere
nel mondo umano, aspettando che qualcuno lo raccogliesse. Quel qualcuno sarebbe
stato in grado di vederlo e parlargli, e lui lo avrebbe manipolato a piacimento
per i suoi scopi. Un ottimo piano, che però aveva un punto debole: a causa di
una delle fisime del vecchiaccio che dettava legge tra
gli shinigami, non aveva potuto scegliere a chi dare il quaderno, ma si era
dovuto limitare a lanciarlo, lasciando che fosse il caso a decidere il
fortunato – o lo sfortunato – scopritore. Keito aveva provato a fare un calcolo
inferenziale per determinare la probabilità con cui il death note sarebbe
finito nelle mani di una persona adatta, ma dopo qualche ora di
emicrania aveva rinunciato: odiava
la statistica, e a parte quello il numero di variabili era troppo elevato per
riuscire a ottenere qualche probabilità realistica. Così si era affidato al
caso incrociando le dita, meno scientifico ma molto più comodo.
Purtroppo, anche inefficace.
Infatti
il quaderno era finito in quella scuola assurda, dove tutti sembravano così
incredibilmente ricchi e sfaccendati, nonché viziati all’inverosimile, che ben
difficilmente avrebbe trovato qualcuno per lui utile. Anzi, forse avrebbe avuto
difficoltà anche solo a trovare chi accettasse la sua esistenza senza fuggire
urlando. Però ormai era andata in quel modo e non serviva a niente fasciarsi la
testa prima di essersela rotta: avrebbe cercato la persona che aveva trovato il death note, e poi l’avrebbe valutata.
Con un sospiro, Keito varcò
l’ingresso dell’Accademia di Ouran.
Con qualche perplessità,
Ayanokouji si rigirava tra le mani quello strano quaderno che aveva trovato nel
cortile della scuola.
La copertina era totalmente nera,
tranne che per una scritta, “Death note”, che in inglese doveva significare
qualcosa come quaderno della morte. Una di quelle stravaganze crasse e volgari
dei quaderni plebei, che invece di avere sobrie copertine bianche o con motivi
floreali liberty farcivano le pagine di riferimenti
agli argomenti più disparati, dallo sport alla musica passando per telefilm di
successo e altre cose simili. E però, se era davvero quello il caso, i grafici
avevano davvero esagerato, visto che oltre a quel primo tocco gothic dark,
avevano anche aggiunto delle pagine interne con fantomatiche “istruzioni per
l’uso” a dir poco inquietanti: l’umano il
cui nome sarà scritto su questo quaderno morirà; questo quaderno non farà
effetto a meno che chi scrive non abbia in mente il
viso della persona mentre scrive il suo nome. Quindi, persone che condividono
lo stesso nome non verranno colpite; se la causa della
morte viene scritta entro 40 secondi dopo aver scritto il nome della persona,
si verificherà; se la causa della morte non è scritta, la persona morirà semplicemente
di infarto… e ce ne erano altre, in un tripudio di cattivo gusto.
Ma non
era semplicemente quello. Fosse stato solo un esempio di kitsch, Ayanokouji si
sarebbe limitato a gettarlo senza più pensarci, ma
quel quaderno esercitava su di lei un fascino strano. A volte si sorprendeva a
pensare che forse era davvero un quaderno in grado di
uccidere, anche se sapeva benissimo che era impossibile. E
allora perché non lo buttava? Sarebbe stata la cosa più sensata, dato che
bastava la vista di quell’oggetto a renderla inquieta
al punto da impedirle di studiare o anche solo di concentrarsi e seguire le
lezioni.
Ripose il quaderno nel vano sotto
il suo banco, e cercò di tornare a seguire la professoressa di storia, ma senza
successo. Così iniziò a vagare con lo sguardo, fino a che i suoi occhi non si
posarono su ciò che accadeva al di là delle finestra,
nel cortile interno. E lì lo vide.
Era un uomo… un uomo? Forse era più corretto dire un essere, perché anche se
aveva attributi chiaramente umani – gambe e braccia, viso, andatura eretta, dei
vestiti e persino un tatuaggio I fuck dead girls
– il suo aspetto complessivo non poteva definirsi tale, e anche quegli elementi
che lo accomunavano agli uomini sembravano essere qualcosa d’altro piegato con
la forza ad assumere una parvenza antropomorfa: era alto almeno due metri e
mezzo, e questo anche senza considerare le gambe arcuate e il busto proteso in
avanti. Le braccia gli arrivavano alle ginocchia, una lunghezza scimmiesca,
anche se le dita delle mani – artigliate – si muovevano in continuazione in un
gesto da sgraffigno molto poco da primate. Aveva la
barba, lunga e divisa in tante treccine che arrivavano al petto. Sia la barba che i vestiti, che sembravano usciti da un film
western, erano di color rosso bordeaux, mentre rossa, ma di una tonalità più
accesa, era la pelle. Infine, il volto, in cui sembrava concentrarsi il
contrasto tra l’umanità e la mostruosità di quella creatura: occhi grandissimi
dalle pupille feline, orecchie a punta, naso schiacciato praticamente
ridotto a due fori, bocca cristallizzata in un ghigno beffardo.
