Almost Lover
Dedico
questa storia a me stessa:
per
avercela fatta, nonostante tutto.
Per questo sei la sete e
ciò che deve saziarla.
Come poter non amarti se
per questo devo amarti.
Se questo è
il legame come poterlo tagliare, come.
Come, se persino le mie
ossa hanno sete delle tue ossa.
Sete di te, sete di te,
ghirlanda arroce e dolce.
Sete di te, che nelle
notti mi morde come un cane.
Gli occhi hanno sete,
perché esistono i tuoi occhi.
La bocca ha sete,
perché esistono i tuoi baci.
(Pablo Neruda)
Errori, errori, errori.
Ne ho commessi tanti,
più di quanti dovrei. Mi sono lasciata ghermire e ingannare,
accecare da un velo che ha tramutato la realtà in parvenza e
le illusioni in certezza.
Ho preferito sognare,
rifugiandomi in antri della mia mente che non avrei mai dovuto
esplorare. Scoprendo cose di me che non avrei mai dovuto sapere.
In ogni stanza, ogni
oggetto, ogni angolo oscuro... non vedevo che te.
Hermione aprì gli occhi, senza fretta, lasciando che la
lieve spossatezza del sonno l'avvolgesse ancora un po'. Le spesse tende
di velluto lasciavano trapelare solo un piccolo spiraglio di luce,
troppo debole, troppo lontana.
Si alzò a sedere, tastandosi la chioma arruffata e
sbadigliando sonoramente. Non un solo rumore nella stanza, non un solo
respiro oltre al suo. Sola.
Scostò le pesanti coltri, mentre il fuoco creava strani e
spaventosi giochi di ombre, e il suo gatto preferiva il letto di
qualcun altro per schiacciare un pisolino. Un’abitudine,
ormai.
Rassegnazione.
Adagiò i piedi sul tappeto, facendoli scivolare tra le trame
intricate, una morbida carezza. Indossava solo una veste leggera,
eppure soffocava, come se le pareti le si stringessero attorno,
strappandole la sua stessa carne. Lontana da qualsiasi cosa un tempo
fosse stata importante e necessaria, era divenuta insensibile ai suoi
stessi sensi.
Tormento.
Si alzò, trascinandosi come ebbra, lasciando che i vestiti
le scivolassero via con piccoli e veloci gesti. Osservò il
suo riflesso nudo dinanzi allo specchio: i seni, non troppo grandi; il
ventre, morbido; la zona scura del pube e le gambe, non troppo lunghe,
ma sottili.
Strinse una mano al collo, poi l’altra, quasi volesse
strozzarsi. Lo sguardo era liquido, carico malinconia. Ne
rifuggì, accostandosi alla scrivania: un fermaglio, di un
intenso verde smeraldo: lo usò per sistemarsi i capelli.
Costrizione.
Quando aprì la porta del bagno, i vapori trattenuti
all’interno la investirono in una densa nuvola di nauseante
profumo. Non aveva mai capito perché le sue compagne
adoperassero tutti quei cosmetici, come se usare cinque tipi diversi di
crema idratante potesse realmente fare la differenza: un olio profumato
non poteva accarezzarle la pelle come avrebbero fatto un paio di mani,
né un po’ di trucco avrebbe potuto farla sentire
bella come uno sguardo che l’avesse guardata con desiderio.
Aveva dovuto imparare troppo presto che nulla di ciò che il
mondo poteva offrirle avrebbe mai attenuato quel vuoto, un usignolo
privato dei suoi canti, della sua luna. Si era nutrita di solitudine,
odio e disperazione, annientando ogni suo desiderio, subordinandolo a
qualcos’altro. Mentendo, a sé stessa e agli altri.
Semplicemente, fingendo di essere qualcun altro.
Disprezzo.
Entrò nell’ampia cabina doccia, chiudendo le porte
e facendo scrosciare l’acqua attraverso le tubature. Si
scottò, ma il dolore aveva un che di piacevole e
terapeutico, quasi analgesico.
