Nota legale:
Kingdom Hearts © Square
Enix & Disney. Questa Fan Fiction è stata scritta per puro diletto, senza alcuno
scopo di lucro. Nessuna violazione di © è dunque intesa.
Collocazione temporale:
Prima dell’inizio di Kingdom
Hearts II.
:: SPARKS ::
Il mondo era racchiuso nel
minuscolo cerchio dei loro bisbigli.
Si abbassavano, si
scioglievano nello spazio compresso dentro la sua testa, esplodevano assordanti
come spari e si stringevano l’uno all’altro come un gioco d’incastri, i bordi
taglienti che stridevano al contatto. Nel buio poteva quasi vedere le scintille.
Sulla superficie piattissima
della sua memoria, tre voci tenevano in ostaggio la sua esistenza.
«Credi di riuscire a tenerlo
sotto controllo?»
«Se anche non ci riuscissi, tu
potresti sempre batterlo di nuovo.»
«Stavolta potrei ucciderlo.»
«Non essere così modesto. Hai
imparato la lezione. Non dovresti avere dei problemi a controllarti, ormai,
quando si tratta di lui.»
«…»
«Comincia, Naminé.»
Si era aggrappato ad Axel con
la fiducia cieca di un cucciolo, abbandonandosi alle sue mani come per
imprinting. Sapeva che Axel era meno affidabile di un Nobody Berserk impazzito,
ma non gli importava. Non ricordava esattamente perché avrebbe dovuto. Aveva
dimenticato che esisteva qualcosa al di là del mondo piccolissimo in cui era
stato confinato, qualcosa connesso all’istinto di sopravvivenza, qualcosa legato
saldamente alla paura.
Guardò le stranissime creature
nere che strisciavano, gli occhi gialli e luccicanti come quelli di un animale.
Avrebbe voluto afferrarle per la collottola come gattini e studiarle da vicino.
Forse avrebbe sentito la pelliccia sotto le dita, bagnata dalla pioggia
battente.
«Ed io dovrei ucciderli?»
Cercò di toccarne uno, ma la
sua mano sprofondò in una specie di oscurità collosa ed appiccicosa, e la tirò
via di scatto con uno strillo sorpreso. La creatura tentò di attaccarlo, come
una bestiola riottosa, e Roxas la scagliò via risentito con un colpo ben preciso
del Keyblade. Non ci mise niente ad uccidere anche i pochi altri che si
aggiravano nella stradina buia.
Axel rise. Roxas era sicuro che
avrebbe ricordato in eterno il modo in cui la sua voce si spezzava tra un fiato
e l’altro, il sussurro leggerissimo del respiro. Ogni singolo suono era inciso
nella sua mente come un marchio sulla pelle, ma la sua risata scavava
profondamente dentro di lui, ogni volta più a fondo. Quando lo sentiva
pronunciare il suo nome era come essere toccato su un nervo scoperto ed
ipersensibile.
«Non dirmi che li trovi carini,
Roxas.»
Rabbrividì. Axel conosceva
perfettamente il potere totalizzante della sua voce.
«Non mi sembrano pericolosi»
azzardò.
Axel sospirò, sciogliendo le
braccia incrociate ed agitando una mano. La pelle bagnata del cappotto fece un
rumore scivoloso nel movimento.
«Non lo sono per te. Non hai
niente che potrebbero prenderti.»
«Cosa vuoi dire?»
Axel tentennò per un attimo.
Poi scosse la testa.
«Niente.»
Era quello che gli dicevano
tutti. Era stanco di collezionare niente come qualcun altro avrebbe
collezionato biglie.
Si sforzò di folgorare Axel con
uno sguardo arrabbiato, di fargli sapere solo con gli occhi e la piega
imbronciata delle labbra che ce l’aveva con lui, che era stanco di essere messo
a tacere come un bambino, ma Axel rise ed ignorò totalmente il suo pessimo,
pessimo umore. Come se non fosse colpa sua.
