Disclaimer: I personaggi non mi appartengono, ma sono di
proprietà di Manabu Kaminaga e Suzuka Oda.
Nelle grinfie dell’orso
La
stazione di polizia non era certo il suo posto preferito, non che lo
fosse il tempio e nemmeno la scuola - ovvio. Se avesse avuto
libertà di scelta sarebbe partito per l’Antartide:
in fondo la compagnia dei pinguini doveva essere di certo
più piacevole di…
«Oh, chi non muore si rivede!»
sghignazzò una voce roca. «Cosa hai combinato
questa volta, Yakumo?»
«Niente.» rispose il ragazzo evasivo con una
scrollata di spalle.
«E stai seduto dritto su quella sedia o cadi, stupido
moccioso!»
«Signor Goto, la smette di darmi ordini? Mi hanno portato a
forza qui, io stavo tornando al tempio.» Yakumo
iniziò a dondolarsi con la sedia. «Tutta colpa del
suo collega che mi ha riconosciuto…» si
lamentò.
«Mi stai forse provocando?!» digrignò i
denti il poliziotto, rompendo la sigaretta che teneva. Imprecando,
buttò il mozzicone nel posacenere.
«Posso andarmene adesso?»
«No! Prima spiegami che diavolo è successo e poi
forse ti lascerò andare.»
Yakumo sospirò, si sistemò in modo
composto sulla sedia e restio alzò il viso tenuto fino a quel momento
fuori dalla visuale del poliziotto.
Goto rilasciò un sibilo: l’occhio sinistro
presentava una brutta macchia violacea, mentre sul labbro inferiore
c’era del sangue ormai rappreso. Comprese subito
perché la signora e il collega, che lo avevano portato
lì, volevano chiamare un’ambulanza al
più presto: l’iride rossa era ben visibile
nonostante il gonfiore nascente della palpebra; perciò i due
avevano supposto una qualche emorragia.
«Accidenti! Chi è stato?»
sbottò avvicinandosi per osservare meglio. «Hai
messo del ghiaccio sopra?»
Yakumo scosse la testa.
«Te lo vado a prendere. Tu non muoverti, chiaro?!»
se ne andò senza aspettare risposta.
Yakumo si strinse nelle spalle, ripensando a ciò che era
successo poco prima. Non era stata la prima volta, né
sarebbe stata l’ultima, di questo ne era certo. La gente,
semplicemente, non capiva.
Perciò, non aveva senso che prima la signora che
l’aveva portato lì e poi il signor Goto si
preoccupassero così tanto delle sue condizioni. Per non
pensare poi a come l’avrebbe presa lo zio!
In ogni caso, sarebbe stato meglio tornare al tempio che stare lì: non gli piacevano le
stazioni di polizia…
«Toh! Chiudi l’occhio e metticelo sopra.»
ritornò Goto con del ghiaccio sintetico e una pezzuola.
«Ahio!» si lasciò sfuggire Yakumo per il
dolore, quando sentì freddo sull’occhio pesto.
«Che dice tuo zio Isshin?»
Il ragazzo ignorò la domanda del poliziotto, interessato
più a tastarsi il labbro per verificare se la ferita stesse
ancora sanguinando e quanto effettivamente si fosse gonfiato. Il
verdetto fu che le aveva prese, ma di questo ne era già
consapevole. Forse aveva anche qualche livido… Sulla coscia
destra di sicuro, dove l’avevano colpito con un calcio per
farlo cadere rovinosamente a terra, e perciò anche sul
sedere. Ma non era importante che il signor Goto lo sapesse, no?
Smise di concentrarsi sulle ferite di guerra quando si sentì
strattonare per il colletto della maglietta. Premette involontariamente
col ghiaccio sull’occhio contuso.
«Accidenti, signor Goto!!» sibilò
protestando per la violenza con cui l’aveva afferrato.
Ammutolì quando fissò i suoi occhi fiammeggianti
di ira e di preoccupazione malcelata.
«Non provare mai più a ignorarmi, Yakumo
Saito.»