I vapori intensi le rendevano difficile il respiro, ma non aveva
bisogno di ossigeno, non più. Attimi, come ricordi di una
intera vita. Non era occorso altro tempo, non a lei, non per lui: uno
sguardo ed ogni cosa era stata perduta.
Oblio.
Vi era stato un momento, tempo prima, in cui aveva quasi creduto che le
cose potessero cambiare, ma ci sono ferite che il tempo non
può guarire, convinzioni troppo profonde da poter sradicare.
A ciò era seguita la caduta: maligni spiriti
l’avevano accolta, corrompendo la sua anima, condannandola.
Nessuno aveva intuito nulla, e come avrebbero potuto?
Non per nulla, Hermione era considerata la strega più
talentuosa della sua età, eccellente persino in questo.
Mani iniziarono a vagare sul corpo, tracciando linee immaginarie sulla
sua pelle, graffi che erano una gioia malsana, lussuriosa. Una mano
scivolò tra le gambe, senza imbarazzo, accarezzando,
spingendo, penetrando.
Cos’era quello che stava infliggendo a sé stessa,
piacere o dolore?
Così sottile è la linea che divide tali
sensazioni, facce di una stessa, iniqua medaglia. Poteva addirittura
avvertirne il peso, l’odore del sangue putrido che
fuoriusciva dalle piaghe che le aveva causato, il veleno che lentamente
la stava uccidendo.
Un morso alle labbra carnose, un pugno stretto contro il muro, un
ansito, un po’ trattenuto, un po’ urlato.
Si può desiderare qualcosa a tal punto da riuscire a stento
a vivere senza?
Hermione accostò la fronte alle piastrelle, ancora fredde
nonostante i vapori roventi della doccia. La pelle le si era arrossata
tanto che, probabilmente, ne avrebbe portato i segni per giorni. Era il
suo marchio e la rendeva felice, come solo un folle poteva essere.
Un gemito gutturale le proruppe dalla gola, cosce che andarono a
stringersi ancora più saldamente attorno a quella mano, la
quale violentemente si muoveva alla ricerca di una momentanea estasi.
Pensò a lui, a quello che avrebbero potuto fare le sue
labbra, le sue mani a contatto col suo corpo, con la sua pelle.
Un’idea, un desiderio talmente prorompente da farle scorrere
il sangue mille volte più velocemente attraverso le vene,
tanto da farla accasciare, preda di spasmi convulsi, ansimante oltre
ogni dire.
Era piacere, ma anche dannazione.
Brama.
Si sedette in un angolo, lontano dall’acqua, le ginocchia
strette al petto. Osservò il gorgo dello scarico risucchiare
fino all’ultima goccia di dignità che le era
rimasta, fino all’ultima traccia di sé stessa, di
quella che era. Lacrime amare come fiele ed un cuore che le veniva
strappato, ancora e ancora.
Si alzò, reggendosi a stento sulle gambe, gemendo.
Barcollò fuori dal bagno, incurante dell’acqua che
scorreva sul pavimento, tornando sul letto. Gattonò fino al
cuscino, coprendo il corpo nudo con le coperte calde, chiudendo gli
occhi così forte da farsi male. Dormì.
Disperazione.
Incubi, un tempo combattuti, adesso accolti. Un volto, il suo tutto e
il suo niente.
Un amore straziante che le chiedeva ogni cosa e al quale nulla avrebbe
negato, neanche la vita.
Distanze.
Ho percorso miglia per
arrivare sino a te.
Ho visto il mio amore
mutare, sfumare in odio e ossessione, uccidermi lentamente. Un dolore
tale da farmi urlare, implorare affinché mi uccidessero.
Ho sotterrato la testa
sotto chilometri di bugie, ridotta la mia voce al silenzio, il mio
pianto a un sorriso. Il mio amore a una tomba.
Sputo parole come sangue
e vomito, imprimo ogni parte di me della tua assenza. E’
vuoto che sa’ di pienezza, baci bramati. Vuoto che
è la sola cosa di te che potrò avere mai.
Appartenenza.
Io sono parte di te, tu
sei parte di me.
Buffo, potrei quasi
crederci.
Carta.
