Non
avrei mai e poi mai creduto di poter vedere Simone in quello stato. Con
l’aiuto
dello specchietto retrovisore, notai il suo sguardo cupo e
l’espressione
imbronciata.
Era
davvero insolito trovargli una smorfia diversa da quella pre-stampata
sulla sua
faccia da viziato arrogante, e la cosa mi fece parecchio sorridere.
Avevo il
sospetto che Mario c’entrasse qualcosa, soprattutto il fatto che avesse
scoperto che non si trattava di un’amica,
bensì di un ventiquattr’enne alto un metro e ottanta, con barba,
capelli e
spalle da giocatore di rugby.
Gli
è andata male, eh?
Concordo.
«Avete
fatto buon viaggio?» ci chiese Mario, sorridendo con i suoi soliti modi
affabili. Anche se propriamente gli abitanti di Roma ci definivano
“campagnoli”
soltanto perché abitavamo in provincia, Mario era diverso.
Non
aveva studiato; cioè, si era limitato a finire i cinque anni
all’istituto
agrario più vicino e poi si era soltanto lasciato rapire dalla sua
passione
infinita per la musica. Per mantenersi, lavorava con il padre, nel
caseificio
di famiglia, e giorno dopo giorno si prendeva cura anche dei capi di
bestiame
con cui facevano delle deliziose forme di formaggio.
A
parte questo, Mario non aveva quella tipica cadenza di paese nel
linguaggio.
Quel tipo di persona dura di comprendonio e attaccata visceralmente
alle
proprie origini, era ben lontana dalla sua persona.
Da
Mario, che metteva i soldi da parte per comprarsi uno stereo, una
chitarra, un
amplificatore, da quello stesso ragazzo che per Natale o per il
compleanno mi
chiedeva sempre di regalargli un disco di vinile molto raro.
«Sì,
non ci sono state turbolenze,» risposi tranquilla, sorvolando
accuratamente su
tutta la parte in cui io e Simone ci eravamo accidentalmente
sfiorati le mani.
«Anche
il tuo amico là dietro, mh?» domandò, fissando lo sguardo nello
specchietto e
cercando gli occhi del calciatore che, senza mezzi termini, lo
incenerirono.
Sì.
Se Simone fosse stato Ciclope, quello degli X-men per intenderci, di
Mario non
sarebbe rimasto altro che un mucchietto di polvere da raccogliere in un
sacchetto di plastica.
«Mpf!»
sbuffò in risposta, incrociando le braccia al petto e cominciando a
fissare la
sua attenzione fuori dal finestrino.
La
strada sterrata che portava a casa mia cominciò in quell’esatto
istante, ed
avendo una semplice Panda un po’ arrugginita, Mario dovette sterzare un
paio di
volte in più per evitare le voragini presenti su quella strada
malandata.
«Chi
ti ha dato la patente, un ubriaco?» disse Simone, dopo aver battuto la
testa
sul tettuccio dell’auto perché era troppo alto per quella macchina.
«Simone!»
ringhiai, rimproverandolo.
Mario
ridacchiò. «Sei un topo di città, amico. L’aria di campagna è un po’
troppo
pulita per i tuoi polmoni pieni di smog, right?»
Fissai
malamente pure Mario. Cos’era? Una guerra al testosterone?
«Evidentemente
l’aria rarefatta qui sui monti di lillà ti ha assottigliato quel poco
cervello
che avevi, man,» sibilò subito
Simone. «Sarai abituato a trattare con le pecore e le mucche, ma non
con gli
esseri umani.»
«Simone,
taci!» gli urlai, prima di dover litigare sia con l’uno che con l’altro
Mario
però sembrava averla presa con filosofia. «Ven, ma davvero stai con
questo
tizio? Cioè, d’accordo che è un calciatore e tutto il resto… ma non ti
ci
facevo…» mi rimproverò, sogghignando.
Ovviamente
aveva riconosciuto il mitico Simone Sogno senza che gli spiegassi che
diavolo
di lavoro facesse il mio quasi-ragazzo-barra-amante-barra-cliente.
«Non
stiamo insieme!» rispondemmo prontamente all’unisono io e Simo.
Il
mio migliore amico si voltò, senza mai perdere la concentrazione alla
guida, e
i suoi occhi blu incrociarono prima i miei, poi quelli dell’altro
presente
nell’auto.
Okay,
magari io e Simone stavamo tentando di darla a bere a chiunque, persino
a noi
stessi, ma Mario aveva una sorta di superpotere, ce lo aveva sempre
avuto, sin
da quando eravamo piccoli, ed ovviamente ci aveva sgamati.
«Viennetta,
vuoi mentire a me? Sul
serio?» ridacchiò.
«Viennetta?»
Sbuffai.
«È il soprannome che mi ha affibbiato quando avevamo cinque anni,
perché il mio
nome era troppo difficile, vero Mammio?» lo presi in giro anche io.
Ridemmo
per i successivi cinque minuti, mentre sentivo lo sguardo di Simone che
mi
sondava la nuca. La sua aura aveva creato una sorta di alone nero
attorno a lui,
quasi come quello dei cartoni di animazione.
«Le
piaceva tanto quel gelato. Ti ho chiamato Viennetta, Ven, perché una
volta te
ne sei finita una confezione intera!» infierì ancora.
«Perché
la cosa non mi stupisce?» disse sarcastico Simone.
«Zitto
tu!» lo fulminai, imbarazzata.
La
conversazione stava raggiungendo vette davvero imbarazzanti, e se non
avessi
voluto finire a ricordare gli anni del liceo insieme a Mario, sarebbe
stato
meglio cambiare discorso, e alla svelta!
«Hai
composto qualcosa di nuovo in tutto questo tempo?»
Inversione
di rotta completa!
E
così Mario cominciò un excursus sui progressi che aveva fatto col suo
gruppo e
alle serate che aveva in programma in quel lungo week end nei dintorni
del
Lazio.
«Stasera
suoniamo al NewPort, che ne dici di venirmi a sentire, mh?» mi propose,
mentre
svoltò una curva un po’ insidiosa per mostrarci finalmente le mura
della mia
vecchia casa.
«Vedremo,»
gli sorrisi, poi Simone si sporse violentemente tra i due sedili come
se
volesse uscire fuori dal parabrezza.
«M-Ma
che…?» blaterai, indignata.
«Quella
è casa tua?»
Simone
vide la tenuta dei miei genitori che era piuttosto, sì, abbastanza
grande in
effetti, se paragonata ai miseri appartamenti di Londra.
«È
casa dei miei genitori,» puntualizzai.
Mario
sogghignò. «Pensavi di esserti messo con una campagnola che viveva in
una
vecchia soffitta sudicia e polverosa?»
Ovviamente
frenai Simone prima che potesse strozzare Mario con le sue stesse mani.
Parcheggiata
la Panda sul vialetto di casa Donati, scendemmo per recuperare le
valigie.
Simone perse parecchio tempo ad osservare intorno.
Era
una bella giornata, nonostante la temperatura rigida di Gennaio, ma il
sole di
quella mattina illuminava i vasti campi arati per la semina che sarebbe
arrivata di lì a qualche mese.
«Ma
non finisce più?» mi chiese lui, chinandosi a raccogliere il manico del
trolley.
Sorrisi
ingenuamente. Alle volte pareva così puro e bambino che mi spiazzava
questo suo
comportamento.
Mi
avvicinai e gli presi un braccio, facendogli indicare l’orizzonte.
«Vedi
quella macchia di alberi laggiù?»
Simo
annuì, così gli spostai il braccio sino al confine opposto. «Ecco,
conta anche
quel pezzo di terra laggiù e quelli sono all’incirca i confini della
tenuta.»
Gli
occhi di Simone si allargarono più del possibile, diventando così scuri
da
riflettere il cielo limpido nelle sue stesse iridi.
«Sorpreso,
topo cittadino?» ridacchiò Mario, facendo strada all’interno della casa.
Notai
come Simone lo fissò con un certo fastidio.
«Certo,
ormai è abituato a fare da Cicerone.»
«Cosa
intendi?»
Scrollò
le spalle con indifferenza. «Nulla. Si comporta come se questa fosse
casa sua.
E non lo è. È la tua, dei tuoi genitori, non di un perfetto sconosciuto
con le
basette alla motociclista di Harley Davidson.»
Gelosia
portami via.
«Ma
smettila!» sbottai.
L’idea
che in quel momento mi terrorizzava di più, in realtà, era l’incontro
tanto
atteso con i miei genitori. Ero certa che avrebbero preso d’assalto la figliol prodiga tornata a casa per
passare il resto delle vacanze con la famiglia, ma ero anche più che
sicura che
avrebbero assalito, non metaforicamente, il povero Simone.
Entrai
in salotto, lasciando la valigia nell’ingresso e mi diressi subito in
cucina.
Sapevo
di trovare mia madre lì. Lei era sempre
ai fornelli, sia che cucinasse il pranzo o la cena, che facesse le
marmellate,
la conserva per l’inverno, che scaldasse il sego per i formaggi…
Il
suo intero mondo ruotava attorno alla cucina.
E,
infatti, la trovai proprio lì, con mestolo e pentola tra le mani,
mentre Mario
sorrideva e le raccontava qualcosa di estremamente divertente.