«Avanti, Xemnas vuole che tu li
uccida.»
Roxas picchiò un Keyblade per
terra.
«Perché ridi?»
«Uh?»
«Ridi sempre. Gli altri non
ridono, nessuno ride. Tu sì. Perché?»
Axel ci pensò sopra a lungo,
seriamente. Alzò gli occhi, come se da qualche parte sopra la sua testa fosse
sospesa la risposta, tra i grattacieli di World That Never Was. Roxas osservò la
pioggia infiltrarsi sotto il cappuccio e scendergli in rigagnoli lungo il collo.
Axel sogghignava, quando tornò
a guardarlo.
«Perché ti trovo divertente,
credo.»
«Cosa vuol dire?»
«Uh… che ti sto offendendo.»
«Offendendo?»
«Gli altri si arrabbiano,
quando qualcuno ride di loro. Lo trovano umiliante.»
«Non capisco.»
Axel sospirò.
«Non ho mai capito neanch’io.
Nemmeno prima. Però finiscono per non parlarti più e per tenerti il broncio.
Devono farti capire che gli hai fatto male, sai, e pensano che queste
manifestazioni fastidiose ti spingano a chiedergli scusa.»
«Funzionano?»
«A volte.»
Roxas aggrottò la fronte per la
frustrazione, appoggiandosi ad un muro. Aveva fatto sparire i Keyblade. C’erano
pochi Heartless vicino al castello, come se fiutassero il pericolo.
«Continuo a non capire. Tu mi
chiederesti scusa, se io non ti parlassi più?»
Axel inclinò la testa. Ci stava
pensando seriamente, e Roxas lo conosceva abbastanza da essere abituato a questa
sua strana percezione dell’importanza delle cose. Rifletteva di più su questioni
che a lui sembravano stupide che sugli ordini di Xemnas.
«Forse.»
«Allora lo farò.»
«Mi costringeresti a cercare
Demyx per parlare con qualcuno?»
«Ricorda che sono offeso.»
«Credo che ti manchi il senso
delle proporzioni.»
Roxas si strinse nelle spalle e
si inoltrò nella città deserta. Dopo un attimo la voce di Axel lo raggiunse.
«Roxas?»
«Sì?»
«Mi dispiace.»
Roxas decise di imitare Axel e
rise. Era la prima volta che ci provava. Non credeva che la sua voce potesse
modellarsi in quel modo, spezzando il suono ad ogni respiro. Non capiva perché
Axel si ostinasse a farlo, ma sperava che non smettesse. E se avesse imparato
anche lui, forse non l’avrebbe fatto. Voleva sentire ancora sulla pelle la
potenza annichilente della sua voce, e ancora, e ancora.
«Penso di trovarti divertente
anch’io.»
«Sei una mia pessima
imitazione.»
«Però sarebbe una punizione più
proporzionata, no?»
«Per costringermi a cercare
Demyx dovresti almeno aspettare che ti tagli via un braccio.»
«Lo faresti?»
«Non credo. Potrebbe sempre
servirmi.»
«Servirti?»
Axel ghignò senza rispondere e
Roxas lasciò perdere. Non aveva voglia di combattere le stupide battaglie
verbali che Axel lo costringeva ad affrontare quando girava attorno ad una cosa
che lui voleva sapere per il puro gusto di prenderlo in giro.
«Quindi ora che facciamo?»
«Che dovremmo fare?»
«Qualcosa. Per… attestare che
non sono più arrabbiato con te. Basta che lo dica?»
Axel rise forte, fortissimo, e
Roxas gli si avvicinò, indeciso su come dovesse sentirsi. Era abbastanza per
essere, come diceva lui, offeso? Non voleva essere offeso. Poi avrebbe
dovuto di nuovo dichiarare che era arrabbiato con lui e Axel avrebbe
dovuto dichiarare che era dispiaciuto e lui avrebbe dovuto dichiarare
che l’aveva perdonato e visto che Axel rideva in continuazione gli sembrava una
cosa lunga.