Hermione Granger viveva una esistenza di carta, di azioni modellate su
inchiostro e parole. Giorni come versi, rime ingarbugliate, metafore
articolate. Emozioni prive di punteggiatura, flusso eterno e
indomato.
Respirò a pieni polmoni l’odore che
s’innalzava da secoli e secoli di pensieri raccolti,
raccontati, rilegati. Un amore senza tempo che scaturiva da ogni
granello di polvere, ogni mano lasciata libera di scorrere tra quegli
scaffali, accarezzando, lambendo, immaginando.
Afferrò un volume, saggiando con le dita la morbida e liscia
consistenza della copertina: il cuoio, leggermente consumato lungo i
bordi, conservava ancora tutto il calore che il suo autore vi aveva
infuso. Ne percepiva l’essenza, attraverso la pelle, fino
alle più recondite parti di sé stessa.
Non c’è da fidarsi dei mondi di carta, del modo in
cui ghermiscono e incatenano il lettore, alienandolo. Pagine e pagine
di frasi, canti di soavi e infide sirene, maledizioni senza perdono. Un
dono e una condanna, infinitamente dolce, infinitamente ingiusta.
Ripose il tomo sul ripiano, inspirando profondamente, fin dentro le
ossa. Aveva i polpastrelli ricoperti da un sottile strato di
pulviscolo: li sfregò tra loro, senza esito.
Prelevò un fazzoletto dalla tasca anteriore della divisa:
una H, grande e scarlatta, ed una dalia, ricamate in un angolo da sua
madre. Vi si pulì le dita, poi, senza riguardo, lo
gettò nella borsa.
Scorse i titoli uno ad uno, strisciando l’indice sulle
costine e mormorando lettere quasi completamente sbiadite.
La luce di un lampo invase la stanza per alcuni istanti, accecandola,
mentre le pallide fiammelle delle candele tremolavano inquiete.
Un mostro.
Lei era il mostro che si trascinava, stanco, fra quei lugubri corridoi.
Il mostro che non aveva mai ucciso nessuno, se non sé
stessa. Il mostro che, per quanto si sforzasse, non riusciva in alcun
modo a ricordare che sensazione dessero i raggi del sole contro la
pelle.
Prese ciò di cui aveva bisogno e si diresse verso uno dei
tanti tavoli da studio: c’era quiete in biblioteca, quel
giorno, proprio come aveva sperato. Posizionò sul bancone
tutto quel che le occorreva: il libro, aperto alla pagina giusta; il
calamaio e la piuma; la pergamena, così ruvida al tatto, ma
dal profumo avvolgente.
Impugnò il pennino e, dopo averlo intinto
nell’inchiostro, iniziò a scrivere, tracciando
morbidi e decisi tratti sul foglio:
Io voglio
morire Io
voglio morire Io voglio morire Io voglio morire Io voglio morire Io
voglio morire Io voglio morire
Io voglio vivere. Io
voglio amare.
Io voglio amarti.
Parole che sbiadivano ai suoi occhi, perdevano di consistenza, si
scioglievano in ansiti e lacrime.
Perché doveva essere così maledettamente debole?
Accartocciò la pagina e la gettò via, lanciandola
verso il cestino. Questa, però, rimbalzò sul
bordo e cadde sul pavimento. Proprio non riusciva a farne una giusta.
Il cuore le doleva, gonfio di tristezza. Ogni respiro era
un’agonia, l’ennesimo alito di vita che sfuggiva al
suo controllo.
Si tamponò le ciglia umide col dorso della mano, cercando
inutilmente di darsi un contegno: non sapeva cosa avrebbe fatto se
qualcuno l’avesse vista in quello stato.
Si alzò di mal grazia, avvicinandosi all’angolo
entro il quale era caduto il cartoccio di pergamena. Mentre si
accasciava, udì in lontananza un bisbiglio di voci, una
risata di donna a stento trattenuta. Montò su tutte le
furie, perché questa intrusione rovinava completamente la
sua tranquilla serata.
Sbuffando, si riavvicinò alla sua postazione e
iniziò a raccattare le proprie cose: dopo ciò,
tanto valeva che se ne andasse a letto.