Yakumo sapeva che quando il signor Goto usava il suo nome completo di
cognome c’era poco da scherzare. Lo zio Isshin forse aveva
ragione a dire che era piuttosto maturo per i suoi undici anni, ma il
signor Goto lo trattava sempre come un moccioso – anche in
quel momento. Agli occhi del poliziotto non era più il
bambino che aveva salvato appena in tempo dalla follia della madre, ma
uno dei tanti complessati ragazzi fermati per uso di droga che capitavano lì di tanto in
tanto. Si sentiva come uno di loro: se fosse
riuscito a giocarsela bene, avrebbe evitato lo strizzacervelli.
«Ti ho chiesto cosa pensa tuo zio Isshin di tutto
questo.» scandì il signor Goto a pochi centimetri
dal suo volto, liberandolo.
Yakumo ricadde sulla sedia più contuso e dolorante di quanto
lo fosse stato pochi minuti prima. Potevano anche punzecchiarsi a
vicenda con battutine anche piuttosto acide e scorbutiche, ma mai
quando si trattava di argomenti seri e delicati.
«Ti hanno picchiato di nuovo.» continuò
il poliziotto in tono serio con le braccia incrociate al petto.
Yakumo non si premurò neanche questa volta di rispondergli:
era più che evidente.
«Non è niente. A parte l’occhio nero, il
labbro sta già guarendo.» disse calmo dopo qualche
minuto di silenzio.
Goto bofonchiò un’imprecazione sulla sua
stupidità.
«Cosa devo fare con te?!» si esasperò
poi.
«Niente. Si preoccupi piuttosto di sua moglie che lo ha
abbandonato, signor Goto.» sviò Yakumo, sapendo
che lui avrebbe colto la provocazione.
«E tu come lo sai, piccolo impiccione che non sei
altro?!» abboccò infatti Goto.
«Le notizie arrivano e gli uccellini cantano.»
sogghignò il ragazzo. «Adesso posso tornare al
tempio?»
«Adesso ti porto nel mio ufficio, ti metti a fare i compiti e
aspetti che finisca il turno. Poi ti riaccompagno al tempio.»
rispose alzando appena il pollice della mano in direzione
dell’ufficio.
Yakumo sospirò con irritazione.
«Non sono più un bambino! E lei non è
mio padre!» protestò con veemenza.
S’incupì, abbassando la mano con cui teneva ancora
il ghiaccio sintetico. «Non
è neanche mio zio! Ma insomma, che avete tutti
quanti??» scoppiò.
Goto rimase ad osservarlo in silenzio, tranquillo, nonostante Yakumo si
fosse alzato barcollando per un giramento di testa che non aveva
previsto. Lasciò che gli si avvicinasse, che afferrasse il
tessuto della maglietta della divisa, che lo stringesse con violenza
nei pugni chiusi e sudati, che lo guardasse con disprezzo –
No, con disperazione. Furioso come un animale in gabbia, ferito troppo
profondamente, appesantito dal fardello di un “dono” non
voluto.
Quant’altra sofferenza, dolore, oscurità,
avrebbero visto quell’occhio rosso?
«La signora e il poliziotto che hanno voluto portarmi qui a forza, lei, mio zio!!»
stava ancora urlando. «Io volevo soltanto essere lasciato in
pace! Non è colpa mia se nello scantinato della scuola
c’è l’anima di un bambino morto!! Che mi
picchino pure, non mi interessa!! Loro non capiscono e neanche mio zio
capisce!»
Yakumo s’interruppe, sgranò gli occhi sgomento e
indietreggiò, lasciando andare la maglietta del poliziotto.
«Io sto bene. Sto bene!» tremò.
«E… è inutile che vi preoccupiate per
me!! Siete tutti degli stupidi!!» afferrò lo zaino
ai piedi della sedia e con il ghiaccio ancora in mano corse a chiudersi
nell’ufficio del poliziotto.
Goto lo seguì con lo sguardo fino a quando non vide altro
che la porta rovinata dall’usura e dallo sporco del proprio
ufficio, – ufficio era comunque un eufemismo,
perché uno sgabuzzino delle scope sarebbe risultato
sicuramente più spazioso al suo confronto.
Abbassò gli occhi sul pavimento incrostato qua e
là di macchie di caffè, nicotina e altra
sporcizia. Be’, l’indomani sarebbe stato giorno di
pulizie, ma non era quello il punto. Si accarezzò il mento
pungente di un accenno di barba con aria pensierosa.
Cosa poteva fare lui se non quello che stava già facendo?