«TE.SO.RO!»
trillò non appena mi vide.
Lanciò
tutto all’aria, schizzando di sugo perfino il povero Mario, e mi corse
in
contro stritolandomi in uno dei suoi abbracci brevettati che toglievano
l’ossigeno.
Eh
sì. Mia madre non era proprio una persona esile, diciamo. Lo era stata,
certo,
alla mia età di sicuro, ma con gli anni aveva acquistato qualche chilo
in più,
favorito soprattutto dalla sua favolosa cucina.
«M-Mamma…
s-sto soffocando…» le dissi, coi polmoni completamente svuotati d’aria.
Subito
si scostò. «Oh, sì, sì, scusami! Com’è andato il viaggio? È atterrato
in
ritardo? Sei stanca? Vuoi andare a riposare?»
Ovviamente
quelle erano le domande a raffica post-arrivo che soleva rifilarmi
tutte insieme
in un nano-secondo.
Pretendeva
una risposta a tutte queste domande.
«Il
viaggio è andato bene, sì. Non ha fatto ritardo l’aereo per fortuna e
forse
andrò a riposare più tardi. Che stai cucinando?» tergiversai.
Mia
madre scrollò le spalle e agitò il mestolo. Evitai le macchie di sugo
come Neo
aveva evitato i proiettili in Matrix.
«Solo
una cosetta per pranzo… a proposito!» se ne uscì. «Il tuo ospite mangia
tutto?
Non è che è uno di quei tizi strambi venuti dalla città che non
mangiano roba
vivente o uccisa, vero?»
«Vegetariani,
mamma. No, Simone mangia tutto.»
Soprattutto
i biscotti al
cioccolato,
pensai ma frenai la lingua altrimenti
mia madre ne avrebbe sfornati per un esercito intero.
«Si
può?»
Ed
eccolo. Simone fece la sua entrata trionfante con il metro e novanta di
altezza, per poco non sfiorava il soffitto a botte della cucina.
Gli
occhi di mia madre divennero grandi come piattini da caffè.
Ammetto
che messi vicini, io e Simone sembravamo formare una sorta di “Io”. La
“I” era
lui, magro e alto come un palo della luce, mentre, ahimé, la “o” era la
sottoscritta. Bassa, un po’ morbida ma soprattutto minuscola se messa a
confronto con il calciatore.
«C-Certo!
Caro, entra pure!» si rinsavì mia madre, per fortuna. «Piacere, io sono
Francesca, la mamma di Venera, ma questo tu già lo sai. Hai fame? Posso
prepararti un po’ di porchetta se vuoi…»
«Mamma,
sono le dieci del mattino!» sbottai, imbarazzata.
Possibile
che mia madre risolvesse tutto con del buon cibo servito ad orari
improbabili?
Lei
mi fissò incredula. «E allora? Hai sempre mangiato la porchetta di
mattina,
tesoro. Ricordi? Tuo padre ti chiamava Oink-Poink.»
Ed
ora potevo anche prendere la vanga in giardino e cominciare a scavarmi
la
tomba.
Mario
ridacchiava come uno scemo.
«Mamma!»
gridai, all’apice dell’imbarazzo.
Promemoria
per il futuro:
dire a tutti quelli che conosco che sono orfana, non ho genitori, e
soprattutto
non ho una madre che riesce a metterti in imbarazzo di fronte ad un tuo
cliente, nonché amante provvisorio.
«Ammetto
di essere tentato…» ridacchiò Simone, fissandomi divertito. «Solo che
preferirei aspettare, ho ancora un po’ di mal d’aereo.»
Sì,
certo, come no!
Ci
sedemmo attorno al tavolo della cucina, mentre mia madre continuava
imperterrita a preparare il sugo.
«Dunque,
che lavoro fai caro? Studi?» gli chiese, ovviamente invadendo la
privacy senza
alcun riserbo.
Simone
cercò prima il mio sguardo, poi s’imbatté in quello di Mario.
Mia
madre, che di calcio sapeva poco o niente, non si accorse nemmeno di
avere di
fronte uno dei calciatori italiani più famosi all’estero.
«Diciamo
che Simone è uno sportivo…» ridacchiò il mio migliore amico, beccandosi
un’occhiataccia dal calciatore.
«E
come vi siete conosciuti? Da quanto state insieme?»
«Whoa!
Mamma, vacci piano con le domande. Primo, non tartassare le persone
come tuo
solito; secondo, dagli tempo di respirare.»
Simone
sorrise. «Tranquilla, non mi dà fastidio,» mormorò. «Dunque, gioco a
calcio per
vivere e mi riesce piuttosto bene, devo ammetterlo,» qui ci fu
l’occhiata di
gelo tra lui e Mario, con tanto di sbuffo da parte mia. «Ho conosciuto
Venera
perché mi serviva un avvocato per un piccolo disguido giudiziario, e il
suo
studio mi ha assegnato lei…»
«Veramente
siamo in collaborazione, io e James.»
«Chi
è ‘sto James?» domandò subito mia madre, che appena udiva un nome
straniero
andava in allarme preventivo.
«Un
pallone gonfiato,» rispose subito Simone.
Gli
diedi una forte gomitata nel costato che lo fece lamentare. «Zitto tu!»
«Venera!»
«Mamma!»
«Dio
che male!»
«Venni-Anna
tutta panna!»
La
voce di mio padre sovrastò tutte le altre e ci voltammo all’unisono.
Vedere mio
padre dopo tutto quel tempo passato lontano dalla famiglia, mi fece
salire un
groppo in gola.
«Papà!»
e corsi verso di lui, abbracciandolo.
Mi
sentii sollevare da terra, proprio come quando faceva da bambina, e
girare
attorno alla cucina come una trottola.
«Come
stai?» mi chiese infine, mettendomi giù.
«Benissimo,»
gli sorrisi.
«Caro,
tua figlia ha portato un ospite. Fa il giocatore di pallacanestro, o
qualcosa
del genere…» disse, ma fu quando gli occhi di Alberto Donati e Simone
Sogno
s’incontrarono, che ebbe inizio la più bella storia d’amore mai
raccontata.
«Tu
sei…» e non riuscì a completare la frase.
Mio
padre, a differenza mia e di Celeste, amava follemente il calcio. Aveva
fatto
installare un mega-schermo in una sala adibita solo alla sua passione
folle per
quello sport. Da giovane aveva anche giocato nelle giovanili della
Roma, ma per
un infortunio al ginocchio aveva smesso.
Quando
si trovò davanti uno dei giocatori più famosi del mondo, rischiò di
avere un
infarto.
«Piacere
signore, mi chiamo…»
Corse
subito a stringergli la mano. «Dio mio non posso crederci!» sbottò,
quasi come
se Simone fosse improvvisamente diventato suo figlio. «T-Tu… T-Tu sei
Sogno…
Simone Sogno! Il più grande centro-avanti dell’Arsenal… in casa mia!
FRANCESCA!
Dio mio, guarda chi c’è nella nostra cucina!»
Mia
madre annuì poco convinta.
Finalmente
mio padre tornò a guardarmi, ed indicò Simone. Era troppo emozionato
per
chiedermi a parole com’era finito in casa sua un personaggio del genere.
Sbuffai
infastidita da tutto quel successo.
Mio
padre era mio, appunto. Non di
Simone, ma mio! «È una storia lunga…» tentai, un po’ malamente.
«Caro,
questo ragazzo è cliente di nostra figlia. Lei è il suo avvocato!» si
pavoneggiò la mamma.
Alberto
per poco non strabuzzò gli occhi. «D-Davvero?»
«Perché
lui ha qualche causa in corso… magari calcio-scommesse…» s’intrufolò
Mario,
solo per il gusto di prendere Simone per i fondelli.
Ovviamente
il calciatore abboccò all’amo. «Non gli dia retta, c’è dell’altro oltre
il
fatto che sua figlia è il mio avvocato…» disse.
Lo
pregai con lo sguardo, cercai di fargli cenno di “no” con la testa, che
non era
necessario spiattellare tutta la verità in un solo momento, anche
perché non
sapevo come avrebbe reagito mio padre.
«Io
e sua figlia usciamo insieme, adesso,» sentenziò, passandomi un braccio
attorno
alle spalle e spiaccicandomi la faccia sul suo petto, fissando di
sbieco Mario.
Simone
geloso non era per nulla
divertente!
Mio
padre prima spalancò gli occhi per la sorpresa, poi sorrise, poi quasi
pianse,
ed infine si decise a parlare. «Ben venuto a casa, figliolo!»
e si prese sotto braccio Simone portandoselo dietro
quasi come se fossero diventati improvvisamente migliori amici.
«F-Figliolo?»
balbettai.
«Tuo
padre aspettava da tanto un genero degno di questo nome, tesoro,»
rispose
distrattamente mia madre, che non capiva cosa ci fosse di così speciale
in
Simone oltre l’altezza smisurata.
«Sarà
una vacanza piuttosto divertente…» ridacchiò Mario, con piacere.
Ora
mi trovavo ufficialmente tra due fuochi: da una parte dovevo tenere a
bada
Mario, che sapevo ne avrebbe combinata una delle sue per “testare” se
Simone
fosse adatto o meno alla sottoscritta, e dall’altra dovevo controllare
che mio
padre non mi mettesse in imbarazzo più del necessario.