La cosa che più sconvolgeva
Ayanokouji era che quell’essere camminava nel cortile
della scuola senza che nessuno tra i ragazzi e le ragazze lì presenti
reagissero minimamente. Se lei, dalla finestra del terzo piano, aveva potuto
osservarlo in tutti i dettagli ricavandone uno spavento terribile, si aspettava
che quelli più vicini come minimo fuggissero a gambe
levate. Almeno alcuni.
Invece
non solo nessuno fuggiva, ma nemmeno lo osservavano; persino quelli a cui la
creatura passava vicinissimo non si scomponevano, come se non si accorgessero
della sua presenza. Ayanokouji iniziò a pensare di essere
vittima di una allucinazione, ma anche se sbatteva le palpebre o se distoglieva
un po’ lo sguardo per poi tornare a guardare il cortile, la creatura era sempre
là, anche se ogni volta in un punto diverso, e si muoveva sempre in direzione
dell’ingresso dell’edificio fino a che non scomparve dal campo visivo di lei. A
quel punto la ragazza si impose, con grande
difficoltà, di non pensare a quella apparizione e di seguire la professoressa.
Ma al termine della lezione,
quando tutti gli studenti abbandonarono le aule per raggiungere la mensa,
l’essere riapparve a Ayanokouji, e stavolta molto più
vicino a lei: nel corridoio del terzo piano.
Quando se lo vide arrivare
incontro, la ragazza fremette di terrore, sia perché da vicino era ancora più
orripilante, sia perché era chiaro che era lei il suo
obiettivo. Tuttavia, in qualche modo riuscì a non gridare né a scomporsi: era
ormai sicura che solo lei riusciva a vederlo, e allora se si fosse messa ad
urlare o scappare tutti l’avrebbero presa per pazza, e non avrebbe ricevuto
alcun aiuto. Così si girò e tornò verso l’aula. “Ho dimenticato un libro, vi
raggiungo dopo” disse alle amiche che la guardavano interrogative.
Pochi minuti dopo, come aveva
previsto, l’essere mostruoso era di fronte a lei, nell’aula. Poteva sentire il
sudore colarle lungo la schiena.
L’esordio del mostro, tuttavia,
fu alquanto spiazzante.
“I miei omaggi, milady” disse infatti, abbozzando un grottesco inchino. La sua voce era rauca, sembrava il growl di certi cantanti metal.
“Co… come?” balbettò Ayanokouji,
sconcertata.
“Non è così che ci si saluta fra
voi umani dell’alta società?”
“Sì, ma…” si interruppe,
temendo di offenderlo se gli avesse spiegato che quella formula era del tutto
incongrua nel contesto. Comunque, fu l’essere a
toglierla dall’imbarazzo portando il discorso su binari più concreti.
“Ti starai chiedendo chi e cosa
sono”
“Eh… infatti”
“È presto detto. Io mi chiamo
Keito, e sono uno shinigami”
“Shinigami?”
“Sì, un dio della morte. Nel
nostro mondo mi chiamano tutti Keito, in quello degli umani, che poi è questo,
solitamente mi chiamano Shinigami Keito o, per abbreviare, Skeito. Però se vuoi
chiamarmi semplicemente Keito mi va benissimo”
“D’accordo, ma… perché sei qui?”
“Perché
tu hai preso il death note, ovvio”
Ayanokouji ripensò al quaderno e
le mancò il fiato.
“Vu… vuoi dire
che davvero…?”
“Davvero che?”
“Davvero quel quaderno può uccidere
la gente?”
“Per la precisione, si può usare
quel quaderno per uccidere altre persone, nel rispetto delle regole scritte in esso”
“Oddio… se avessi scritto qualche nome sarai diventata un’assassina…”
“Beh, che c’è di male?”
“Come sarebbe a dire che c’è di male?!”
“Quello che ho detto. Intanto,
usando il quaderno nessuno potrebbe risalire a te, no? Quindi
ad usarlo non corri alcun rischio”
Keito cercava di incoraggiarla ad
usare il death note. Quando l’aveva vista tra la folla
degli studenti aveva pensato di non essere stato così
sfortunato: la ragazza aveva l’aspetto di una disposta ad usare ogni mezzo per
raggiungere i suoi scopi. Naturalmente tra il dire e il fare c’è la stessa
differenza che separa gli shinigami dagli umani, ed era normale che la prospettiva
di uccidere la mettesse a disagio, ma Keito pensava di poterla convincere: se
lei si fosse rifiutata di usare il death note, lui non
avrebbe potuto manipolarla ai propri fini.
“Non è questione di essere
scoperta” disse Ayanokouji “è proprio l’idea di commettere degli omicidi che
non posso accettare”
“Suvvia, non mi dirai che una ragazza intelligente come te ha paura”
“Ma che paura e paura!” scattò
lei “E poi perché fai questi discorsi? Vuoi che io
uccida qualcuno?”
“No, ti propongo uno scambio”
“Che
scambio?”