«Roxas, il tuo è chiaramente un
tentativo di uccidermi.»
«Non credo di volerti uccidere.
Rispondimi, dai, non posso perderci tutto il giorno.»
Axel finse di pensare con gli
occhi al cielo e si toccò il mento con un dito.
«Se ci tieni, possiamo fare
pace. È così che fanno tutti gli altri, quando non sono più arrabbiati.»
«È una cosa molto lunga?»
Offendersi si stava rivelando
piuttosto controproducente.
«Dipende, credo.» Gli si
avvicinò, costringendolo ad alzare il viso per guardarlo, e Roxas non si mosse
quando Axel si chinò per baciarlo. Una cosa stranamente fugace, difficile da
ricordare, come il rumore sdrucciolevole dei loro cappucci che si toccavano.
«Questa è la versione breve.»
Roxas si toccò le labbra, come
se potesse memorizzare il ricordo delle sue con il tatto, attraverso i guanti di
pelle.
«Capisco.»
«Ti serve altro?»
Axel stava sogghignando, come
se trattenesse dietro i denti qualcosa di divertente da dire. Roxas avrebbe
voluto costringerlo a parlare, ma non sapeva come. Non conosceva nessuna domanda
che potesse dargli quelle risposte, così si limitò a scuotere la testa, un po’
frustrato.
«Non credo.»
«Allora andiamo. Xemnas vuole
che ti accompagni.»
Roxas annuì e gli andò dietro,
addentrandosi con lui nella città silenziosa. Gli sembrava di conservare sulle
labbra un eco del suo calore, come se soltanto adesso, a distanza, riuscisse a
ritrovare sulla pelle il ricordo della sua bocca.
Forse offendersi non era una
totale perdita di tempo.
«Hai vinto, alla fine.»
«Mi avevi detto che ti serviva
Roxas per risvegliarlo. Adesso ce l’abbiamo.»
«Il prezzo è stato alto. Ne è
valsa la pena?»
«Mi stai chiedendo se me ne
pentirò?»
Era seduto sul suo letto quando
Axel, senza motivo, si era accoccolato alle sue spalle. L’aveva inglobato tra le
sue gambe lunghissime ed aveva costretto la sua schiena ad aderirgli al petto.
Le mani avevano raggiunto le sue, che teneva abbandonate sulle cosce, e le
avevano toccate pensosamente.
Gli sembrava di ricordare che
quelle si chiamassero carezze.
«Axel…?»
«Ti do fastidio?»
Esitò. Non era quello il punto.
Il punto era che non capiva.
Non capiva perché Axel lo toccasse, lo baciasse, lo stringesse, lo accarezzasse.
Non capiva perché Axel continuasse a cercarlo, come non capiva la pioggia
battente di quel mondo, il motivo per cui Xemnas gli ordinasse sempre e comunque
di uccidere Heartless, il modo in cui il numero II giocava con lui come se fosse
una bestiola curiosa ed il comportamento senza senso del numero IX. Non capiva
perché era lì, ed ormai aveva collezionato così tante domande senza risposta che
aveva smesso di chiedere.
Però Axel non gli dava
fastidio, ed in fondo, da qualche parte dentro il suo corpo, qualcosa
supplicava perché non smettesse di fare quelle cose senza senso come
regalargli un gelato al sale marino quando era triste e condividere il suo
calore con lui quando aveva freddo. Senza nessuna ragione.
«No. Resta.»
Axel mugugnò in segno d’assenso
e posò il mento sulla sua spalla. Roxas aspettò un attimo, come per assicurarsi
di non essere scoperto, poi si rilassò contro il suo petto ed appoggiò il capo
contro il suo.