Come
se fosse possibile dopo la
storia della porchetta…
«Ci
credi che tuo padre ha il pallone originale dei mondiali dell’82?»
disse Simone
tutto eccitato.
Era
seduto sulla sponda del letto, anche perché mio padre aveva insistito
tanto a
farci dormire nella stessa stanza, la mia vecchia
stanza poi.
«Mh-mh,
interessante…» gli diedi corda, piegando con accuratezza i vestiti
prima che si
sgualcissero rimanendo in valigia.
«E
il gagliardetto del 1929? Te l’ho detto?» continuò.
«Tipo
per la ventesima volta…»
«Oddio,
se soltanto mio padre fosse così appassionato di calcio come lo è il
tuo!»
disse tutto emozionato. «Abbiamo parlato per ore. Ore, ci credi?»
Cercai
il suo sguardo per un attimo e lo vidi tremendamente sincero. Forse
quella fuga
da Londra avrebbe giovato più a lui che a me, di questo ne ero sicura.
«Vedo
che non è poi così male l’aria di campagna, eh?» ridacchiai.
Simone
subito sfoderò il sorriso arrogante che mi faceva sempre rabbrividire.
«E come
la metti col fantastico piano di rientrare nelle grazie del tuo
meraviglioso
papà per farci dormire insieme, mh?»
Roteai
gli occhi. «Certo, perché era un tuo piano sin dall’inizio…»
«No,
però quando ha acconsentito, diciamo che mi sono venute certe idee in
mente…»
Frenai
subito i suoi bollenti spiriti. «Non lo faremo sotto lo stesso tetto
dei miei
genitori, intesi?»
Simone
mi guardò perplesso. «Vuoi farlo fuori? Io non monterò più sulla
sudicia
macchina di quel tuo amico, che tra l’altro non sopporto per niente…»
«Ma
davvero? Non me ne ero accorta… comunque, no, in questa vacanza non lo
faremo.
Per niente, non voglio rischiare di essere scoperta dai miei genitori.
Ho già
avuto la mia dose di imbarazzo in una sola giornata,» sentenziai.
Simone
mi restituì uno sguardo divertito. «I tuoi sono davvero simpatici,»
sorvolò
sull’argomento castità-durante-il-soggiorno-a-casa-di-Venera.
«Mh,»
borbottai, ripiegando le camicette. «Ne riparliamo quando dovrai
viverci per
ventiquattro anni a stretto contatto…»
Il
calciatore rotolò, letteralmente, sul materasso fino a raggiungermi e
mi fissò
dal basso verso l’alto con due occhi languidi. «È una muta richiesta?»
insinuò.
Per
poco gli occhi non mi rotolarono fuori dalle orbite. «Richiesta di
cosa, scusa?»
Si
stava sfiorando il ridicolo adesso?
Simone
prese a stiracchiarsi sul letto come un gatto, occupando tutto il
materasso e
rischiando di farmi cadere la valigia per terra. «Ehi!» lo redarguii.
«La
richiesta di passare il resto della vita insieme a te,» propose, furbo.
Ci
mancò davvero un soffio all’infarto. «Tu sei tutto suonato! Figurati se
io e te
potremmo sopportarci più dello stretto necessario.»
«Eddai,
che un po’ mi vuoi bene…» ridacchiò, punzecchiandomi con una mano come
avrebbe
fatto un gatto, per l’appunto.
«No,
per niente,» risposi sicura.
Lo
faceva di proposito a punzecchiarmi in quella maniera. Voleva che
ammettessi la
mia dipendenza da lui, il fatto che, volente o nolente, il suo
bell’aspetto mi
costringeva a comportarmi come una qualsiasi delle giraffone che si era
portato
a letto.
Con
l’unica differenza che io avevo un master.
Non
si scompose, anzi.
Si
alzò a sedere e cercò il mio sguardo serio, notando che proprio in quel
momento
stavo togliendo la biancheria intima dalla mia valigia. I suoi occhi
divennero
ancora più scuri ed io arrossii. Ci provai, davvero, a rimanere
impassibile di
fronte a quel Simone che diventava predatore, ma ormai avrei mentito
soltanto a
me stessa.
Dopo
che ci hai fatto sesso per
chissà quante volte…
Tre!
O forse quattro… non sapevo se quella volta nella vasca da bagno
contasse.
«Smettila,»
lo ammonii.
«Di
fare cosa? Stai facendo tutto da sola…» puntualizzò.
Sì
certo, come se non conoscessi ormai quello sguardo. «Ti ho detto che è
proibito, punto. Io avrò la mia stanza, tu avrai la tua e tutti vivremo
questa
“vacanza” nel migliore dei modi, per poi tornare tranquillamente a
Londra e
continuare a lavorare al tuo caso
di
dubbia paternità,» precisai.
Simone
sbuffò. «Guarda, sei talmente noiosa che me l’hai fatto ammosciare…»
«Dio,
come sei volgare!»
Simone
tirò fuori quel ghignetto che utilizzava soltanto i primi giorni di
convivenza,
quelli in cui cercava di farsi odiare per liberarsi della sottoscritta.
«Di
sicuro, so essere più gentleman di quel campagnolo…»
Roteai
gli occhi al cielo. «Possibile che tu non riesca a fare a meno di vedere cose dove non ci sono?» sbuffai.
Lui
fece spallucce. «Vorresti dire che non avevo ragione su James?»
«Cosa
c’entra James, adesso?»
Dovevamo
finire per litigare, ormai non c’era alcuna via di scampo. Quando
insinuava
cose che non esistevano, arrivavo ad un limite della sopportazione
inaudito.
L’avrei ucciso, era questione di millisecondi.
«L’avvocatuncolo
c’entra sempre,» concluse.
Posai
la pila di maglioni sul comodino e misi le mani sui fianchi. «Senti,
non puoi
paragonare Mario a James. Con lui è diverso,» poi mi corressi quasi in
automatico. «Con lui è stato
diverso,
ma Mario è il mio migliore amico, è come un fratello, perciò smettila
di
continuare ad insinuare cose che non esistono e che non stanno né in
cielo né
in terra.»
Simone
si alzò dal letto a sua volta, imboccando la porta. «Sappi solo che tu
non
c’entri nulla, io lo faccio perché quel tipo mi ha sfidato, ha
chiaramente
messo in dubbio la prestanza di Simone Sogno ed io non posso
tollerarlo. Non lo
permetto nemmeno a mio cugino, sangue del mio sangue, figurarsi a
quella
sottospecie di contadino.»
«È
un musicista,» precisai.
«Pifferaio
dei miei stivali,» detto questo uscì dalla mia stanza e si chiuse la
porta alle
spalle, sparendo chissà dove, visto che non sapevo nemmeno se i miei
gli
avessero davvero preparato una stanza a parte.
Conoscendo
mio padre, gli avrebbe
concesso la mia mano anche se fosse stato un serial killer. Se era in
grado di
far rotolare un pallone, era di famiglia.
«Ultima
precisazione,» disse Simone, tornando a fare capolino nella camera.
«Mh?»
Alla fine non ero riuscita nemmeno a svuotare completamente la valigia
per
colpa di quel calciatore da strapazzo e le sue assurde fisime mentali.
«Con
o senza permesso dei tuoi genitori, stanotte sgattaiolerò nel tuo
letto.» Ed
aggiunse uno di quei sorrisi furbi in cui alzava soltanto uno degli
angoli
delle labbra.
Nemmeno
ebbi la forza di lanciargli un cuscino dietro, perché ormai ero
abbastanza
sicura che avrei fatto lo stesso se fossi stata al suo posto.
Scacco
matto.
La
sera ci riunimmo tutti a cena, salvo “Mister calciatore dei miei
stivali”, che
arrivò con ritardo principesco perché aveva bisogno di calmare i nervi
sotto la
doccia.
«Scusate,
ma il jet-lag mi ha distrutto,» commentò.
«Ma
quale jet-lag, deficiente!» lo rimbeccai subito. «Tra Roma e Londra non
c’è
manco un’ora di differenza e tu tiri fuori la storia del fuso orario?»
Mia
madre mi fissò scandalizzata.
A
mio padre venne quasi un infarto, tant’è che si posò una mano sul
cuore. «Non
sa quello che dice, scusala,» gli sentii sussurrare piano a Simone.
Dio,
che odio!
Simone
mi sorrise beffardo. «Sarà, ma io mi stanco facilmente. Non posso
permettermi
di tornare a Londra non al pieno delle mie forze. Insomma, c’è un
girone di
ritorno del campionato che è abbastanza tosto…» sostenne, come se fosse
una
scusa plausibile.
«La
prima è contro il Manchester, se non sbaglio.»
«Papà!»
ringhiai.
Invece
di essere dalla mia parte, la mia famiglia sembrava non fare altro che
pendere
dalla parte di Simone, ignorandomi completamente.
«Tesoro,
potevi dircelo che il tuo fidanzato era così cagionevole…» cinguettò
mia madre
preoccupata.
Dire
che avevo gli occhi ridotti a due misere fessure sarebbe stato solo un
eufemismo. Finii di mangiare i miei piatti in silenzio, tanto qualsiasi
cosa
avessi detto sarebbe stata ribattuta senza darmi il minimo di sostegno.
