Isabelle
Il cielo era di un greve color peltro e la neve aveva imbiancato la grande fontana che si ergeva in mezzo al giardino.
Isabelle si avvolse nello
scialle e soffiò sulle dita intirizzite. Si domandò se i
pesci sarebbero sopravvissuti per l’intero inverno sotto quel
manto ghiacciato. Le erano sempre piaciuti quei guizzi di fiamma che
apparivano e scomparivano nell’acqua torbida, verde scuro.
Quell’estate sovente aveva lasciato scorrere le dita oltre il
bordo di pietra della fontana, dove galleggiavano le ninfee.
Era lì che lui l’aveva vista, la prima volta.
Era una limpida mattina
di fine giugno e lui aveva attraversato il cortile a cavallo, la
schiena dritta e i fianchi che sobbalzavano lievi al ritmo
dell’animale. Isabelle aveva ritratto la mano con un sussulto,
impaurita. Lavorava a casa Jarjayes da pochi giorni, non voleva essere
giudicata una scansafatiche. Desiderava solo vedere i pesci. Aveva
abbassato il capo, portando le mani dietro la schiena con aria
colpevole, e lui l’aveva superata al trotto, gli zoccoli del suo
cavallo che sollevavano la polvere del viale attorno alla sua gonna.
Solo quando si era creata, tra di loro, una distanza che Isabelle
giudicava considerevole, si era azzardata a sollevare il capo. E,
incomprensibilmente, l’aveva scorto voltato, intento a
osservarla. Era bastato un attimo. Quando aveva sbattuto le palpebre,
lui era già sparito oltre la pesante cancellata e lei aveva la
gola secca e i palmi sudati.
Sarebbe passato un mese prima che i loro occhi si incrociassero di nuovo.
Erano i primi di agosto e
l’infaticabile Marron Glacè le aveva messo in mano un vaso
colmo di rose, ordinandole di portarlo nella stanza della padrona.
Isabelle si era attardata, nel corridoio, affondando il viso tra i
fiori, inalando il loro profumo dolce e fruttato. Le ricordava quello
dei lamponi che da bambina si infilava sulla punta delle dita,
succhiandoli piano piano.
La stanza della padrona
era inondata di luce e le tende si gonfiavano all’interno,
sospinte da una brezza leggera, che disperdeva la calura. Isabelle
appoggiò il vaso sul tavolo di cristallo e sprecò qualche
secondo per ravvivare le corolle. La padrona sarebbe tornata da
Versailles quella sera e ogni cosa doveva essere perfetta, perfetta
come lei. Non lo notò, non subito. Quando si rese conto di non
essere sola nella stanza ebbe un leggero sussulto, ma lui rimase
immobile, lo sguardo chino sulla tastiera d’avorio del
pianoforte.
Isabelle deglutì,
incapace di muoversi. Avrebbe dovuto fingere indifferenza e ritirarsi
con discrezione, ma le sue gambe sembravano di gesso. Fu in quel
momento che lui sollevò su di lei due occhi rossi, cerchiati di
viola. Sembrava sperduto, completamente indifeso. Lei lo guardò,
seduto a quel pianoforte che la padrona amava suonare e gli
sembrò fragile come mai l’aveva visto. Abissi scuri si
agitavano dietro quelle iridi di un colore talmente sorprendente che
non avrebbe trovato un paragone per descriverle. Rimasero interi minuti
a osservarsi in un silenzio rotto solo dal cinguettio degli uccelli che
proveniva dal giardino.
Isabelle si chiese
perché. Perché aveva scelto lei, per mostrare un dolore
che non poteva esternare ad altri? O forse… forse era
semplicemente crollato e lei l’aveva colto di sorpresa,
irrompendo nella sua intimità, senza riguardi.
Alla fine lui si sollevò. Sospirò, poi si sistemò la giacca.
«Come ti chiami?»
Isabelle ci mise alcuni secondi a rendersi conto che le aveva appena rivolto la parola.
«Isabelle, signore.»
«Isabelle»
ripeté lui, lanciandole un’occhiata penetrante. Le gambe
della ragazza tremarono violentemente quando pronunciò il suo
nome e ringraziò l’ampia gonna scura, che le mascherava.