Si trascinò nuovamente tra i corridoi e gli scaffali,
silenziosa e inafferrabile come una nuvola, ugualmente carica di
tempesta. Un improvviso rumore, però, la indusse suo
malgrado a fermarsi: il tonfo di alcuni libri che cadevano sul
pavimento, seguito da una nuova, irritante risata.
Ma dove diamine credevano di trovarsi?
Per un solo istante, Hermione valutò seriamente
l’idea di infischiarsene e continuare imperterrita per la sua
strada, ma poi qualcosa la richiamò all’ordine:
l’eco di un’antica sé stessa, che la
costrinse a voltarsi e dirigersi a passo di marcia verso la fonte di
quei rumori molesti. Gli ingranaggi della sua mente giravano
velocissimi al pensiero della ramanzina che avrebbe riservato a quegli
ignari studenti, sfortunati perché incappati
nell’ultima persona che avrebbero mai voluto e dovuto
incontrare.
A man mano che avanzava, i suoni divenivano sempre più
nitidi: distinse chiaramente due voci, una femminile ed una maschile,
accompagnate da innumerevoli fruscii e sospiri. Rumori, per
così dire, inconfondibili.
Possibile che non avessero trovato luogo migliore per dar sfogo ai loro
bassi istinti?!
Svoltò due volte a destra, poi una a sinistra, certa, ormai,
che i due si trovassero nei pressi della sezione di “Storia
della Magia”, la zona perfetta per chi non volesse essere
disturbato.
Maledizione!
L'aria che respirava sembrava stantia, quasi qualcuno l'avesse
avvelenata, facendo sì che solo a fatica si potesse
respirare. Hermione si convinse che la sua fosse solo un'impressione
dovuta alla terribile stanchezza, ignara del fatale errore che il passo
successivo la conduceva a fare.
Giunta all'imbocco dell'ultimo corridoio fu costretta, tuttavia, ad
arrestare di colpo la sua avanzata: due figure si ergevano in
lontananza, i cui connotati, dopo un primo istante di sgomento, le
furono atrocemente inconfondibili.
Una ragazza le dava le spalle, la parte superiore della divisa
abbandonata ai suoi piedi, un paio di grandi ed avide mani che ne
esploravano pelle, poi scostavano la gonna. Sospiri che divennero
gemiti, e muscoli che si contraevano e distendevano nella disperata
ricerca del piacere.
Una cascata di capelli platino le accarezzava la curva leggera del
collo, quasi certamente compagni di baci e carezze a fior di labbra.
Hermione avrebbe soltanto voluto cavarsi gli occhi e il cuore.
All'improvviso, la nuca dell’amante ebbe un guizzo ed
alzò lo sguardo, incrociando quello della caposcuola. Per un
solo, interminabile istante, il mondo intero perse di consistenza. La
giovane pensò quasi di riuscire a scorgere qualcosa in
quegli occhi, qualcosa di diverso e inaspettato, qualcosa che mai si
sarebbe aspettata di trovarvi.
Allo stesso modo, il ragazzo pareva osservarla rapito, dimentico di
essere ad appena un soffio dallo sfacelo della lussuria
- Draco? - un roco sussurro, quasi inudibile, ma che permise al velo
del rimpianto e della colpa di calare tra di loro, spezzandoli,
stordendoli, separandoli.
Hermione premette con forza la mano sulla bocca, lanciando un'ultima
occhiata, per poi voltarsi e correre forte.
Lontano.
Via da quel luogo, dal suo amore.
Tempo.
Osservo la sabbia
scorrere nella clessidra e penso al tempo: quanto sprecato, gettato,
ignorato.
Penso al tempo passato,
ai ricordi, e a quello futuro, alla speranza.
Penso al tempo che sto
vivendo e a come la maggior parte di noi lasci che esso semplicemente
scivoli via, senza darvi importanza.
Penso.
Penso al tempo come al
dono più grande che un individuo possa fare ad un altro,
perché nessuno può sapere in anticipo quanto ce
ne sia concesso.
Ti cerco e penso al
fatto che, se potessi, non avrei dubbi: tutto il mio tempo non lo
donerei che a te.