«Non
è il fio fifanfafo!» sbottai, addentando una patata al forno intrisa di
olio.
Calorie,
uccidetemi pure prima che lo faccia quel cretino di Simone!
«Tesoro…»
mia madre era rivoltata dal fatto che stessi mangiando come un
camionista
disperso nel Sahara per una settimana. Non m’importava!
Quel
ritorno a casa per le feste natalizie si stava trasformando in un
incubo.
«Stasera
dove lo porterai di bello?» mi domandò mio padre, con sincero
interesse. «C’è
il campetto comunale, di notte è illuminato e dicono sia un posto molto
romantico…» sospirò.
Simone
sorrise. Sembrava sincero questa volta.
«E
pensare che ancora ricordo il primo appuntamento con suo padre,»
cominciò a
raccontare la mamma. Roteai gli occhi al cielo soltanto perché avevo
sentito
ripeterle quella storia un milione di volte. «Mi ha portato ad una
partita di
pallone, pensa!» ridacchiò.
«Come
se ci fosse posto più romantico dei sedili sporchi dello Stadio
Olimpico…»
borbottai.
«Gli
stadi di Londra sono più puliti,» aggiunse mio padre, come se il
problema fosse
davvero l’igiene dei seggiolini.
Simone
ci fissava l’un l’altro molto divertito e soddisfatto. «Anche il nostro
primo
appuntamento, si può dire, è avvenuto in uno stadio. Ricordi, mh?»
Divenni
paonazza. Non c’era altro modo per descrivere il io colore in quel
momento.
Rossa,
bordeaux, color pomodoro maturo? Tutti sinonimi perfetti. Dovetti
abbassare lo
sguardo, tossire e fingere di bere una sorsata d’acqua per riuscire a
cambiare
discorso.
Ovviamente
fallii.
Mia
madre era fuori di sé dalla gioia. «Oddio, Vennie, racconta, racconta!»
Cercai
di riacquistare una normale respirazione, poi guardai Simone di sbieco.
«Punto
primo, non era un appuntamento…» sibilai.
«Punto
secondo,» mi interruppe lui. «Sei venuta a guardarmi giocare e mi hai
fatto un
discorso incoraggiante a metà partita. Non era un appuntamento
ufficiale, ma è
come se lo fosse stato…» insinuò.
Sentii
un gridolino acuto provenire alla mia sinistra e pensai si fosse rotta
la
valvola del termosifone, oppure che si fossero dimenticati un bollitore
del the
sul fuoco… invece era mia madre che produceva quella specie di suono
assordante.
«Oddio,
che cosa romantica!» cinguettò entusiasta.
In
quel momento desiderai con tutto il cuore di avere l’anello di Bilbo
Beggins e
poter sparire da quella cucina in un battito di ciglia.
Potevo
umiliarmi più di questa mattina con la storia della porchetta?
Ovviamente sì.
Mi
alzai di scatto facendo strusciare sonoramente la sedia dal pavimento.
«Okay,
andiamo o faremo tardi!»
Simone
mi fissò confuso. «Tardi per co-che… ahi!»
Lo
afferrai prepotentemente per la maglietta e tentai di farlo alzare, ma
il suo
metro e novanta mi impediva la maggior parte dei movimenti.
«Ricordi?
Dobbiamo uscire o ti perderai le magnificenze di questa città di
notte!» dissi
con ovvietà, ma il mio tono era palesemente sarcastico.
«Vennie,
ma Simone deve ancora finire il pasto…» protestò mia madre.
Simone
sfoderò uno sguardo da cucciolo. «Non ho nemmeno assaggiato le patate…»
Fissai
furente prima lui, poi mia madre ed infine le patate. Presi il
cucchiaio e con
forza lo caricai di tuberi per poi schiacciare le guance di Simone,
facendogli
aprire la bocca, e rimpinzandolo di patate quasi stessi riempiendo il
tacchino
per il Ringraziamento.
«Finirai
per soffocarlo!»
«Dio
mio, Alberto, ferma tua figlia!»
«Contento?»
sibilai, vedendo il volto Simone tutto sporco d’olio e lievemente
terrorizzato
da quello che avrei potuto fargli se avesse protestato ancora. «Vuoi
qualcos’altro?»
Lui
scosse violentemente la testa.
«Mamma.
Papà,» dissi solennemente. «Io e Simone usciamo, non aspettateci
alzati.»
Praticamente
ci scapicollammo fuori dalla porta di casa, uscendo nel portico
illuminato
debolmente dai lampioni che costeggiavano il giardino.
Simone
era palesemente imbronciato.
«Scusa,
ma non ce la facevo più a reggere tutta quella tensione. Mi sembrava
stessero
facendo il terzo grado,» mi giustificai.
«Volevano
soltanto sapere cosa avevi fatto tutto questo tempo lontana da casa,
non mi
sembrava chiedessero molto.»
Odiavo
da morire quando mi prendeva in giro, ma ancora di più detestavo l’idea
che
avesse ragione. Quando succedeva – di rado, s’intende – il mio
inconscio faceva
di tutto per trovare un escamotage, una qualsiasi scusa valida per
vanificare
le sue teorie.
«Sono
solo impiccioni, soprattutto mia madre. Non hanno il diritto di
intromettersi
nella mia vita privata, e soprattutto in quella del mio cliente.»
«…che
casualmente, almeno per metà, combacia con la tua,» si sentì in dovere
di
aggiungere.
Non
dissi altro.
Come
al solito anche con quelle quattro parole messe in fila a stento,
riusciva
comunque ad essere dalla parte della ragione.
«Dovremmo
pensare seriamente a risolvere questo caso,» gli ricordai.
«Direi
che se non ci riesci tu, sono completamente fottuto,» ridacchiò. «Io?
Padre? Mi
ci vedi davvero con un neonato tra le braccia?»
«Un
ragazzino che cresce un altro ragazzino… la fine del mondo,» ironizzai.
«Ah.
Ah. Ah,» finse lui. «Dunque, dobbiamo congelarci oppure hai intenzione
di
andarlo a vedere davvero quel campetto da calcio?»
«Ma
non ci penso neppure!» esclamai. «Basta calcio, ho un’idea migliore…»
E
l’idea migliore ovviamente non
rientrava nei gusti del bel calciatore, e quando mise piede nell’unico,
sperduto, pub del paese per poco non gli prese un infarto. Considerato
che al
bancone del bar ci fosse Mario, con tanto di canottiera scollacciata a
causa
del caldo del locale, macchie d’acqua sparse sulla maglia e capelli
ricci e
fluenti completamente scompigliati, sentii chiaramente i denti del
calciatore
stridere l’un l’altro.
«A
questo punto penso sia meglio tornare a casa, o faremo impensierire i
tuoi,»
tentò.
«Simo’,
sono le dieci di sera… non le due!» lo rimproverai.
«Eddai,
prima che ci veda! Altrimenti mi toccherà passare quasi dodici ore in
compagnia
di quel tuo amico primitivo, sommandoci anche la mattinata,» si lagnò.
«Come
sei scorbutico, Mario è fantastico!»
«E
allora potevi evitarmi questo supplizio e lasciarmi a Londra.»
«Nessuno
ti ha obbligato a venire.»
Simone
sfoderò un sorrisetto furbo. «Davvero? Vuoti che ti ripeta le esatte
parole di
quella notte?»
«Stronzo.»
Per
fortuna proprio Mario venne a salvarmi da quella situazione che sarebbe
potuta
precipitare da un momento all’altro.
«Ehi!
Ven!» urlò, dall’altro capo del pub.
«Adiamo
a salutarlo, su. Non fare il cafone…» puntualizzai.
Ovviamente
sentii una serie di imprecazioni indirizzate al mio migliore amico ma
cercai di
non dar loro peso. Ci sedemmo sugli sgabelli proprio di fronte alla
postazione
di Mario.
«Che
si dice? Cosa c’era per cena?» s’informò subito, sorridendo sprezzante
a Simone
che gli rifilò unicamente un’occhiataccia.
Feci
spallucce e sbuffai, soprattutto ripensando a ciò che era successo.
Altro che
terzo grado, mi chiedevo se i miei genitori, in una vita passata,
fossero state
delle spie del KGB.
«Le
solite cose… sai, mia madre fa sempre da mangiare per un esercito,»
commentai.
«Sì,
peccato che non abbia avuto il piacere di assaggiare tutto,» protestò
subito
Simone.
Mario
lo guardò sorpreso. «Lascialo perdere, è arrabbiato perché l’ho
“strappato” dal
suo degustare le patate al forno,» dissi, con ovvietà.
Il
mio migliore amico scoppiò a ridere. «Le patate al forno di Carla
Vanoni sono
qualcosa di sublime, ti rimangono attaccate al palato quasi fossero
farcite di
burro caldo e denso…»
Il
che non era da escludere, visto il vizio di mia madre di stra-condire
qualsiasi
pietanza avesse davanti agli occhi. Mi ricordo di una cappuccina che di
verde
alla fine non aveva più nulla, visto che nell’insalatiera c’erano
finite olive,
mais, carote, cetrioli, sedano, olio quasi a far galleggiare il tutto e
aceto
da farti strizzare gli occhi e tossire.