Axel prima o poi si sarebbe
rotto a forza di piegarsi in quel modo per abbracciarlo. Però era piacevole
essere inglobato da lui, sopiva almeno un po’ la sensazione di solitudine
desolante che agonizzava dentro il suo petto.
Poi Axel strofinò la tempia
contro i suoi capelli e sospirò.
«Sei cambiato.»
Suonava come un’accusa, e Roxas
si irrigidì.
«Non è vero.»
«Sì, invece. Non lo capisco.
Noi non possiamo cambiare.»
Si agitò tra le sue braccia,
mentre gli angoli delle sue labbra, senza controllo, slittavano verso il basso.
Axel lo chiamava mettere il broncio. A lui non piaceva, gli sembrava una
cosa da bambini, ma purtroppo gli capitava spesso, e non poteva farci niente.
Detestava non avere il controllo sul suo corpo, era orribile.
Lo consolava un po’ sapere che
Axel invece lo trovasse… come diceva?... carino.
«Se non ti piaccio più posso
sempre andarmene.»
La risata liquida di Axel
scivolò nel suo orecchio come una cascata, accompagnata dal calore umido del suo
respiro, e trattenuto tra le sue braccia lunghe Roxas si calmò. Si lasciò
stringere, dolcemente, e quando fu convinto di non essere visto si aggrappò alle
mani che Axel gli aveva allacciato attorno alla vita.
Non sapeva perché, ma gli
sembrava che nonostante Axel avesse cercato di dissimularlo le sue parole
fossero state incredibilmente tristi.
«In fondo è solo l’ultimo
anello di una catena di pezzi smarriti.»
«Non me ne pentirò.»
«Se funzionerà, intendi?»
«Se funzionerà, ne sarà valsa
la pena.»
La savana sembrava non avere
fine.
Gli ricordava il mare, nella
linea sottile che divideva la terra dal cielo. E quando il sole gigantesco
scendeva oltre il confine del mondo era come se si tuffasse nell’oceano.
Si grattò il naso con una
zampa, traballando incerto sulle quattro gambe di quella nuova forma, e guardò
risentito il grosso leone dall’appuntita criniera rossa che si stirava all’ombra
di una pianta.
«Perché mi hai portato qui? Non
mi sembra che Xemnas ce l’abbia ordinato» si lamentò, scacciando una mosca con
la coda e trotterellando verso di lui.
Axel si accucciò sull’erba rada
e fece un enorme sbadiglio, facendolo assistere controvoglia all’esibizione di
tutte le sue zanne. Poi strofinò la testa contro le zampe e ce l’appoggiò sopra,
chiudendo gli occhi.
Roxas sospirò. Come al solito
Axel non aveva voglia di rispondergli, e così, offeso, iniziò a guardarsi
attorno. Gli altri animali vagavano per la savana un po’ incerti, come se si
fossero appena svegliati da un sonno lunghissimo.
Era saltato su un sasso e stava
osservando da lontano alcune gazzelle che si stavano riunendo spaventate attorno
ad una pozza d’acqua, quando Axel si decise a degnarlo della sua attenzione.
«Smettila di girare in quel
modo, vieni qui» brontolò, a voce bassa ed un po’ impastata.
Roxas si girò a guardarlo,
mentre sonnecchiava vicino al vecchio albero nodoso, e dopo aver riconosciuto
che quella che gli brontolava nello stomaco a guardare le gazzelle era proprio
fame trottò fino a lui. Era un piacere notare che diventava più esperto
nell’uso di quella forma ad ogni minuto che passava.
«Che c’è?» domandò,
avvicinandosi al leone accucciato. Non pensava che potesse essere un pericolo,
non in quelle condizioni, ma quando Axel lo catturò con una zampa grande la metà
del suo intero corpo rivalutò in un attimo tutte le proprie opinioni.
«Preso.»
«Ehi!» si lamentò Roxas,
dibattendosi, mentre Axel se lo tirava vicino e lo incastrava tra il proprio
corpo e la zampa caldissima che lo tratteneva.