Il ticchettio di un paio di scarpe rimbombava attraverso le mura di
pietra del castello di Hogwarts, illuminate solo dal lieve chiarore
della luna attraverso le vetrate. Il clima era particolarmente freddo,
di quel tipo pungente e umido che ti penetra fin dentro le ossa.
Il cielo era limpido, nonostante la stagione, con mille stelle ad
impreziosirne il ricamo. Una di quelle notti in cui gli amanti non
possono fare a meno di cercarsi, rischiando di morire al fuoco della
loro passione.
Anche Hermione Granger si sentiva dilaniata, ma da un fuoco diverso,
molto meno piacevole. Si consumava al pensiero di qualcuno che neanche
la guardava, anelando ai suoi insulti come alla dimostrazione che, in
un modo o nell'altro, lui l'aveva notata, era consapevole della sua
esistenza.
Patetico, vero?
Era bastato un amore come quello a inchiodarle le ali.
Ma come poteva evitare di amarlo? Come poteva evitare che quei
sentimenti la tormentassero giorno e notte, che il suo cuore esplodesse
al suono della sua voce, ed un brivido la percorresse, lasciandola
completamente inerme?
Si accostò ad uno dei finestroni, osservando con occhi
malinconici la luna che si ergeva, fiera e solitaria, nel cupo cielo
del nord. Si sfilò le scarpe, sobbalzando al contatto col
pavimento, dopodiché si arrampicò sul davanzale e
strinse le ginocchia al petto: da ore la affliggeva una tremenda
emicrania, che parve attenuarsi al contatto col vetro gelato,
così come il senso di nausea.
Com’era stata la sua vita prima? C’erano stati gioia, amore?
Non ne era sicura, non riusciva a richiamare nessuna di quelle
sensazioni, a riviverle, quasi fossero state annullate per sempre. Non
erano gli occhi, ma il cuore ad essere divenuto cieco. Si muoveva
incerto, spaventato, prigioniero di una selva oscura dalla quale
sembrava impossibile trovare una via d’uscita.
Caro poeta dimenticato,
dietro quale porta ti starai celando?
Nessuna guida autorevole le era stata concessa, neanche quella della
fede.
E, d'altronde, di quale fede – speranza
– avrebbe mai potuto parlare una come lei?
Una ragazza perduta.
Sentiva il rimorso per i suoi sbagli attaccarsi alla pelle, insozzarla
come catrame. Le rendeva difficile muoversi, superare
l’ostacolo, andare avanti. Per quanto si sforzasse, per
quanto tentasse, per quanto agonizzasse.
Lurida Sanguesporco.
La mano le scivolò dal grembo, stringendosi spasmodicamente
al bordo del davanzale. La pietra ruvida le graffiò il
palmo, mentre piccole schegge le si conficcavano al di sotto delle
unghie e qualche goccia di sangue si riversava sul pavimento. Lei lo
odiava.
Ti
distruggerò.
Il respiro era affaticato, quasi le costasse fatica, ed un tremito
convulso le trapassava le membra, sfiancandola.
Osservò il palmo della mano, le ferite appena inferte ed il
liquido cremisi che le colava sulla gonna e imbrattava la camicia. Era
sicura che quel sangue non avrebbe avuto nulla di diverso dal suo: non
il colore, l'odore o il sapore; era il valore a discriminarlo, valore
che, non importava quanto fosse eccellente il suo rendimento o
irreprensibile il suo comportamento, lei non avrebbe avuto mai.
Putrida, fetida sanguesporco. Se lo ripeteva in continuazione, come una
cantilena, un promemoria che non le risparmiasse neanche un istante di
dolore. Sentiva il sapore di quelle parole sulla lingua, ne avvertiva
la consistenza mentre si sforzava di inghiottirle e loro iniziavano a
farsi strada dentro di lei, fino al cuore. Lo avevano avvelenato, quel
cuore, ridotto ad un misero ammasso di carne, fatto a pezzi e lasciato
a marcire.