“Io ti do il quaderno, e quindi
la possibilità di uccidere chi vuoi, e in cambio tu accetti di agire per conto
mio in alcuni affari che, a causa della mia natura di shinigami, non posso
condurre autonomamente”
“Che genere di affari?”
“Non pensare a patti faustiani, sono molto più materialista: voglio giocare nella finanza!
Le mie conoscenze e intuizioni sui movimenti di capitale globali
sono infinitamente superiori a quelli di qualsiasi affarista umano. In più, la
mia profonda preparazione in antropologia e sociologia mi permettere di
valutare perfettamente gli impatti sociali delle scelte economiche, e quindi so
dove e come investire al meglio. Per farla breve, se agisci in economia seguendo le mie indicazioni diventerai ricca
sfondata… o meglio, diventeremo, visto che la maggior parte dei soldi me li
prenderò io, ma comunque anche un venti per cento dei profitti ti basterà a
superare in ricchezza la tua stessa famiglia”
“Addirittura?”
“Noi shinigami, a differenza
degli umani, siamo perfettamente consci delle nostre capacità, per cui non pecchiamo di spacconeria, almeno nei nostri
rapporti con voi. Ma se anche non mi credi, considera che comunque
non ci perderesti niente. Alla fin fine, a te conviene accettare lo scambio”
“Ma che
cosa se ne fa dei soldi un dio della morte?”
“Dei soldi in sé, niente. Ma di certe cose che posso comprare con il denaro, molto”
Ayanokouji pensò a misteriosi strumenti demoniaci o a sostanza magiche. In
realtà, Keito aveva in mente solo vagonate di mele.
“Lo scambio sembra vantaggioso”
disse la ragazza “Ma proprio non me la sento di
uccidere qualcuno per interesse”
“Ovvio, se pensi ad uccidere in
generale. Ma prova a pensare a qualcuno che per te
merita di morire, e vedrai come tutto sembrerà più facile”
“Ma
chi…” iniziò ad obiettare lei, ma si bloccò. Qualcuno che per te merita di morire, e la
sua mente iniziò a riempirsi di istantanee che credeva di aver rimosso.
Un ragazzo dal volto femmineo che
le aveva rubato il suo lord.
Un sapientone dallo sguardo di
ghiaccio e due gemelli diabolici che l’avevano innaffiata d’acqua in pubblico.
Il lord che avrebbe dovuto amarla
ed invece l’aveva umiliata di fronte a tutti.
L’associazione che aveva ardito
di trattarla come una donnetta da poco: l’Host Club.
Loro meritavano di morire. Morire
sotto i suoi occhi.
Quell’insulso Honey con il suo
gigante stupido. Quegli orribili gemelli. Quel nero demonio di Kyouya. E soprattutto loro, quel maledetto Haruhi e Tamaki, il
traditore.
Avrebbero
dovuto essere uccisi tutti.
Poteva farlo lei?
Ancora non aveva formulato la
domanda nella sua mente e già sapeva di poterlo fare. Di volerlo fare.
Alzò lo sguardo sullo shinigami.
“Accetto”
Gli occhi di Keito si accesero di
trionfo. Aveva vinto, era stato più forte del caso lo
aveva dirottato su quella scuola di fighetti, il suo piano era iniziato.
“Allora uccidi” disse.
Ayanokouji non se lo fece
ripetere due volte. Estrasse il death note dalla borse
e lo aprì alla prima pagina, ancora intonsa. Poggiò con feroce delicatezza la
punta della sua Monte-Blanque sul foglio, e iniziò a scrivere.
Tam
Si fermò a metà del nome.
Keito immaginò che fosse un
residuo della riluttanza precedente, e pensò a qualche frase di
incoraggiamento, ma poi lo guardò in volto e vide un’espressione di
gioia sadica che non poteva conciliarsi con alcuna indecisione.
“Perché
non scrivi?”
“Che
fretta c’è?” rispose lei.
Perché
ucciderli così, su due piedi? Non si sarebbe goduta la sua vendetta. Ma non sarebbe stato abbastanza piacevole nemmeno vederli
agonizzare per ore. Era altro, quello che lei voleva. Voleva vedere l’Host Club
disfarsi lentamente e sotto i suoi occhi, voleva
vedere i gemelli vivere l’esperienza della separazione e del rimorso (Kaoru
morto per colpa di Hikaru, perché no?), Kyouya perdere la sua sicurezza e
dibattersi impotente, Haruhi subire il disprezzo che lei stessa aveva
sperimentato e tornare, prima della morte, a quello che era il suo posto
naturale, la plebe.
E infine
Tamaki… lui non sarebbe morto. Sarebbe precipitato in un
tunnel nero vedendo la sua creazione in rovina, avrebbe gustato la
prostrazione più profonda, assaggiato un dolore inimmaginabile. E, una volta toccato il fondo, sarebbe tornato strisciando da
lei, dalla donna che aveva umiliato pubblicamente, supplicandola di perdonarlo.
E Ayanokouji sarebbe tornata la principessa incontrastata dell’accademia di Ouran.
“Diamo il via alle danze” mormorò
sorridendo.