Pensava che quello fosse il
massimo dell’umiliazione che sarebbe stato costretto a subire, almeno fino a
quando Axel non iniziò a leccargli pigramente la testa con una lingua calda e
ruvida che affondava tra i suoi capelli, grattandogli la cute.
«Smettila subito! Che
schifo!» strillò, tentando pateticamente di imitare un ruggito, ma Axel lo
ignorò. Roxas cercò di liberarsi ancora un po’, almeno per salvaguardare quello
che restava della sua dignità, ma poi realizzò che era meno umiliante subire.
Così si arrese e si accoccolò meglio contro il suo petto, e come premio Axel
iniziò a mordicchiargli la pelle sensibile della nuca. Roxas si rilassò
totalmente e chiuse gli occhi.
«Perché sembrano tutti un po’
spaesati, in questo mondo?» domandò dopo un po’, pigramente. Per rispondergli,
Axel smise di leccargli il collo, e Roxas ne sentì la mancanza.
«Perché sono appena tornati.»
«Che significa?»
Axel tentennò un attimo, e poi
sospirò.
«Lascia stare.»
L’ultimo vicolo cieco di
un’intera città di vicoli ciechi.
Roxas fece per protestare, ma
Axel lo lasciò andare di scatto e si alzò, come se si fosse dimenticato qualcosa
di importante. Improvvisamente lontano dal calore bruciante del suo corpo, Roxas
fu costretto a lottare per non rimettersi subito a cercarlo.
Si rialzò anche lui, un po’
risentito.
«Almeno puoi dirmi perché siamo
qui?!»
Axel lo guardò, sogghignando, e
Roxas pensò che il suo sorriso affilato sembrava nato sul muso di un
leone.
«Perché pensavo che in questa
forma saresti stato incredibilmente carino. Fa piacere sapere che non mi
sbagliavo.»
Roxas soffiò, e colpì il suo
muso sogghignante con una zampata.
«Quanto ci vorrà?»
«Non lo so. I suoi ricordi…»
«Sono diversi da quelli di un
essere umano?»
«Non lo so. Non credo
sia questo. Gli anelli che li legano sono così stretti…»
«Stretti? Che significa?»
«Io… credo che non voglia
perderli.»
Roxas abbassò il cappuccio e
tirò giù la zip, sconfitto dal caldo tremendo di quel mondo.
Invidiava Axel, che invece
sembrava perfettamente a proprio agio. Si era tolto gli stivali e stava agitando
i piedi nudi nell’acqua, seduto su un sasso, mentre osservava il deserto che si
perdeva in lontananza, oltre gli alberi verdi dell’oasi.
«Sei già stato qui?» gli
domandò, arrancando sotto un albero lì vicino e lasciandosi cadere a peso morto.
«Qualche volta.»
Roxas appoggiò la testa al
tronco ruvido della palma e chiuse gli occhi, ascoltando il suono dei piedi di
Axel che sguazzavano ed il respiro leggerissimo del vento.
Poi aprì gli occhi a mezzo,
pigramente, e chiese: «Tu ricordi qualcosa di prima?»
«Prima di cosa?»
«Prima del tuo nuovo nome.»
Axel tentennò.
«Qualcosa.»
«Quindi sai da dove vieni.»
Non era una domanda, ed Axel
non esitò.
«Certo.»
«E potresti tornarci, se lo
volessi.»
«Potrei.»
Roxas accarezzò il manto
lussureggiante d’erba su cui era seduto, e dopo un lungo attimo, finalmente, lo
domandò: «Perché non lo fai?»
La risata di Axel era bassa,
liscia come seta.
«A che scopo? Nessuno si
ricorda di me. Del vecchio me.»
«Come fai a saperlo?»
«Lo so e basta.»
Roxas chiuse gli occhi. Pensava
che fosse una cosa triste, anche se Axel non lo era affatto.
«Io non potrei mai
dimenticarti.»