«Isabelle» mormorò di nuovo, con un sussurro. «Puoi portare via quei
fiori, lei non tornerà. Non stasera.»
Uscì dalla stanza chiudendosi delicatamente l’uscio alle spalle, come se lei non fosse stata lì.
Isabelle rivolse lo
sguardo al cielo. La neve scendeva leggera, come lo zucchero che Marron
Glacè spargeva sui dolci. Era una notte diversa da tutte le
altre notti. Al piano di sopra avvertiva, confuso, lo scalpiccio di
piedi delle domestiche che correvano avanti e indietro. Era lieta di
essere stata dispensata dai suoi doveri, quella notte. La vista del
sangue le aveva sempre messo molta soggezione. La voce della padrona le
arrivava attutita attraverso le pareti. Gridava con tutto il fiato che
aveva in gola e il pensiero di Isabelle andò a lui, a quel
pomeriggio in cui lo aveva scorto seduto al pianoforte. Quel giorno i
suoi occhi le avevano toccato l’anima come nulla era stato in
grado di fare da quando aveva memoria per ricordare.
Le urla parvero smorzarsi
un po’ e Isabelle lo immaginò lì, fuori da quella
stanza, in preda al terrore. Le labbra pallide, le nocche bianche dal
troppo stringere i pugni.
La ragazza si
avvicinò al letto e si raggomitolò sotto alle coperte,
coprendosi le orecchie con il cuscino per non sentire oltre.
Non seppe dire quanto
tempo era passato. Si sollevò sui gomiti, confusa. Qualcuno
aveva aperto e richiuso la porta della sua stanza, scivolando
silenzioso tra le ombre della notte. Solo quando i suoi occhi si
abituarono all’oscurità lo scorse, immobile nel buio, e il
suo cuore iniziò ad accelerare.
Non aveva paura. Non era
sorpresa. Da tempo aveva intuito che sarebbe stato suo compito
rimettere insieme i suoi pezzi, quelli che la padrona aveva mandato in
frantumi. Si allungò sul materasso fino a sfiorargli piano il
dorso della mano. Tremava. Isabelle lasciò scorrere le dita
sulla sua pelle, infilandole dentro al polsino della giacca, e prese ad
accarezzargli l’interno del polso. Sentiva il suo cuore pulsare
ritmico nelle vene. Lo attirò a sé, gentilmente, come
avrebbe fatto con un bambino spaurito e lui si lasciò trascinare
senza opporre resistenza. Era un animale ferito in cerca di un rifugio
caldo e lei avrebbe leccato le sue cicatrici.
Le loro labbra si
toccarono al buio e lei si aggrappò alle sue spalle,
lasciandogli scivolare la giacca dalle braccia. La sua bocca sapeva di
liquore e tabacco e Isabelle ebbe l’impressione di sciogliersi al
tocco della sua lingua.
Aveva sedici anni e non aveva mai amato un uomo.
La fece stendere tra i
cuscini e le baciò il collo, affondando il viso tra i suoi
capelli sciolti come se non volesse riemergere. Lei gli sfilò la
camicia dai pantaloni, lasciando scivolare le dita sulla sua schiena
dritta come un fuso. Lo toccava con movimenti delicati, come se avesse
l’impressione di sciuparlo, o di sciupare quel momento. Lui
intanto le aveva abbassato la camicia da notte oltre le scapole,
scoprendole i seni. Erano tanto bianchi da perforare
quell’oscurità perfetta, che li avvolgeva come una coperta. Lui si
concesse un breve istante per guardarla, poi abbassò la bocca
sui suoi capezzoli, succhiandoli come avrebbe fatto un neonato.
Quando le divaricò
le ginocchia Isabelle tremò. Temeva il dolore ma aveva fiducia
in lui. Si spinse in lei con un urgenza divenuta insostenibile e la
ragazza si lasciò scappare un singulto. Qualcosa si era
strappato in lei e una lacrima solcò la sua guancia, bagnandole
le labbra. Iniziò a muoversi dentro di lei, i fianchi che si
alzavano e abbassavano, seguendo un ritmo istintivo, e Isabelle
si ritrovò ad assecondare i suoi movimenti, perché
desiderava
dargli quello che voleva. Quello che aveva sempre voluto.