Mi
accorsi di Simone che pasteggiava mentre sentiva Mario descrivere
quella
pietanza con tanta accuratezza. Gli scorsi persino un rivolo di bava
all’angolo
delle labbra…
Poi
il suo sguardo inquisitorio si posò su di me. «La prossima volta non mi
trascinerai via così facilmente da tua madre!» minacciò, puntandomi il
dito
contro.
Incrociai
le braccia al petto. «Sposatela, allora,» lo rimbeccai.
Mario
nel frattempo si godeva i nostri battibecchi mentre preparava alcuni
cocktail
per i clienti del pub.
Simone
mi fissò di sbieco. «Lo farei se non avesse sposato tuo padre,
quell’uomo ha la
maglietta autografata di Roberto Baggio quando sbagliò il rigore nei
mondiali
USA del ’94!»
E
qui intervenne il mio migliore amico. «Dio, quanto gliela invidio!»
Forse
avevano trovato una passione in comune: quel benedettissimo gioco che
io tanto
detestavo.
«Certo,
interessante,» dissi, fingendo uno sbadiglio.
«Vennie,
con tutto il rispetto, ma è come se tuo padre possedesse la penna con
cui fu
firmata la dichiarazione d’indipendenza americana!» mi suggerì Mario,
ma la
cosa mi parve alquanto esagerata.
«Per
una volta potrei darti anche ragione,» gli rispose Simone, fissandolo
per la
prima volta come se non volesse mangiarselo per colazione.
Mario
gli restituì uno sguardo altrettanto neutro. «Io ho sempre ragione,»
gongolò.
Ecco
il nocciolo della questione, il nodo a cui sarei dovuta arrivare
nell’immediato. Il fatto che quei due non si sopportassero era chiaro,
come lo
era il motivo per cui Mario fosse il mio migliore amico fin da quando
avevamo
un anno ciascuno.
Si
somigliavano troppo quei due: nei comportamenti, nel modo di parlare,
in quello
di atteggiarsi. L’uno era un calciatore, l’altro un musicista, ma per
il resto sarebbero
stati come due gemelli separati dalla nascita.
«Bene,
cosa vi posso offrire, ragazzi?» chiese Mario, stemperando
quell’atmosfera di
calma che sembrava quasi irreale. «Aspettate, siete venuti a piedi
vero?»
s’informò.
«Mi
ci ha costretto,» brontolò subito Simo.
«Dannazione,
sono due isolati… DUE. Io non so come tu possa definirti uno sportivo,
se ti
lamenti di un chilometro a piedi,» sbuffai contrariata.
Mario
ridacchiò.
«Direi
due birre, grazie. Comunque non è il fatto di essere sportivi o meno,
solo che
ormai sono abituato ad un certo tipo di comodità,»
puntualizzò Simone, fissandomi serio.
«Certo,»
rincarai la dose. «Dormi fino alle dieci del mattino, non pulisci e
mandi in
giro per casa le tue giraffone mezze nude.»
Le
birre per poco non caddero di mano a Mario. «G-Giraffone?»
«Fattelo
spiegare dal ragazzino qui…» sbuffai.
«È
storia vecchia, e lo sai,» intervenne subito Simone. «Odio quando mi
chiami
così, piantala.»
Arrivò
il momento adatto per punzecchiare Simone. Era da un po’ di tempo che
non mi
divertivo a burlarmi di lui, e adesso avevo anche Mario dalla mia parte.
«È
la verità.»
Mario
servì le birre in due bei boccali di vetro, così iniziai a sorseggiarla
senza
staccare lo sguardo da quello cupo di Simone.
«Fatemi
capire bene,» s’intromise il mio migliore amico. In seguito indicò il
calciatore. «Tu quanti anni hai, scusa?»
La
questione dell’età di Simone era qualcosa di cui non andava
estremamente fiero.
Seppur fosse uno dei calciatori più giovani e più famosi d’Inghilterra,
questa
cosa di essere etichettato come “ragazzino” lo faceva infuriare.
«Fatti
i cavoli tuoi, lavapiatti,» sputò fuori.
Sperai
che Mario non reagisse troppo d’impulso, e per fortuna lo giudicai
bene.
Sorrise furbo al calciatore, poi cominciò a lucidare alcuni boccali.
«Da questa
risposta, presumo che la cara Vennie si sia fatto un toy-boy.
Giusto?» si rivolse alla sottoscritta.
Beh,
forse avevo fatto male i miei calcoli.
«Non
è il mio ragazzo, chiariamo questa cosa una volta per tutte. Simone è
qui come
mio cliente, mi sto occupando del suo caso, condividiamo l’appartamento
perché
gli affitti erano troppo cari… tutto qui,» tagliai corto.
Mario
mi sorrise beffardo. «E allora cosa ci fa qui?»
«Mh?»
domandai stranita.
«Il
pastore vorrebbe sapere per quale motivo sono qui se non in veste di
tuo “non
ufficiale” uomo di letto,» rincarò la dose l’altro.
Già,
quello che di sicuro avrebbe dormito in un’altra stanza, se non
addirittura in
un’altra casa!
«Uomo
di cosa? Ma voi siete entrambi fuori!» sbottai.
Sia
Mario che Simone sembrarono abbastanza soddisfatti di avermi messo in
completo
imbarazzo. Ero stufa di essere il giullare di ogni situazione, sia a
casa, con
i miei, sia qui con gli amici. Continuai a sorseggiare la birra e a
linciarli
entrambi.
«Dunque,
cosa avete da fare domani mattina?» chiese Mario, servendo due Sex on the beach alla ragazza che subito
li andò a servire ai tavoli.
Guardai
prima Simone, poi Mario. «Dormire.» «Lavorare.» dicemmo all’unisono io
e il
calciatore. Due risposte ovvie da due personaggi altrettanto ovvi.
Mario
sorrise. «Bene, allora non vi dispiacerà accompagnarmi a fare una
corsetta in
giro per il paese, almeno così avrò la scusa di fare da Cicerone.»
«Io
lo conosco già, il paese,» brontolai. L’idea di andare a correre era
totalmente
fuori discussione, soprattutto perché non facevo un po’ di moto da
quando avevo
superato il master a Cambridge.
«Io
voglio dormire…» si lagnò Mr. Attività.
Il
mio migliore amico adottò il ricatto, come sapeva ben fare da tempo.
Non c’era
modo di trattare con due tipi ostinati come me e Simone.
«Vorrà
dire che dovrò spargere voce tra il paese di un certo calciatore e una
certa
avvocatessa che intrattengono una specie di relazione semi-illegale?»
«Sei
un traditore, altro che migliore amico!» sbottai.
«Fortuna
che te li sai scegliere gli amici, eh?» mi apostrofò Simone.
Mario
si godette la scena, quasi come se avesse appena vinto alla lotteria.
«Allora
vi aspetto domani alle 7. Passo sotto casa di Vennie.»
«Ma
la sera non fa buio presto, qui?» s’informò Simone.
«Alle
sette del mattino, idiota!» gli urlai addosso.
Simone
sgranò gli occhi quando ebbe realizzato che ciò comportava alzarsi
prima che il
sole fosse completamente sorto.
«Voi
due siete dei pazzi, io a quell’ora non mi sveglio nemmeno per andare
agli
allenamenti!»
Lo
fissai con un sopracciglio alzato. «Non avevo dubbi.»
«Allora
è fatta, a meno che Simone non si tiri indietro. Non so, magari non
regge il
ritmo di noi “gente di paese”,» gli disse, provocandolo.
Simone
assottigliò lo sguardo. «Il ritmo lo detto io. Domani alle 19 in punto.»
«Sono
le sette del mattino, porca miseria!»
Quella
notte rincasammo sul tardi. Alla fine avevamo passato quasi tutta la
serata al
pub di Mario, ed io ero rimasta pressoché tutta la sera a sorseggiare
birra
mentre vedevo quei due ringhiarsi a vicenda come se si stessero
litigando
l’ultimo pezzo di carne avanzato.
In
verità, sospettavo la ragione per cui il calciatore si comportava
guardingo nei
confronti di tutto l’universo maschile che mi girava intorno, alla fine
la
dinamica di pensiero degli uomini era piuttosto limitata.
È
geloso.
Per
quanto Simone potesse essere diverso da tutti i ragazzi con cui ero
uscita,
uomini che avevo conosciuto a Cambridge, oppure a Roma durante il
periodo
universitario, c’era quella caratteristica comune un po’ a tutti i
possessori
del cromosoma Y.
Celeste
una volta mi aveva detto di associare gli uomini a degli animali, e
proprio
come in natura essi si comportano in modo possessivo verso ciò cui
appartiene
loro: che siano cuccioli, territorio o compagne di vita.
E
così ero rimasta a sbuffare tutto il tempo in attesa che quei due
finissero di
linciarsi.
Premettendo
che Mario stuzzicava Simone di proposito, di tanto in tanto gli
lanciavo delle
occhiate espressive per suggerirgli di farla finita, almeno sarei
potuta andare
a dormire prima della “scampagnata” mattutina a cui avevo aderito
contro il mio
volere.