Chi era stato a dare forma all'amore? Possibile che Dio, nella sua
infinita saggezza, avesse potuto creare qualcosa di così
distruttivo, così dilaniante?
Sì, si disse, perché in natura ogni cosa ne
genera un'altra che abbia forza uguale e contraria: così,
come esiste la vita, esiste anche la morte. Il suo amore era la morte,
quando avrebbe potuto essere vita.
Reclinò il capo, chiudendo gli occhi ed inspirando a fondo:
la fatica per la giornata appena trascorsa, per tutti quei giorni
trascorsi, e per le notti insonni e tormentate, com'era prevedibile,
cominciavano a farsi sentire. Avrebbe chiuso gli occhi, solo per
qualche attimo.
Immagini.
La punta delle tue dita
che mi sfiora il viso e poi scende giù, lungo il collo, il
profilo del seno. Tremo.
Sento il tuo volto che
si avvicina al mio, il respiro caldo che mi investe, mi solletica.
Spalanco gli occhi e il tuo sguardo si specchia nel mio. Nessuno dei
due parla, perché le parole non sono che un ornamento
superfluo a questo momento che è solo nostro.
Il tuo respiro
è appena un po' affaticato, eppure tanto basta a che un
prepotente languore si insinui dentro di me. Schiudo le labbra, le gote
arrossate, un invito. Quasi mi ritraggo quando ti vedo inarcare un
sopracciglio, ma tu precedi qualsiasi mio movimento, da perfetto
predatore, baciandomi con ferocia.
Ti basta poco per
prendere possesso della mia bocca, non ti aspettavi di trovarla tanto
cedevole, vero?
A poco a poco, la
violenza di quel gesto, la fretta e la rabbia, si attenuano, lasciano
il posto ad un lento assaggio, una nuova consapevolezza.
Chissà se ti
piace quello che senti?, non posso fare a meno di chiedermi.
Dov'è finito
tutto l'odio, tutto il disgusto e la prepotenza che mi hai gettato
addosso in questi anni? Che sia stata la luna a sorgere finalmente
benigna sul nostro avvenire?
Quando ti stacchi da me
ansimo forte, perché vederti nuovamente lontano mi toglie il
fiato e vorrei piangere, urlarti di non smettere, di starmi vicino
sempre.
Vedo la tua espressione
cambiare, dirmi più di quanto la tua voce potrà
mai fare, e capisco che non ho bisogno di spiegare, che tu sai
esattamente cosa provo perché è ciò
che anche tu senti. Il mio cuore sembra esplodere a questa
consapevolezza.
Ti riavvicini, stavolta
lentamente, e inizi a percorrere con le labbra il profilo della mia
mascella, proseguendo lungo l'incavo del collo. Qualcosa di morbido e
caldo mi sfiora la pelle: vuoi imprimere il mio sapore in ogni parte di
te, lo so, come vorrei io.
Decido che è
giunto il momento di afferrare saldamente il coraggio: allungo le mani,
titubante, e lascio che le dita scivolino tra i tuoi capelli. Ti
avverto improvvisamente rigido e penso di aver sbagliato, di aver
rovinato tutto, ma un tuo sospiro strozzato mi incita ad andare avanti.
Inspiro l'odore che
emani fin dentro l'anima, affinché dalla mia memoria non
possa essere strappato: sai di mirtilli, di un vento fresco d'autunno,
una ninna nanna cantata ad una culla vuota. Ho passato tanto di quel
tempo a sognare un simile istante, che adesso, mentre lo afferro e lo
stringo forte, pare quasi sfuggirmi. Voglio cucirlo più
volte al mio cuore, perché non possa più
scappare.
Stringo le dita
più forte e tiro: voglio guardarti. La luce della luna ti
illumina il profilo, rendendo la pelle di un pallore perlaceo,
illuminandoti gli occhi.
Eri così
bello anche prima, o lo sei di più adesso, con me?
Fronte contro fronte, il
mondo intero caduto in un limbo di sentimenti che non riesco a frenare,
non voglio frenare. Non posso aspettare, né essere cauta: se
questa notte è tutto ciò che mi resta, io devo
viverla.