Yakumo era ancora un bambino, troppo giovane e ottuso,
nonché scostante e scontroso. Un ragazzo difficile
l’avrebbero definito i colleghi – ed anche lui , ma
prima di essere un poliziotto era un essere umano e in quanto tale si
rifiutava di lasciarlo andare, di abbandonarlo. Certo, non poteva
sostituirsi ai suoi genitori né a suo zio, che rispettava
molto come persona. Sapeva che nelle mani di uno come Isshin, Yakumo
sarebbe stato al sicuro.
Certo, entro le mura del tempio, ma fuori? Fuori era esposto alla
curiosità, al disprezzo e alla cattiveria della gente. Il
mondo era troppo pieno di sé, le persone troppo egoiste ed
egocentriche per curarsi di ciò che dicevano, che facevano,
e delle conseguenze che avrebbero potuto provocare in un animo giovane
ed ingenuo come poteva essere quello di un ragazzino di appena undici
anni. Perché se Yakumo cominciava a capire quanto il mondo
fosse crudele, ciò non giustificava il fatto che cadesse
vittima di certe situazioni. Come quella appena accaduta: preso a suon
di pugni solo per aver detto di aver visto un fantasma.
La paura era davvero una brutta bestia.
E poi, già a quell’età Yakumo mostrava
un secco cinismo e un rifiuto totale di affetto – ne aveva
appena data dimostrazione.
Non andava per niente bene.
Proprio per niente.
«Maledizione!» imprecò a denti stretti,
sbattendo il pugno sul legno della scrivania.
Ci teneva a quel ragazzino. E sapeva che non avrebbe dovuto avere
più contatti con lui – chi avrebbe voluto avere
quel tipo di legame? Avere accanto la persona che ti ricordava la cosa
più atroce che mai sarebbe dovuta succedere ad un bambino...
Anche lui sarebbe fuggito disgustato.
E invece, eccoli lì, a pochi metri di distanza e con una semplice porta di compensato a
separarli. Non era riuscito a lasciarlo in pace, non dopo aver incrociato nuovamente
il suo sguardo bicolore e averci visto la disperazione e una muta richiesta di aiuto.
Con un sospiro stanco Goto si ricompose, passandosi una mano
tra i corti capelli scompigliati. Andò al distributore
dell’acqua per dissetare la gola secca e prese in
considerazione l’idea di accendersi un’altra
sigaretta.
Almeno, si rincuorò, non è scappato via.
Dalla tasca dei pantaloni tirò fuori il pacchetto di
sigarette e ne prese una tra le labbra.
«Dannazione!» si lamentò non trovando
l’accendino.
L’aveva dimenticato nell’ufficio.
*
Due colpi secchi.
«Ehi, Yakumo! Esci fuori che ti riaccompagno a
casa!» gridò Goto per farsi sentire oltre
l’ostacolo della porta.
Il rumore che avrebbe dovuto sentire attraverso il compensato non
arrivò alle sue attente orecchie.
Forse era scappato dalla finestra?
Naaah…
O sì?
Senza pensarci un secondo in più si affrettò ad
aprire.
«Yakumo!!»
Subito i suoi occhi lo individuarono sdraiato in modo scomposto
sull’unica comodità consentitagli in quella
piccola stazione di polizia. La poltrona di un orrendo color marrone
– a sentire sua moglie – non era stata sicuramente
progettata per dormirci sopra, ma Yakumo doveva averla trovata davvero
comoda, oppure era stato così distrutto da quella giornata,
che ci si era addormentato così profondamente da non averlo
sentito urlare.
«Ma tu guarda…» mormorò con
un mezzo sorriso.
Yakumo era rannicchiato su se stesso: la testa su un bracciolo e le
gambe a penzoloni sull’altro. La pezzuola e il ghiaccio
sintetico, ormai sciolto e inutilizzabile, erano caduti a terra dove
avevano lasciato una piccola pozza d’acqua.
Sulla scrivania stavano tutti i rapporti e le carte che avrebbe
sistemato l’indomani, perciò suppose che il
ragazzo non avesse neanche aperto libro per tutte quelle ore.
Gli si avvicinò.
«Ehi, stupido moccioso. Svegliati, su!» lo scosse
da una spalla.
Yakumo mugugnò infastidito, socchiudendo appena gli occhi.