«Bene,
si è fatta una certa ora,» aveva annunciato d’improvviso il mio
migliore amico
e così finalmente ero scattata in piedi dallo sgabello su cui mi stavo
addormentando
tipo gufo di Bambi, e avevo
afferrato
Simone per il collo del maglione trascinandolo fuori dal locale senza
nemmeno
salutare Mario.
«Ehi,
aspetta!» mi brontolò dietro il calciatore, cercando di infilarsi il
cappotto e
camminare contemporaneamente.
Gli
rifilai un’occhiata gelida anche attraverso il buio di quella nottata.
«Muoviti,» ringhiai.
Simone
si vestì in fretta e furia seguendomi. Gli bastarono quattro lunghi
passi per
raggiungermi con quelle sue gambe chilometriche e mi fu subito al
fianco.
Rabbrividii
per l’umidità che circondava la zona, in aperta campagna, così di punto
in
bianco avvertii la sua mano posarsi sulla spalla e avvicinarmi a sé.
Scattai
subito sulla difensiva fissandolo torvo.
Simone
alzò un sopracciglio. «Oh, ma andiamo!» sbottò stanco. «Siamo andati a
letto
insieme fino a ieri pomeriggio ed ora ti scandalizzi se cerco di
tenerti al
caldo?» mi rimbeccò.
Cominciai
a mordicchiarmi il labbro nervosamente. Era una di quelle rare volte in
cui mi
trovavo a corto di parole nonostante fossi un’avvocatessa in erba.
«Ti
ho detto che non voglio che ci scambiamo effusioni in casa dei miei,»
precisai,
sicura.
Continuammo
a camminare fianco a fianco, ma ebbi la netta sensazione che con Simone
non era
ancora finita. «Teoricamente non siamo ancora dentro casa…» sussurrò
malizioso,
fissandomi con quegli occhi neri che riuscivano persino ad inghiottire
il buio
di quella notte.
Stavolta
il brivido che mi serpeggiò lungo la schiena non fu di freddo.
«Smettila,» gli
intimai. «Siamo venuti qui soltanto per svagarci, per far passare un
periodo di
tempo prima del processo che sono sicura ci impegnerà entrambi. Non
voglio
allarmarti, ma la tua cara Lizzie è
decisa a chiedere la tua mano pur di non far scoppiare lo scandalo sui
tabloid.»
Simone
si irrigidì. Mi accorsi soltanto allora che era una delle rare volte in
cui
parlavo con lui di Elizabeth Cloverfield. Era la controparte nel mio
primo caso
da assistente alla Abbott&Abbott ma con Simone non ne avevo mai
realmente
parlato.
Lui
aveva sempre sostenuto di averla sì abbordata quella notte, ma che
fosse finita
lì.
«Non
dovevo essere così diretta, scusa,» dissi, rimangiandomi l’ultima frase
detta.
Certe
volte la vecchia e cara acidità di Venera usciva fuori senza che
riuscissi a
controllarla pienamente, ma vidi Simone scrollare le spalle e infilarsi
le mani
nel cappotto lungo.
«Non
devi scusarti,» borbottò, sbuffando fiato caldo dalle labbra carnose.
«Hai
detto soltanto la verità, in fondo. Per quanto possa ricordarmi di
quella
notte, sono piuttosto sicuro di aver preso precauzioni, ma spesso e
volentieri
mi lascio prendere dalla passione e…»
Qui
i puntini di sospensione lasciarono cadere un silenzio che mi fece
arrossire.
Era ovvio che si riferiva a noi due, a quello che era successo la notte
di Natale
e a quello che sarebbe ancora dovuto succedere. Deglutii a fatica,
perché per
quanto avessi predicato bene all’inizio di tutta quella storia, alla
fine ci
ero caduta con tutte le scarpe.
Relazione
con il proprio collega, relazione con il proprio cliente e nessuna di
queste
due cose mi aveva minimamente fermata. Soprattutto la seconda.
«A…
A proposito di questo,» tentai di dire, ma ci trovammo inaspettatamente
sotto
il portone di casa Donati.
Simone
mi fissò aspettando che aprissi l’uscio per poi rifugiarci dall’umidità
che ci
aveva praticamente aggrediti quella notte.
Trafficai
con le cose che avevo dentro la borsa, facendo più rumore di quanto
avessi
previsto. Ero nervosa, sia perché il discorso che volevo intraprendere
era
sempre lo stesso, sia perché sapevo che non avrebbe portato da nessuna
parte.
«Eccole!»
dissi trionfante, mostrandogli il mazzo di chiavi.
Lui
mi restituì un sorriso che riuscì ad accartocciarmi il cuore come un
pezzo di
carta straccia. Mi afferrò la mano prima che potessi inserire la chiave
nella
toppa e mi fissò con quegli occhi neri.
Gli
occhi di un demone.
Mia
nonna mi ripeteva sempre da piccola i significati del colore negli
occhi delle
persone, ed ogni volta che giungeva il momento del colore “nero” lei mi
metteva
sempre in guardia.
“Mia
cara, gli occhi neri sono sintomo di coraggio, di forza e di sicurezza.
Essi
rivelano un grande desiderio di autoaffermazione e un forte bisogno di
mettersi
in mostra per paura di passare inosservati. Talvolta è sintomo di
durezza
d’animo e di freddezza.”
Ed
era proprio quella la descrizione che corrispondeva a Simone. Troppo
impegnato
a mettersi in mostra per poter lavorare davvero sulla propria
personalità,
troppo attento a compiacere gli altri, ad essere il migliore, a
cogliere le
sfide laddove si presentavano.
«Aspetta,»
disse serio, fissandomi.
Non
forzai la sua presa, perché dentro di me volevo sapere cosa aveva da
dirmi. Ora
ogni sua parola mi appariva piena di significato, quando prima tentavo
in tutti
i modi di non ascoltarlo. Lui che era stato la mia opportunità e adesso
era la
mia condanna.
Si
chinò senza dire nulla e catturò le mie labbra in un bacio casto,
appena
accennato. Mi sorrise, forse un po’ impacciato. «Adesso possiamo
entrare,»
aggiunse.
Per
quanto odiasse il mio continuo ciarlare e ripetere regole su regole,
aveva
ascoltato. Non volevo che ci fossero scambi di effusioni tra di noi
dentro casa
dei miei genitori, un po’ per rispetto verso di loro, e lui mi aveva
baciata
sulla soglia di casa.
Non
aveva infranto la mia regola.
Senza
pensarci due volte, mi aggrappai ai lembi del suo cappotto scuro,
alzandomi in
punta di piedi e cercando ancora le sue labbra. Un’ultima volta, per un
bacio
più profondo.
Continuavo
a ripetermi di essere devota al suo corpo, alla bellezza che
innegabilmente
Simone aveva, come tutta la famiglia Sogno, ma per quanto queste parole
continuavano a ronzarmi in testa, dentro di me sentivo che le carte
stavano
cambiando.
All’inizio
di quella partita avevo in mano una coppia di picche. Contavo di poter
bluffare,
vincere la mano utilizzando l’astuzia oppure passare quando ne avrei
avuta
l’occasione. Ora, invece, alla coppia di picche si erano aggiunte tre
carte di
cuori.
Full.
La
mattina seguente fui svegliata dal suo no sordo di qualcuno che bussava
insistentemente alla porta della mia stanza. Pensai si trattasse di un
incubo,
così mi voltai dalla parte opposta sotterrando la testa sotto il
cuscino.
Inservibile.
Il
rumore si fece più intenso e martellante.
«Che
diavolo vuoi!» ringhiai, e dopo nemmeno due minuti mi ritrovai Simone
già
vestito e pettinato nella mia stanza.
Avevo
gli occhi gonfi dalla sera prima, nonostante fossi abituata a
svegliarmi presto
per andare a lavorare, invece il calciatore sembrava fresco e profumato
come
una rosa. Eppure la mattina dormiva sempre fino a tardi.
«Ancora
non sei vestita?»
Guardai
l’orologio digitale che segnava le 06.55. In quel momento avrei
volentieri
soffocato Simone con il cuscino e se fosse avanzato del tempo, avrei
ucciso
anche Mario, perché no.
«Sai
a quante ferie ha diritto un tirocinante?» gli chiesi sbadigliando e
scendendo
dal letto controvoglia.
Simone
arcuò il labbro e fece spallucce.
«A
nessuna! Diciamo che questa breve pausa mi è stata concessa per grazia
divina e
tu e quel cretino di un musicista dovete togliermi delle preziose ore
di sonno
di bellezza per andare a lisciarvi il piumaggio!»
Sbattei
la porta del bagno con forza, in modo che potesse capire quanto fossi
infuriata.
«Non
l’ho proposta io questa cosa,» aggiunse lui dall’altra parte
dell’uscio. «E poi
a te non serve il sonno di bellezza…» sussurrò malizioso.
Schiusi
la porta soltanto per sorridergli. «Perché?» lo incitai.
Perché
sei già bellissima così.
Perché
non ti serve.
Perché
ti amerei anche se
passassi le notti in bianco a fare l’amore con me.
Simone
mi accarezzò il viso. «Perché quelle occhiaie ti si vedranno comunque,
e poi
l’età avanza. Ti suggerirei di cominciare ad usare la crema
anti-rughe,»
sentenziò obiettivo.