Axel ghignò: «Siamo Nobody. Per
noi che non abbiamo un cuore, dimenticare è come morire.»
«Io non ti dimenticherò»
ripeté, con voce più sicura, e sentì Axel ridere forte.
«Dimenticarmi sarebbe l’unico
modo che avresti per uccidermi!»
Roxas, lentamente, sorrise.
«Non ti dimenticherò.»
È una promessa.
«Divertente. Un Nobody che si
aggrappa all’unica cosa che ha.»
«Sarà un problema per lui?»
«…hai paura che Sora possa
ricordare qualcos’altro, Riku?»
Il verde profondo dei suoi
occhi sembrava incandescente, mentre gli afferrava il cappotto e lo attirava tra
le sue gambe. Roxas lo lasciò fare, avvicinandosi fino a quando non sentì un
ginocchio sbattere contro l’asse del letto su cui Axel era seduto.
Axel voleva qualcosa da lui.
Era chiaro, dal modo in cui lo fissava, ma Roxas non capiva cosa cercasse nei
suoi occhi. Solo quando iniziò ad abbassargli la zip, lento come se si
aspettasse un rifiuto, capì che gli stava silenziosamente chiedendo il permesso.
E Roxas, sentendo di avere
quello che avrebbe potuto definire il cuore di Axel nel palmo di una
mano, gli accarezzò le labbra con la punta delle dita.
Sentì Axel sorridere sotto i
polpastrelli, mentre gli abbassava il cappotto come se avesse avuto paura di
romperlo. Poi, con devozione, gli accarezzò le spalle e si protese a
baciargli una clavicola, e nonostante fosse seduto non dovette neanche faticare
per arrivarci.
La sensazione delle sue labbra
sulla pelle nuda era come una scossa elettrica. Lo toccava, profondamente, come
se scavasse nella pelle e sciogliesse la carne, i muscoli e le ossa. La sua
bocca era bollente.
E quando Axel lo attirò verso
il basso, facendolo sedere su una coscia come se fosse stato una bambolina, non
oppose resistenza.
Roxas si protese verso di lui,
un po’ incerto, ed Axel colse la sua muta richiesta e lo baciò. A lungo,
gentilmente, perdendo tempo a leccargli le labbra per farle schiudere e
cercandogli la lingua.
Poi Roxas gli appoggiò la testa
contro una spalla, ed Axel, che gli stava facendo scendere il cappotto lungo la
schiena, si fermò.
«Hai paura?»
Roxas si aggrappò al cuoio
ruvido dei suoi vestiti, mentre chiudeva gli occhi.
«No.»
Fu la prima volta che sentì la
dolcezza nella sua risata aguzza.
«Bugiardo.»
Era fatto a pezzi,
distrutto, sgretolato.
Si aggrappava ad ogni
frammento, mentre dall’alto, impietosa, una mano terribile e bianchissima gli
strappava di mano ogni singolo relitto che riuscisse a stringere.
Era strano che qualcosa di
tanto crudele sembrasse così tremendamente triste.
«Avanti, Naminé. Rompi le
catene dei suoi ricordi, e finiamola con questa storia.»
«Ma Riku…»
«Smettila. Non sono più Riku.»
«Riku. Vuoi fare questo
all’altra metà di Sora?»
«…quello non è Sora. Sora è
chiuso nel pod, ricordi? Ed io farò di tutto perché si risvegli.»
Stavano litigando per una
sciocchezza. Poi, improvvisamente, Roxas aveva scagliato entrambi in quella
terra di nessuno che non dovevano mai calpestare.
«Qual è il senso di questa
guerra? Chi sono io, davvero? Perché ho il Keyblade?» Strinse le mani a pugno,
mentre la sua voce riecheggiava per tutto il Belvedere sul Crepuscolo. «Chi è
Sora? Chi è Sora?»