Quando andò a sfregarli con una mano chiusa a pugno, si
dimenticò di andarci piano con quello pesto e
sussultò per il dolore e per la sorpresa di trovarlo
più gonfio di quanto si fosse aspettato.
Sbadigliò.
«Avanti, torniamo a casa. Tutti e due.» Goto gli
diede una piccola pacca sulla spalla.
«Non è casa mia. È il tempio di mio
zio.» puntualizzò Yakumo stiracchiandosi.
«È casa tua, invece, testone. E farai bene a
tenertela cara.» replicò Goto, aiutandolo ad
alzarsi.
Yakumo allontanò la sua grande e callosa mano, troppo
orgoglioso per ammettere di aver bisogno di quella piccola gentilezza.
Goto abbozzò un mezzo sorriso, alzandosi per mettere a posto
il ghiaccio sintetico nel freezer e la pezzuola sulla scrivania.
«Cosa fa adesso? È passato alla
compassione?» chiese Yakumo in modo brusco, ricordandosi di
cosa fosse successo qualche ora prima.
«Ah, quanto fai il difficile, ragazzino!»
Per ripicca Goto gli si avvicinò nuovamente e lo
afferrò con entrambe le mani dalla vita sollevandolo di
peso. Yakumo lanciò un urlo preso alla sprovvista e si
affrettò a tenersi dalle forti braccia del poliziotto.
Tenendolo sospeso sopra di sé e guardandolo dal basso verso
l’alto, Goto sghignazzò.
«Sei ancora uno scricciolo!» rise per la leggerezza
del suo peso. «Mangi abbastanza?»
«Eh?!» si indignò Yakumo, scalciando per
obbligarlo a farlo scendere. «Mi metta giù! Signor
Goto!!»
Goto se lo caricò in spalla come un sacco di patate, prese
la giacca della divisa e lo zaino di Yakumo e uscì
dall’ufficio, chiudendo la porta a chiave.
«Prima di andare al tempio, passiamo a mangiare qualcosa. Ho
già avvertito tuo zio, mentre tu ronfavi nel mio
ufficio.» rise. «Che ne dici di un bel
cheeseburger? Con tante patatine e un bel gelato!» si
entusiasmò ignorando palesemente le proteste e i pugni di
Yakumo.
«Un giorno la denuncerò per
maltrattamenti!!» lo minacciò.
Goto lo ignorò nuovamente, continuando a camminare con un
ghigno divertito.
Eh sì, voleva davvero bene a quel moccioso.
Buongiorno!!
Siete già in vacanza?! Beati voi, io sono leggermente presa dagli esami universitari…
Appunto perché sto fondendo, mi sono decisa a pubblicare qualcos’altro.
Scusate, ma solo a me sono venuti i lucciconi agli occhi nel volume 5 a
leggere e vedere quella scena in macchina tra Yakumo e Goto??? Non
voglio fare spoiler, però a me è piaciuta davvero
tanto tanto. Che poi, ovviamente, non riescono a stare seri per
più di qualche pagina senza che uno dei due non rovini il
tutto xD
Vabbè, passiamo alla one-shot...
Goto è poliziotto perché penso sia plausibile che quando Yakumo
avesse l’età in cui ho ambientato la storia, non fosse ancora stato promosso, no? In ogni
caso, siate clementi e
datemela buona x)
Yakumo è più scostante del solito oltre che
arrogante e un po’ impulsivo e irascibile, diciamo.
Però, ce ne vuole per superare quello che ha
passato lui, quindi me lo sono immaginato come un ragazzo difficile ma
non troppo.
Non ho indagato a fondo i pensieri e la psicologia di entrambi e
neanche ho spiegato per bene tutta la dinamica del piccolo incidente di
Yakumo, perché non era quello che mi interessava... Ho voluto semplicemente cogliere un
momento tra i due: perché non c’è solo l’aspetto romantico con Haruka, ma anche questo
rapporto bellissimo che Yakumo ha con l’ispettore.
Morale della favola: ho inventato tutto di sana pianta! Non sapendo cosa sia
effettivamente successo da quando Goto lo
ha salvato, ho dovuto per forza di cose inventare.
Ho cercato di mantenere l’IC per quanto possibile, appunto
perché la one-shot è ambientata anni addietro ai
fatti del manga.
Sperando che vi sia piaciuta almeno un pochino, vi ringrazio dal cuore
per aver letto :)
Alla prossima,
Calime
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