Nessun rimpianto, mi
avvento sulla tua bocca e ti bacio come se ne dipendesse la mia vita, e
non sbaglio.
La passione... non
l'avevo mai conosciuta davvero, ora lo so. Non gli spasimi che mi
attraversano, le contrazione allo stomaco o il caldo soffocante che,
d'improvviso, sembra invitarmi a denudarmi di qualsiasi indumento. La
tua mano si muove, si sposta verso i bottoni della mia camicia,
sfilandoli dalle asole uno alla volta, cauta. Potrei impazzire.
Inizi ad esplorare ogni
centimetro della mia pelle, ad assaggiarlo famelico. Un gemito mi
sfugge, le tue mani scendono ancora, sotto l'orlo della gonna. Annaspo.
Ti prego, mi accontenti.
Mi sento morire.
Esiti, cosa ti spaventa?
Mi accarezzi dolcemente.
Non avere paura.
Non ho paura.
Non c'è
più freddo o buio, ci sei tu e il tuo corpo che si accosta
fremente al mio.
Ti togli il mantello e
lo stendi sul pavimento, allungando la mano nella mia direzione. La
afferro e mi lascio guidare: mi ritrovo supina, la tua figura che mi
sovrasta.
Fermo immagine.
Amami. Senza limiti o
recriminazioni, senza pietà.
Quante volte, nell'arco
di una vita, un essere umano può essere colpito da un sentimento
simile?
Una, forse mai.
Non credere a quel che
dicono gli altri: l'amore, quello vero, non passa, né
può essere soppiantato. Tuttalpiù, si impara a
vivere nella mancanza: di uno sguardo, una carezza, una parola. E' una
sensazione lacerante: ti entra dentro e, quando te ne rendi conto,
è già troppo tardi.
Ti voglio.
Ogni sospiro
è una preghiera, ogni gemito un inno alla gloria di questo
momento. Sguardo carico di adorazione, vestiti gettati alla rinfusa, ti
sento spingerti profondamente dentro di me. Delicato al principio, poi
sempre più frenetico. Inarco la schiena, mentre discendi a
baciarmi l'avvallamento fra i seni, lascivo.
Di più.
Afferri tra le labbra un
capezzolo, lambendo, mordendo. Una spinta più poderosa delle
altre mi fa' quasi urlare.
Dio, non fermarti.
Avverto la disperata
urgenza che hai nel farmi tua, questo doloroso desiderio di possesso
che mi imprime sulla pelle la scia velenosa di un addio non ancora
pronunciato.
La mia anima trepida al
culmine dell'estasi: tu ricongiungi le labbra alle mie, soffocando i
nostri respiri. Mi vien da pensare che forse dell'aria non ho mai avuto
bisogno.
Stringimi, non mi
lasciare.
Ti lascio adagiare la
testa sul mio petto, il tuo respiro che mi solletica la pelle.
C'è quiete e bellezza, nel luogo a cui da sempre sono
destinata.
Mi dispiace.
Impiego qualche secondo
a capire, le tue parole mi confondono.
Perché? Cosa
intendi dire?
Credevo che amare
significasse non dover mai dire mi dispiace, ma ora, guardandoti,
capisco che a volte le nostre scuse sono qualcosa dietro cui
nasconderci, grazie alle quali poter scappare.
Vuoi scappare?
Perdonami.
La tua espressione
infelice è l'ultima cosa che riesco a vedere.
Mia piccola Hermione.
Quando quella mattina si risvegliò nel suo letto, Hermione
Granger non riuscì in alcun modo a rammentare come vi fosse
arrivata. L'ultimo ricordo della sera precedente riguardava il suo
soliloquio al chiaro di luna nei corridoi, poi...
...e poi?
...un'ombra, un sogno che non riusciva a chiarire.
Possibile che...?
Scosse con vigore il capo e rise, come non faceva da tempo.
No, cosa vado a pensare:
è impossibile!