Si
allontanò gongolando prima che potessi lanciargli addosso tutto il
contenuto
del mio beauty-case.
Mi
preparai in fretta e furia, indossando un paio di pantaloni da
ginnastica che
risalivano al mio periodo da liceale. Preferii un giubbino impermeabile
alla
felpa che avevo trovato nel cassetto, visto che raffigurava una Hello
Kitty
enorme e spaventosamente rosa.
Scesi
in fretta, trovando Mario e Simone che si squadravano in silenzio.
«Buongiorno,
principessa!» ridacchiò il mio migliore amico e subito l’altro
“maschio” drizzò
la cresta in segno di sfida.
«Vacci
piano, bello,» ringhiò. «Siamo qui per correre o per chiacchierare?»
Posai
una mano sul petto di Simone, cercando di frenare i suoi spiriti
battaglieri.
«Calma, Mario mi chiama così da quando abbiamo visto insieme “La vita è
bella”,» gli spiegai.
Il
calciatore parve poco convinto.
«Senza
ulteriori indugi, partiamo?» propose il mio migliore amico.
Annuimmo
entrambi, io un po’ meno convinta in effetti.
Quella
giornata iniziò nel peggiore dei modi, e forse si concluse anche
peggio. Se
quello fosse stato uno dei capitoli della mia vita lo avrei intitolato Le dodici fatiche di Ven: la prima
sarebbe stata “sopportare Simone e i suoi attacchi di gelosia”.
Girammo
subito a destra, imboccando la piccola salita che conduceva al cimitero
del
paese. I due ragazzi schizzarono letteralmente in avanti, correndo
l’uno di
fianco all’altro e squadrandosi da capo a piedi. Nessuno di loro si
voltò a
sincerarsi delle mie condizioni.
Decisi
di acquisire un ritmo costante, lento certo, ma costante. Altrimenti
sarei
spirata dopo nemmeno due metri. Visto e considerato che non facevo
sport dal
lontano 2011, mi meravigliai quando, passata mezz’ora, avvertivo
soltanto un
po’ di stanchezza.
Davanti
a noi si stagliava una lunga salita irta di sassolini che rendevano la
corsa
più pesante e soltanto dopo averla superata avremmo svoltato sulla
destra per
proseguire lungo il Viale delle more.
Era chiamato così perché c’erano rovi di more ovunque e verso la fine
di
Settembre si vedevano tutte le anziane del paese che le raccoglievano
per poi
farne una deliziosa marmellata.
Non
potei nemmeno raccontare quell’aneddoto a Simone, perché lui e Mario
avevano
oltrepassato il viale continuando a correre come dei forsennati.
Rallentai
un po’ il passo fissando il sole. Dovevano essere le otto e mezza
ormai, a
giudicare dall’altezza dell’astro e al periodo dell’anno in cui ci
trovavamo.
Quelli
erano piccoli trucchi che mio nonno mi aveva insegnato da piccola.
Verso
la metà della salita, quando avevo ormai il fiato corto ed ero rimasta
completamente sola e abbandonata a me stessa, mandai mentalmente a quel
paese i
due ragazzi e cominciai a camminare.
Mi
presi alcuni momenti per riflettere, mentre il calore piacevole del
sole mi
scaldava le membra ancora intorpidite dalla corsa.
Cosa
conti di fare una volta
tornata a Londra?
Di
tanto in tanto, nei momenti di maggior stimolo, anche il mio Cervello
tornava a
farsi sentire con le sue domande ben poco mirate.
Direi
di ricominciare da dove ho
interrotto. Ho deciso che passerò molto più tempo in ufficio e molto
meno a
casa, in modo da rallentare questa cosa con Simone e non destare
sospetti.
Era
un piano perfetto. Sapevo che una volta tornati, sarebbe anche arrivato
il
risultato degli esami che Simone aveva fatto prima di partire. Esami
del DNA.
Davvero
credi ancora di non essere
completamente assuefatta?
Quella
domanda mi fece trasalire.
Se
il mio cervello avesse avuto un paio di occhi – e nella mia mente era
vestito
come Margaret Thatcher – a quest’ora li avrebbe roteati spazientito.
Sono
mesi che ti ripeti questa
cosa, che dici di lasciarlo, di prenderti una pausa, che sei devota
unicamente
al lavoro. Guarda in faccia la realtà, Venera. In fondo, io sono parte
integrante del tuo corpo e so come funzioni.
Continuai
a camminare, a passo più sostenuto.
L’adrenalina
della corsa aveva evidentemente surriscaldato il mio cervello che non
faceva
altro che inviarmi immagini ben poco piacevoli. Una verità con cui
dovevo fare
i conti da tempo.
Perché
non ne avevo parlato con Celeste? Per quale motivo continuavo a tenermi
tutto
dentro, nonostante ormai fosse chiaro pure ai sassi che mi stavo
lentamente
innamorando di Simone.
Innamorando.
Quella
era una parola pressoché sconosciuta nel mio vocabolario.
Di
Simone.
Quest’altra
era addirittura in arabo.
Mi
fermai un attimo per riprendere fiato, poggiandomi al tronco di un
albero.
Posai una mano all’altezza del petto, sentendo come il cuore galoppava
forte
battendo contro la gabbia toracica. Lì per lì pensai di avere un
infarto, ma
poi mi diedi della sciocca.
L’unico
dolore del cuore dei ventenni è il mal
d’amore.
Odiavo
quando le parole di mia nonna mi ridondavano nella mente insinuandosi
nelle
pieghe del tessuto come dei parassiti. E odiavo ancor di più il fatto
che
avesse maledettamente ragione.
Altro
che allontanamento, altro che separazione… ieri notte ne era stata la
prova.
Oltre quel corpo muscoloso e atletico c’era dell’altro, c’era un
ragazzo
cresciuto inseguendo un sogno a dispetto di ciò in cui credeva la sua
famiglia.
Un
ragazzo con un padre che non lo rispettava pienamente, che non gli dava
gioie e
soddisfazioni, un ragazzo che non aveva mai amato nessuno al di fuori
di sé
stesso.
«Venera?»
Una
voce femminile mi sorprese ed io mi voltai di scatto.
Riconobbi
una mia vecchia amicizia, prima di Celeste, di quando ero bambina.
«Elisa,
ciao!» sorrisi, avvicinandomi alla mia coetanea che, con un bastone
alla mano e
un carrello nell’altra, portava la spesa a casa.
Ci
salutammo e ci scambiammo i soliti convenevoli.
«Come
va? Tutto bene?» mi chiese. «Ho saputo che ti sei trasferita in
Inghilterra e
che sei un avvocato. Complimenti!»
Arrossii,
anche perché non ero abituata a sentirmi così al centro
dell’attenzione. «Non
sono ancora avvocato, ma faccio tirocinio in uno degli studi più
importanti di
Londra. Conto di diventare socia un giorno.»
Elisa
mi sorrise radiosa.
Ricordavo
ancora i nostri pomeriggi insieme a fingere di cucinare, di portare i
bambolotti dal dottore e a rassettare case invisibili.
«Tu,
invece? Che mi racconti?» le domandai, notando la spesa. «Aspetta, ti
do una
mano a portare almeno un sacchetto.»
«Grazie.»
E me ne porse uno.
Ci
incamminammo fianco al fianco risalendo il pendio per poi girare lungo
il viale
delle more. Elisa mi raccontò che al terzo anno dell’istituto agrario
aveva
incontrato Tommaso, e che dopo aver finito la scuola si erano sposati.
Lui
mandava avanti l’azienda casearia del padre, allevando le bufale da
latte. Lei
si era sempre occupata della casa, soprattutto dei loro figli.
«Figli?»
le chiesi stupita.
Elisa
mi sorrise. «Ne ho tre, due maschi e una femmina.»
Il
mio cervello fece rapido qualche calcolo e mi resi conto che a
ventiquattro
anni avere già tre figli faceva molto anni '20.
«Complimenti,»
aggiunsi nervosa.
Non
avrei mai voluto ammettere che forse era un po’ troppo giovane per
avere già
una famiglia così numerosa e lei parve intuire i miei pensieri.
«So
cosa stai pensando, Ven. Ti capisco,» asserì sincera. «Tu hai fatto le
tue
scelte, hai preso un aereo, hai studiato, sei andata in un altro paese
ad
inseguire i tuoi sogni d’indipendenza e di una carriera redditizia,»
snocciolò,
apparendo molto più saggia della maggior parte dei laureati di
Cambridge.
«Anche io ho fatto la mia. Amo Tommaso e ho amato ogni singolo bagliore
di vita
che lui mi ha donato, compresi i bambini che sono venuti dal nostro
matrimonio
forse un po’ forzato dal destino.»
«Non
avevo alcuna intenzione di giudicarti,» le dissi subito, per paura di
averla
offesa.
Elisa
mi sorrise, tranquillizzandomi. «Non preoccuparti. Siamo nel 2014 ed è
normale
che la gente si sposi più tardi, che metta su famiglia alla soglia dei
trent’anni, visto tutto il tempo che ci si impiega per laurearsi e poi
cercare
lavoro. Qui siamo rimasti un po’ indietro, e forse è anche un bene,»
commentò.
Arrivammo
al paese limitrofo, dove si trovava la casa di Elisa.