Non avrebbe mai dimenticato la
sfumatura di totale, vulnerabile impotenza nello sguardo di Axel, quando aveva
abbassato le braccia che stava agitando nella foga della discussione ed aveva
scosso la testa.
Erano rimasti in silenzio a
lungo, dopo quello, ma quando Axel aveva cercato di avvicinarsi e di toccarlo
Roxas l’aveva fulminato con lo sguardo ed era indietreggiato.
Non ricordava di aver mai visto
i suoi occhi così tristi.
«Quand’è che sei diventato così
freddo?»
Roxas aveva abbassato gli
occhi.
«Non ricordo.»
Avrebbe dovuto saperlo che si
stava avvicinando la fine.
«Credo che dovremmo dirgli cosa
lo aspetta.»
«Perché? Persino gli animali
vengono storditi prima di essere macellati. Non ha senso prolungare la sua
agonia.»
«Dovrebbe poter ricordare
quello che era. Forse sceglierebbe spontaneamente di riunirsi a Sora. Così
riavrebbe un cuore…»
«Il cuore di Sora è solo suo.
Non ho riportato indietro il suo Nobody per costringerlo a dividerlo con
qualcuno.»
«Tu dovresti sapere molto bene
cosa si prova, non è vero?»
«Non sono affari che ti
riguardano, DiZ. Naminé?»
«Non ho scelta, vero?»
«Dobbiamo risvegliare Sora.»
«Consolati, Naminé. Non sei
l’unica a non avere scelta. Non ho ragione, Riku?»
Poteva contare sulla punta
delle dita le volte che Axel si era svegliato dopo di lui.
Forse c’era un motivo per cui
quella volta, proprio il giorno in cui sarebbe sceso nella Dark City senza più
tornare indietro, era riuscito ad osservarlo per un’ora intera prima che i suoi
occhi si aprissero sul bianco accecante di Castle That Never Was.
Axel dormiva sempre sulla
schiena. Probabilmente lo faceva per essere pronto a reagire in caso di
pericolo, e quella era la posizione meno svantaggiosa, ma a lui piaceva pensare
che lo facesse per permettergli di rannicchiarsi nella tana calda e confortevole
del suo braccio, da dove poteva scaldarsi il naso sfregandolo contro il suo
petto.
Raggomitolato sul letto,
abbracciando le ginocchia premute contro il torace, Roxas lo studiò in silenzio,
a lungo. Non lo toccò, perché sapeva che se solo l’avesse sfiorato Axel si
sarebbe svegliato. E c’erano cose che poteva pensare soltanto guardandolo senza
essere guardato.
C’erano così tante domande che
avrebbe voluto fargli, domande che sapeva sarebbero rimaste senza risposta. Ma
quelle che premevano contro le sue labbra chiuse, quelle che sarebbero rimaste
per sempre senza voce, non riguardavano né Kingdom Hearts, né i Keyblade, né
Sora.
Se dirmi la verità bastasse
a farmi cambiare idea, lo faresti?
Iniziava a pensare che non ci
fosse più nulla a trattenerlo, su quel relitto scuro e buio che di mondo aveva
soltanto il nome.
Se dovessi decidere di
andarmene, mi tratterresti?
Stava andando alla deriva, e
l’unica fune a cui riusciva ad aggrapparsi si stava inevitabilmente logorando.
Se scegliessi di lasciarti,
mi chiederesti di restare?
Le uniche domande che non
avrebbe mai fatto.
Le uniche risposte di cui
avesse davvero paura.
Nel momento in cui fu catturato
dalla corrente, il suono della fune che si spezzava sembrò sgretolare il mondo.
«Basta. Se vado avanti… se
continuo a distruggere gli anelli che collegano i suoi ricordi… la sua mente
potrebbe collassare.»
World That Never Was fu il
primo ad andarsene.
Il bianco che si affievoliva,
sprofondando nel grigio informe.
«Con Sora l’hai fatto.»
La sua stanza che si
annebbiava.