- Hermione... -
- Oh, scusami Ginny - la piccola Weasley si
alzò a sedere sul letto, faccia assonnata e capelli
arruffati peggio che se un pipistrello avesse deciso di farvi il nido
- Sei allegra - notò, caustica
- Capita - fu la risposta poco esaustiva dell'amica
- Mmm - no, ancora non era abbastanza in forze per poter
affrontare una seria conversazione - Tu non me la racconti
giusta - dichiarò, stendendosi nuovamente - Ma
non temere... - sbadiglio - Ti farò confessare
- e si riaddormentò.
Appena Hermione fu sicura che la ragazza dormisse profondamente,
scostò le coperte e, a piedi nudi, si accostò
alla finestra. Spalancò le vetrate il più
silenziosamente possibile, lasciando che la fredda brezza mattutina le
investisse il viso, mentre i raggi del sole la costringevano a coprirsi
la vista.
Una volta che si fu abituata alla luce, poté scorgere in lontananza la figura,
apparentemente placida, del platano picchiatore. Il paesaggio era
quello tipico della stagione: spoglio, malinconico, morto; eppure...
...eppure sembra
diverso.
L'avvertiva dentro, in un punto imprecisato del suo petto: un tenue
tepore, una luce di verde speranza. Era il sorriso che l'aveva vista
svegliarsi, il dolce sapore che ancora aleggiava sulle sue labbra e il
suo sangue, non più sporco, ma solo speciale.
Sì,
si disse, andrà
tutto bene.
E' tempo.
Presto, molto presto, il
mondo intero saprà che sei mia.
Ti senti abbastanza
coraggiosa per questo, mia piccola Hermione?
Goodbye, my almost lover
Goodbye, my hopeless
dream
I'm trying not to think
about you
Can't you just let me
be?
So long, my luckless
romance
My back is turned to you
I should've known you'd
bring me heartache
Almost lovers always do.
(A Fine Frenzy
– Almost Lover)
Libere
Interpretazioni:
– La storia è
ambientata in un ipotetico settimo anno ad Hogwarts, in questo caso,
frequentando Hermione e Ginny lo stesso anno, si ritrovano ad essere
compagne di dormitorio.
– Il personaggio di Hermione
verrà probabilmente considerato da molti OOC, il quale
è ovviamente presente tra gli avvertimenti. Detto
ciò, volevo narrare cosa sarebbe accaduto ad una ragazza
razionale se fosse stata colpita dal sentimento più
irrazionale che esista e quello che avete letto è il
risultato.
– La questione della sezione
della biblioteca dedicata a Storia della magia è, come credo
abbiate capito, una mia invenzione. Non so, credevo potesse andar bene.
– La Dalia... bè,
forse un giorno capirete il perché della mia scelta.
Note:
– La frase “Mi sono lasciata ghermire e
ingannare, accecare da un velo che ha tramutato la realtà in
parvenza e le illusioni in certezza.”
è un'allusione alla teoria del velo di Maya di Schopenhauer.
– Il mostro è
un'altra allusione, questa volta alla storia di Teseo e del Minotauro.
– La selva oscura, il poeta, la
guida sono, ovviamente, riferimenti a Dante e alla Divina Commedia.
– La frase “Credevo che amare significasse
non dover mai dire mi dispiace” è
liberamente tratta dal film “Love Story”.
Spazio
Autrice:
Ho cominciato a scrivere questa storia il 16 Gennaio 2013 e l'ho
terminata il 27 Giugno 2013, più di cinque mesi dopo. In parte
sono fiera di ciò che ho scritto, in parte non lo sono
affatto: non so neanch'io come spiegare la cosa. Ho solo una certezza:
in queste pagine ho riversato tutto quel che sono, che si tratti di
cose belle o brutte starà a voi giudicarlo: ogni critica,
fatta col dovuto rispetto, sarà sempre bene accetta.
Nel caso in cui la mia storia vi piacesse, vi pregherei di aiutarmi a
farla conoscere: condividendola, suggerendola ad amici... davvero, ve
ne sarei eternamente grata.
Bè, non voglio annoiarvi ulteriormente: nel caso siate
giunte a leggere sin qui, vi ringrazio dal più profondo del
mio cuore e spero tanto la storia vi sia piaciuta.
A presto,
La
bambina fantasma.
|