L’ossessione che avvelenava le sue giornate e rendeva irrequiete
le sue notti.
L’orgasmo fu violento e Isabelle strinse le gambe
attorno al suo corpo, per impedirgli di scivolare fuori da lei. Avrebbe
voluto tenerlo lì, per sempre. Avrebbe voluto colmare il vuoto
di certi suoi sguardi. Quando la guardava il freddo di quegli occhi si
stemperava in qualcosa di più dolce, Isabelle ne era certa.
Gli accarezzò la
fronte imperlata di sudore e gli scostò i capelli.
Fu allora che la sentii. Una lacrima era caduta dal viso di lui a
quello di lei. Si sporse verso di lui e gli baciò gli angoli
degli occhi, bevendo quelle gocce di pianto amaro. Lui crollò su di
lei, singhiozzando sommessamente e Isabelle lo cullò piano, con
dolcezza.
«E’ una
femmina» sussurrò lui, come se fosse una sconfitta,
l’ennesima. «Un’altra femmina.»
«Lo so…» mormorò lei.
«Dio ce l’ha con me.»
«Non è così…»
«Allora
perché si ostina a negarmi un’erede? Marguerite,
lei… non vuole più avere figli. Ha detto che questo
è l’ultimo, non ne metterà altri al mondo. Ed
è un’altra femmina.» Picchiò la mano stretta
a pugno contro il cuscino e si staccò da lei con aria frustrata.
Isabelle rimase in
silenzio, mentre lui si rivestiva. Si infilò le scarpe e si
sollevò dal letto. Lei si abbracciò le gambe con le
braccia. Avrebbe voluto dirgli che lo amava. Che amava il suo
portamento fiero, il suo spirito nobile e la segreta fragilità
nascosta dietro al suo sguardo altezzoso, spesso severo. Ma non disse
nulla. Sapeva che non sarebbe tornato da lei, perché era un
marito devoto e un uomo che credeva nell’onore. Perché era
un soldato e la disciplina era in lui.
Quella notte, la notte di
Natale in cui era nata la sua ultima figlia, si era lasciato andare per
la prima e unica volta nella sua vita. Non sarebbe più successo.
Si avviò alla
porta, mettendo la mano sulla maniglia, ma prima di abbassarla
sembrò tentennare. Si voltò verso di lei, il viso
macchiato dal blu della notte.
«Pronuncia il mio
nome» disse solo, come un’ultima preghiera prima di
lasciare quel tempio che l’aveva accolto, stemperando la sua
disperazione.
«François Augustin…» sussurrò Isabelle.
Lui tornò verso di
lei e le posò un ultimo bacio sulle labbra, quasi a volervi
imprigionare il proprio nome per sempre. Un risarcimento per
quell’innocenza perduta, che non sarebbe più tornata.
Quella stessa notte,
mentre Isabelle riponeva in una borsa i suoi pochi averi,
François Augustin prese una decisione terribile, che
l’avrebbe interamente assorbito per i successivi trent’anni.
Nove mesi dopo Isabelle diede alla luce un maschio sano e forte, a cui diede lo stesso nome di suo padre.
Era da tanto che non passavo di qua, e di motivi ce ne sono parecchi, ma non voglio annoiarvi.
Questa
breve shot mi frullava in mente da tanto, ma per un motivo e
quell’altro non riuscivo mai a scriverla. L’ho fatto in
questa calda sera di luglio, e spero vi piaccia. Potrebbe anche essere
l’incipit per una storia più lunga, ma non voglio
sbilanciarmi perché non so proprio se avrò il tempo o
l’ispirazione per scriverla.
Chi
legge le mie storie sa che voglio bene al Generalissimo. Qui mi sono
divertita a immaginarlo molto più umano di come siamo abituati a
vederlo solitamente. Meno militare e più uomo confuso e
tormentato. Le vostre opinioni saranno, come sempre, importantissime^^
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