«Mi
ha fatto molto piacere rivederti,» disse, prendendo l’altro sacchetto.
«Spero
che un giorno tornerai qui per farmi conoscere la tua famiglia.»
«S-Sicuro,»
smozzicai.
Io
che alla famiglia non avevo
minimamente pensato.
Camminai
ancora per qualche chilometro, prima di intravedere Simone che mi
veniva in
contro correndo. Pensai che era del tutto instancabile, nonostante
fosse zuppo
di sudore.
«Ehi!»
mi raggiunse. «Pensavamo ti avessero rapita,» disse sorridente.
Dal
modo in cui si pavoneggiava intuii che aveva vinto la corsa. «Mario?»
gli
chiesi.
«Ad
un certo punto mi ha detto che doveva prepararsi per andare a lavoro,
così ha
mollato,» ridacchiò.
Lo
fissai divertita. «Quindi hai vinto per abbandono?»
Simone
subito mi fissò di sbieco. «Ero comunque in vantaggio,» sibilò
contrariato.
Infilai
le mani nelle tasche della giacca a vento. «Ciò non toglie che hai
vinto per
abbandono,» ripetei.
L’euforia
con cui mi aveva raggiunto si era smorzata del tutto. «Possibile che tu
non mi
dia mai alcuna soddisfazione?» brontolò offeso.
Fu
allora che un pensiero galeotto sfuggì alla mia mente sempre rigorosa.
Come
sarebbe stato Simone come padre?
Lui
mi restituì uno sguardo carico d’aspettativa nell’attesa che io gli
dicessi
qualcosa in merito al fatto che avevo smontato il suo ego. L’incontro
con Elisa
mi aveva turbata in un modo che non avevo previsto. L’idea di avere una
famiglia non mi si era mai presentata, anche perché mi era sempre
mancata una
materia prima valida.
Simone
non era certo l’esempio di maturità, di responsabilità, da ciò che
avevo letto
sul dossier stilato da James, di certo non era candidato come padre
dell’anno,
vista la causa con Miss Cloverfield.
Eppure
per una frazione di secondo vidi me e lui davanti al fuoco, come quella
famosa
notte di Natale. C’era un'altra persona accanto a noi. Un bambino.
Scossi
violentemente la testa e diedi colpa alla stanchezza.
Mi
strinsi al braccio di Simone accerchiandolo, e cercando un contatto più
profondo che mi mancava da un po’. Lui abbassò lo sguardo sorpreso.
«Per
te mi sono sorbita novanta minuti di calcio, uno sport che odio. No ti
basta?»
gli sorrisi.
Simone
cercò di trattenere una risata e si voltò addirittura dalla parte
opposta pur
di non farmi scorgere quel barlume di felicità che inconsapevolmente
gli avevo
donato.
Oh
sì, quello era proprio amore.
***
I
giorni passarono in fretta lì a Tivoli. Mio padre insisté per farci
fare una
passeggiata a cavallo nei boschi, per farci fare un’escursione nei
monti lì
vicino, mentre la sera eravamo sempre ospiti del gruppo di Mario.
Alla
fin fine lui e Simone avevano fatto amicizia.
In
paese lo avevano riconosciuto e subito era corsa la voce della presenza
di uno
dei calciatori d’oltreoceano in casa Donati. I bambini che incrociavano
Simone
per strada gli chiedevano un autografo o una firma sul loro pallone da
calcio.
Si
prestò perfino a farsi fare delle foto con la squadra del paese.
«Sono
molto diversi dagli hooligans inglesi,» mi confessò un pomeriggio,
spaparanzato
sul mio letto mentre io riguardavo gli appunti del caso. «Mi ero
dimenticato
che aria si respirasse qui in Italia.»
«Non
sei nato qui, scusa?» gli chiesi, incuriosita.
In
fondo, Simone non si era mai scucito in merito alla sua infanzia. Le
cose che
avevo scoperto, o me le aveva raccontate Sofia oppure le avevo intuite
dai loro
discorsi in famiglia.
Simone
mi guardò serio. «Mio fratello Gabe è nato qui, e anche io. Ma ci siamo
trasferiti quasi subito, infatti Sofia è nata a Londra,» disse.
«Conosco
l’italiano soltanto perché mio padre lo parlava e anche quel cazzone di
Leonardo. Mia madre, invece, odiava il fatto che lui ce l’avesse
insegnato.»
«E
perché?»
Misi
da parte gli appunti e lo raggiunsi nel grande letto ad una piazza e
mezza.
L’idea di sapere di più sul suo passato mi faceva morire di curiosità.
Simone
allargò le braccia ed io mi accucciai contro il suo petto, posando
l’orecchio
al centro di esso. Mi piaceva sentire la vibrazione della sua voce
attraverso
la stoffa del maglione blu.
«Lei
è inglese di nascita e per quanto abbia amato mio padre, è cresciuta
con una
rigida educazione che le ha impedito di continuare ad essere sposata ad
un uomo
che ha lasciato il proprio lavoro, redditizio e di buon nome, per
ritirarsi a
fare l’agricoltore dall’altro capo del mondo. Non lo ha mai perdonato.
Inoltre,
non sopporta il modo “allegro” con cui gli italiani storpiano la sua
lingua,»
disse.
D’improvviso
mi resi conto di quanto si era trattenuta quando aveva sentito il mio
accento,
accurato ma evidentemente non di madre lingua.
«Chissà
che orribile impressione le ho fatto,» dissi mogia.
Lui
prese ad accarezzarmi i capelli distrattamente. «Scherzi? Pendeva dalle
tue
labbra. Sofia mi ha detto che quando siamo andati via, ha continuato a
tessere
le tue lodi e a ripetere quanto fosse fiera che suo figlio stesse con
una donna
di cervello.»
Già,
quando c’era stata quella riunione di famiglia tutti avevano pensato
che fossi
la ragazza di Simone.
E
in seguito lo ero diventata davvero.
Mi
voltai appena per guardarlo in faccia. I capelli un po’ più lunghi
sparsi sul
cuscino, la barba leggermente incolta. In quelle occasioni sembrava
addirittura
più grande dei suoi vent’anni e per un attimo mi crogiolavo a pensare
come
sarebbe stato se ci fossimo incontrati in ben altre circostanze.
«Hai
mai pensato cosa sarebbe successo se non ci fossimo incontrati così?»
gli
chiesi, senza timore che mi ridesse in faccia.
Si
portò una mano dietro la nuca per rialzarsi e guardarmi meglio. «Se tu
non
fossi stata il mio avvocato?» chiese.
Annuii
pensierosa. «Probabilmente non mi avresti degnata di uno sguardo,»
riflettei.
«Probabilmente,»
constatò, ed io subito gli pizzicai il fianco per punirlo. «Ahi!»
«Colpa
mia!» e sorrisi birichina.
Simone
per vendicarsi mi afferrò per i polsi e mi sovrastò con il suo corpo,
bloccandomi contro il materasso. I miei erano usciti per delle
commissioni e la
casa era silenziosa. Dovevo ammettere che il suo corpo mi era mancato,
e tanto. L’averlo a così poca
distanza dal
mio non faceva altro che aumentarne il desiderio.
«Ma
sarebbe stata solo questione di tempo,» disse, avvicinandosi lentamente.
«D-Di
cosa?» arrancai, troppo eccitata.
Simone
si lasciò andare completamente sul mio corpo, schiacciandomi
piacevolmente con
tutto il suo peso. Sì, decisamente ne avevo decisamente sentito la
mancanza.
«Uhm,
sono convinto che prima o poi mi sarei accorto di te. Magari al
compleanno di
Leonardo, oppure di qualcuno dei nostri amici in comune. Direi che mi
sei
rimasta impressa quattro anni fa, in positivo,» smozzicò, roco anche
lui.
«Ora
che ne dici se rompessimo una delle regole di questa casa?» mi sussurrò
malizioso.
Intrecciai
le braccia dietro il suo collo e lo tirai giù. «Battezziamo anche
questa camera
da letto,» ridacchiai.
Sorratemi il ritardooooo!!!
Dunque, come scusa principale dirò che sono in periodo esamoso (seh,
come no!) oppure dovrei mettermi a scrivere i nuovi capitoli - anche -
e vi faccio dannare per questi rimasti. SONO IMPERDONABILE!
Frustatemi se volete :3 #sadomaso.
Detto ciò, devo ancora rispondere alle recensioni degli scorsi
capitoli. Praticamente su EFP non ci entro quasi mai puLLtroppo T_T
Infine, la moglie di Chicuccio ha partorito, sfornando quell'ammmmore
di Milo che assomiglia tutto alla mamma (spero cambi, crescendo). Il
prossimo pargolo lo sfornerà la mia wifuccia :3
Infine, ma quanto è dolce la famiglia di Ven?? *.*
Personalmente li adoro, perché sono un po' matti come la mia stessa
famiglia. Devo dire che papà Donati è più fanghérl di tutte noi messe
assieme e gli aggrada parecchio avere un genero così famoso!
E di Mario che mi dite?
Maaaaaaaaaaaaaaaaaarioooooooooooooo! :3
Lo amo!
Mi rimetto ai vostri giudizi!
Intanto se ve lo siete perso, qui
c'è l'epilogo di Come in un Sogno, il prequel di questa :3
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