Note
dell’autrice: buongiorno
fandom <3 Rieccomi con un’altra fatica (?!).
Sopportatemi, l’estate è calda
e noiosa e io ho bisogno di distrarmi XD
Questo
delirio è nato da un project dell’inglisc fandom
che si divertiva a reinventare
opere d’arte, testi di canzoni e trame di libri in chiave
sherlockiana (fate un
giro su Tumblr con il tag “let’s draw
sherlock” – troverete cose fantastiche
XD). Dopo aver letto una versione assolutamente epica di
“Orgoglio e
pregiudizio” in cui John veste i panni di Lizzy Bennett ho
sentito il bisogno
insopprimibile di saltare anch’io sul carro
dell’harmony gay in costume, e così
eccomi qua.
Questa
storia è un’omegaverse!AU ambientata
nell’800 - ridete pure, io non faccio
altro da quando mi sono messa a scriverla XD – ispirata alla
“Marchesa di O” di
Heinrich Von Kleist, che, poveretto, a quest’ora si
starà vivacemente rivoltando
nella tomba e col quale mi scuso tantissimo. ç_ç
Inutile
dire che Sherlock fa la marchesa (scusa, Sher) (con quanta gente mi sto
scusando XDDD ma d’altro canto è il minimo),
mentre John è sempre John, cioè un
capitano dell’esercito inglese BAMFissimo e col fascino
aggiunto della divisa
storica.
Due
parole su come verranno trattati l’omegaverse e lo slash
durante questo
drammone.
Il
matrimonio omosessuale è consentito dalla legge,
perché la mia take sul XIX
secolo è molto gaia open-minded e giusta
e buona. Ciò detto, gli omega sono
esseri considerati deboli, utili quasi solo a sfornare bambini (non il
caso di
questa storia) e socialmente inferiori, al punto da avere bisogno
dell’autorizzazione
di un alfa (famigliare o consorte) per fare praticamente qualunque cosa
- dall’andare
in giro al gestire i propri beni al rimanere soli con altre persone in
una
stanza. Ovviamente, nel caso un omega dovesse avere un rapporto
pre-matrimoniale (o anche solo subirlo), il suo onore sarebbe spacciato
e si
ritroverebbe ad essere una sorta di paria, rigettato da tutti e
condannato a
fare una vita da cani per il resto dei suoi giorni; mentre per
l’alfa non ci
sarebbe nessun problema, obviously. Dove l’ho già
sentita questa storia? *sighs*
Anyway
- gli alfa riconoscono gli omega reclamati dall’odore, che
captano anche a
centinaia di metri di distanza, ma non sono in grado di sapere
l’identità né dell’omega
in questione né dell’alfa che l’ha
reclamato: ciò significa che sanno che
devono starci lontano ma non sanno nelle ire di chi incorrerebbero nel
caso
dovessero sgarrare.
Una
volta formato, il Legame fra alfa e omega è eterno e
indistruttibile, nonché
estremamente intenso – al punto da provocare una sorta di
malessere fisico se i
due stanno lontani troppo a lungo.
Come
la gran parte delle storie omegaverse, vi è la problematica
del consenso ogni
qualvolta gli omega entrano in calore e tutti sembrano andare fuori
come
citofoni. E’ anche il caso, in senso lato (poi capirete) di
questa storia – per
cui se l’argomento vi turba vi consiglio di astenervi dalla
lettura.
Ma
non fatevi spaventare da questa clausolina. La storia per la maggior
parte
gronda romanticismo, dichiarazioni d’ammmore e sviolinate
(letterali e non).
Anzi, colgo la palla al balzo per avvertirvi che forse Sherlock
potrebbe
risultare un filo OOC. Io ho tentato di non farmi prendere troppo la
mano, ma
il rischio potrebbe esserci.
Vi
annuncio con magno gaudio che la fic è già
terminata (?!!!), comprende circa
una quindicina di (corti) capitoli e verrà aggiornata
settimanalmente.
Che
giorno è oggi? *checks* Giovedì, benissimo,
quindi ci vediamo giovedì prossimo
<3
Spero
vi piaccia :*
Shame is the shadow of love.