«Sora aveva anche un cuore.»
Il suono della pioggia battente
della Dark City che diventava sempre più leggero, fino a morire.
«Sii ragionevole, Naminé. Non
possiamo lasciarlo libero, se ricorda cos’è e cosa è capace di fare. È troppo
pericoloso.»
I volti conosciuti che si
oscuravano sotto i cappucci.
Il grigio che inghiottiva ogni
forma.
«Fallo e basta. Non puoi
scegliere, esattamente come lui.»
Axel che gli diceva di non
tradire l’Organizzazione.
Axel che gli diceva di non
andare.
Troppo tardi.
Troppo tardi.
«Non posso. Non posso!»
Si stava perdendo.
Rimaneva solo una figura su
una torre, ancora distinguibile nella nebbia. Rosso su nero. Vivida come un
fiore velenoso. L’unica cosa definita, in un universo mutevole che stava
perdendo i suoi contorni.
Il suo strano modo di sedere
gli era rimasto impresso.
Il suo corpo sproporzionato era
scavato nella sua testa.
Le sue braccia lunghissime e le
sue mani, che ricordava, non volevano andare via.
«Credi che questo cambierebbe,
se avessimo un cuore?»
Avrebbe voluto potergli
rispondere.
Avrebbe voluto dirgli che non
aveva mai avuto un cuore, ma sapeva, sentiva, che non avrebbe fatto
differenza. Non avrebbe potuto essere più importante di così per lui.
Ma la sua figura si
affievoliva, i suoi contorni sfumavano, ed alla fine rimasero soltanto i suoi
occhi verdi a scintillare in quel mondo indistinto come un acquerello bagnato. E
pian piano, anche loro finirono per stemperarsi nel grigio.
Avrebbe voluto chiamarlo, ma
non ricordava nessun nome con cui farlo.
Avrebbe voluto riprenderselo,
ma non ricordava nessuna formula magica per riportarlo indietro.
Tese le mani per aggrapparsi
alla sua immagine che svaniva, ma non riuscirono a raggiungerlo.
Rimasero a brancolare nel
grigio informe, come le ali impazzite di un uccellino.
Il grigio era diventato
sempre più scuro, sempre più denso, sempre più pesante. Vedeva scintillare una
fiammella, oltre la portata delle sue braccia, ma più si dibatteva per
afferrarla e più il grigio gli si attorcigliava addosso e lo trascinava in
basso.
Si stava inabissando, quando
tese le mani un’ultima volta.
Aveva promesso che non
l’avrebbe dimenticato. L’aveva detto tre volte, come un giuramento.
Ma non riusciva a ricordare…
Nel silenzio, una ragazzina
piangeva così forte da spezzare il cuore. La sentiva dentro, come una
percussione.
Come potevano gli altri
essere sordi ai suoi lamenti strazianti?
«Mi dispiace. Mi dispiace…»
Fu come se due dita la
schiacciassero. Il fiore tremolante della fiammella, che riusciva quasi a
toccare con le mani, si spense.
Il filo della sua memoria che
veniva reciso.
Il grigio lo inghiottì, e
lui, dibattendosi, annegò.
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Note dell’autrice:
Awn ;_; *commento sensato* L’AkuRoku
è così triste, come si fa a non amarlo? ;_;
Ho scritto questa shot in una
serata, e mi è uscita con una facilità sorprendente. Evidentemente dovevo
scrivere qualcosa di tristerrimo su Axel e Roxas, solo che non lo sapevo ;_;
Se avete appena letto questa
fic ringraziate Caska, tanto per cambiare, visto che è stata lei a linkarmi l’AMV
AkuRoku BELLISSIMO che mi ha ispirata, con relativa canzone annessa. Poi
ovviamente se l’è anche letta in anteprima perché è una raccomandata<3
Mi raccomando, lasciatemi un
commento se passate di qua ;_; Non mangio nessuno, giuro.
Seli
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