“Shame”, PJ Harvey
I
Sherlock Holmes era quello
che si poteva considerare un ottimo partito.
Fra
tutti gli omega spiccava per intelligenza e per un peculiare, esotico
tipo di
bellezza. Apparteneva inoltre a una famiglia nobile e danarosa che in
futuro gli
avrebbe garantito una rendita molto più che cospicua. Era in
salute, colto e
perfettamente educato; parlava diverse lingue senza sforzo; suonava il
violino
da virtuoso.
Eppure,
all’età di trent’anni, non era ancora
stato reclamato da nessuno.
Suo
fratello Mycroft, con crudele ironia, dava spesso la colpa di questo
increscioso stato di cose a una qualche malformazione, a uno scherzo
del
destino. Sherlock infatti possedeva un carattere che non aveva niente della natura
remissiva e
accomodante degli omega: era autoritario, sprezzante, orgoglioso ed
egocentrico. A colpo d’occhio, sarebbe sembrato un alfa come
il maggiore degli
Holmes, come il loro padre.
Ma
non lo era. E questo, nonostante tutte le sue altre qualità,
lo aveva sempre
reso indesiderabile.
Non
che la cosa lo ferisse. Al contrario: segretamente, lo rendeva fiero.
Sua
madre e Mycroft non riuscivano a pensare a nessun alfa che potesse
sopportare
l’indole pungente di Sherlock; e Sherlock nemmeno concepiva
l’idea della
sottomissione a chicchessìa.
Per
anni e anni era andato in calore odiandone ogni delizioso spasmo, ogni
gemito
forzato da un desiderio irresistibile che sentiva alieno, ogni raptus
irrazionale
che gli diceva di trovare un compagno e porre fino a quel vuoto
doloroso che
avvertiva dentro di sé. Inoltre conosceva bene i pochi
diritti e i molti obblighi
che spettavano agli omega reclamati e la prospettiva di limitare in
qualsiasi
modo la propria libertà non lo attirava affatto.
Non
era fatto di quella pasta. Si sentiva nato per comandare, non per
essere
comandato.
La
tragedia consisteva nel fatto che chi era come individuo strideva
troppo con
ciò che era per natura; ma, per quanto fosse frustrante far
convivere queste
due parti di sé, Sherlock non aveva mai ceduto.
I
pochi pretendenti fattisi avanti erano stati respinti e lui si era
ritirato
nella solitudine del castello famigliare, circondato da servitori beta
e omega
che non rappresentassero un rischio, conducendo un’innaturale
esistenza da
celibe e dedicandosi esclusivamente ai suoi studi scientifici e al suo
violino.
L’impasse
non si era mai interrotta. Con buona pace di Mycroft e di sua madre,
che lo
avrebbero voluto sistemato – e felice – con un alfa
adatto il più presto
possibile; e gli anni erano trascorsi lenti e monotoni senza che
nessuno
venisse mai soddisfatto nei propri desideri.
*
Il
susseguirsi di giorni sempre uguali venne interrotto dalla guerra.
Sherlock
era talmente annoiato che al principio la considerò un
piacevole diversivo, ma
era destinato a ricredersi.
Il
castello degli Holmes era abbastanza sfarzoso da attirare
l’attenzione delle
numerose truppe straniere in vena di razzie che avevano invaso il
paese.
Mycroft, che si trovava in Francia per affari, scrisse a Sherlock e a
sua madre
di abbandonare al più presto quel luogo ormai divenuto
pericoloso e di recarsi
nella loro tenuta di campagna, più modesta e meno
appariscente.
La
marchesa era un’omega già avanti con gli anni,
cagionevole di salute e legata
in maniera spasmodica alle comodità. Stropicciando con dita
nervose la lettera
di Mycroft, si lamentò della fatica e dei disagi che quel
trasferimento avrebbe
comportato, senza contare che il calore di Sherlock era ormai alle
porte e
sarebbe stato rischioso farlo viaggiare.
E
poi, la guerra era quasi finita. Era solo questione di resistere per
poco tempo
ancora.
Sherlock
era immerso nella lettura di un volume di botanica e ignorò
del tutto quel
tentativo di conversazione.
*
Gli
assalitori erano russi. Sherlock ne riconobbe le uniformi, e distinse
la loro
lingua attraverso le urla.
La
cittadella sulla quale svettava il loro castello era già
stata costretta alla
resa. Dopo aver occupato in meno di un giorno i magazzini, i campi e le
case
dei suoi abitanti, arrivando al punto di appiccare fuoco ai
possedimenti di chi
resisteva, l’esercito russo attese il calare della sera e
sferrò un attacco
notturno alle loro mura.
L’ala
sinistra venne immediatamente distrutta, costringendo la signora Holmes
e le
sue cameriere ad abbandonarla fra strepiti e lacrime. Sherlock, debole
e sudato
a causa del calore, guidò il corteo delle donne fino ai
sotterranei e gridò
loro di rifugiarsi lì. Sopra le loro teste si udivano colpi
di fucile,
esplosioni, il fragore di porte sfondate e muri distrutti.
Una
granata esplose dal nulla sulle scale che stavano scendendo e
seminò lo
scompiglio. Sherlock avvertì un dolore intenso alla testa e
cadde a terra,
tossendo per il fumo, squassato dagli spasmi liquidi che Madre Natura
si
ostinava ad infliggergli persino in momenti come quello.
Li
scorse con la coda dell’occhio. Erano tutti e tre alfa,
sghignazzanti e con il
fucile in mano, e lo guardavano dalla cima delle scale con un
luccichìo
malevolo negli occhi.
Sherlock
urlò per ricevere aiuto ma ormai aveva perso i suoi.
I
tre lo trascinarono nella prima stanza a disposizione sputandogli
addosso frasi
oscene. Sherlock si divincolò, tirò calci e pugni
alla cieca, persino morse, ma
loro erano in maggioranza numerica e fu solo questione di minuti prima
che si
ritrovasse prono a terra con le mani costrette dietro la schiena.
Era
furioso con sé stesso. L’odore di quei tre alfa
obnubilava il suo cervello e
rallentava i suoi movimenti, rendendoli languidi nonostante la rabbia e
– si
rese conto con orrore - invitanti. Si detestò come mai nella
sua vita quando
realizzò che sarebbe successo l’irreparabile e che
il suo stesso istinto
desiderava che questo irreparabile succedesse. Il suo corpo tremava di
paura e
di voglia, di disgusto e di aspettativa, di disperazione e di
eccitazione.
Sherlock
chiuse gli occhi quando avvertì una mano rude strappargli la
camicia e pregò
che finisse presto.
Si
era definitivamente rassegnato a quell’umiliazione quando
sentì la porta
sbattere e si accorse che uno dei suoi assalitori, ferito gravemente,
era caduto
a terra. A fatica si voltò sulla schiena: davanti a lui era
in corso un corpo a
corpo selvaggio fra un soldato che portava l’uniforme
dell’esercito britannico
e i due russi superstiti.
L’uomo
sconosciuto non era di grande statura ma si rivelò un
esperto nell’arte del
combattimento. Buttato il fucile a terra colpì con quella
che sembrava una
rabbia incandescente prima un uomo, poi l’altro, i suoi
movimenti così fulminei
che Sherlock a malapena riuscì a distinguerli.
Dopo
averli uccisi sotto i suoi occhi trafiggendoli con la spada,
alzò lo sguardo su
di lui.
Sherlock
trattenne il fiato. Era sporco di sangue, nero per il fumo e ansimante
– ed
emanava un odore delizioso. Era forse l’alfa più
attraente su cui avesse mai
posato lo sguardo.
“State
bene?” chiese l’uomo inginocchiandosi al suo
fianco, gli occhi che fino a un
attimo prima erano stati spietati ora premurosi e quasi reverenti.
Sherlock lo
guardò con una gratitudine che si confondeva con il
desiderio; l’uomo trattenne
il respiro e imprecò.
“Voi-”
Aveva
assunto un’espressione angosciata. Sherlock
allungò una mano e lo sfiorò con meraviglia,
il corpo e la mente ubriachi di bisogno, di sollievo, di
quell’adorazione cieca
che il calore provocava anche solo nei confronti della mera idea di un
alfa
degno e forte. E lui, lui era stato solo tutta la vita e ora ne aveva
uno in
carne e ossa a poca distanza.
Quando
le dita di Sherlock gli carezzarono il collo l’uomo gemette.
Le pupille gli erano
diventate enormi; tutto il suo corpo tremava come un arco teso allo
spasimo. Si
morse un labbro e lo guardò con aria terrificata e allo
stesso tempo
predatoria.
Ormai
al limite della resistenza, stava per avvicinare il proprio viso al suo
quando
l’uomo imprecò nuovamente e si alzò di
scatto, allontanandosi da lui. Sherlock
si sentì mancare il fiato: gli sembrò
così ingiusto, così crudele.
“Vi
aiuterò” disse l’uomo con voce
strozzata, prima di aprirsi la giubba
dell’uniforme, strappare un pezzo della propria camicia e
premerselo su naso e
bocca, “ma voi dovrete aiutare me e impedirmi di essere come
loro.”
Diede
un calcio a uno dei cadaveri che giacevano a terra. Sherlock
seguì il movimento
del suo piede con sguardo appannato. Accettò la mano che lui
gli porgeva per
alzarsi in piedi e si ritrovò premuto contro di lui.
D’istinto,
schiacciò il naso contro il suo collo per inspirare a fondo
il suo odore e
gemette.
L’uomo
emise un verso frustrato e gli afferrò un braccio con una
mano tremante,
tentando di tenerlo a distanza.
“Vi
prego,” disse attraverso i denti digrignati, lo sguardo fisso
a terra. “Vi
prego, vi voglio portare via di qui sano e salvo.”
Sherlock
lo sentiva a malapena. La minaccia cui era scampato stava pompando
adrenalina
nel suo sangue, acutizzando gli effetti del calore e privandolo di
qualsiasi
altro scopo se non quello di avere quell’alfa, diventare cera
nelle sue mani e
farsi prendere.
Perché
lui facesse resistenza quando era ovvio che il desiderio era reciproco,
la
mente obnubilata di Sherlock non riusciva a capirlo.
L’uomo
lo trascinò fuori dalla stanza e su per le scale,
sostenendolo per un braccio,
ma tenendo un passo sostenuto per evitare di stargli troppo vicino.
“La
mia guarnigione ha sventato l’attacco, i russi sono quasi
tutti fuggiti o
morti” gli disse con lo sguardo fisso davanti a
sé. La sua voce era soffocata
dalla stoffa che teneva premuta sul viso con la mano libera.
“Riavrete la
vostra casa - seppure in queste misere condizioni. Mi
rincresce.”
Notata
una stanza che era stata risparmiata dal grosso della distruzione,
l’uomo emise
un urlo vittorioso e lo guidò all’interno.
Erano
i suoi alloggi privati.
Sherlock
si fece guidare confusamente verso il proprio letto, tentando di
attirarlo a sé
come poteva, ormai reso quasi pazzo dal bisogno. L’uomo
resisteva sempre meno,
gemendo in preda alla frustrazione, cercando di tenerlo a distanza ma
guardandolo con occhi che bruciavano.
“Chiamo
aiuto” disse, bloccandogli sopra la testa quelle mani che lo
cercavano con
insistenza animalesca, e facendolo stendere in modo che riposasse.
“Lasciatemi
chiamare aiuto per voi. Vi prego.”
L’ultima
parola venne fuori quasi come un singhiozzo. I lineamenti
dell’uomo erano
contratti in un’espressione sofferente e combattuta.
Sherlock
gli mise le braccia al collo e lo strinse più forte che
potè.
“Non
andatevene” disse in un sussurro disperato, baciandolo sulle
labbra, sulla
mascella, sulle palpebre. “Vi scongiuro, restate con me.
Voglio-”
Poi
divenne tutto nero.
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