A Sylphs,
che mi ha fatto
scoprire il lato più "oscuro" della mia scrittura,
e senza la quale
questa storia non avrebbe visto la luce.
Questo,
fondamentalmente, è per te. :)
Prologue
Yet from those flames
No light, but rather
darkness visible.
[John Milton, Il
Paradiso Perduto, x. 62-63]
Pemberley Manor, 25 ottobre 1889.
Nora
si sforzava di trattenere i singhiozzi, ma le lacrime colavano
impietose e pesanti
come pece sulle sue guance. La treccia disfatta giaceva scompostamente
sulla
sua spalla, la camicia da notte era sgualcita e strappata nel punto in
cui lui l’aveva afferrata, e i piedi
scalzi
sanguinavano ove si era tagliata con i frammenti di uno specchio, nella
frenesia della fuga.
Tutto
era avvenuto in modo troppo rapido perché lei potesse
rendersene conto, e ogni
cosa pareva essere avvolta dalla stessa irrazionalità di un
sogno. Aveva appena
terminato di prepararsi per la notte: aveva congedato la sua cameriera,
Anne, e
aveva già soffiato sulla candela di fianco al letto,
spegnendola, quando
all’improvviso aveva udito un tremendo trambusto provenire
dal piano di sotto.
Vetri che andavano in frantumi, sedie rovesciate, vasi lanciati contro
le
pareti, e poi grida, urla, che di umano non avevano più
niente: sembravano i
versi di un maiale al macello.
Aveva
gridato a sua volta nel riconoscere le voci di suo padre e dei suoi
fratelli.
Il
primo istinto fu quello di andare da loro per sincerarsi che stessero
bene, ma
in un flebile lampo di lucidità si era resa conto che una
mossa del genere non sarebbe
stata saggia: perché offrirsi di sua spontanea
volontà come agnello
sacrificale? Allora, terrorizzata, si era precipitata a chiudere a
chiave la
porta della sua stanza.
Buon Dio, che cosa
sta succedendo?
Singhiozzava, aggrappata alla maniglia, timorosa di spostarsi, sperando
che il
suo peso contro la porta bastasse a tener lontano chiunque fosse
irrotto in
casa. Intimamente iniziava ad intuire che cosa fosse accaduto
– poteva ancora
sentire le loro grida rimbombare nelle orecchie – ma la sua
mente, il suo
cuore, non voleva accettarlo. C’era un che di terribile
nell’idea che lei fosse
al sicuro nella sua stanza mentre i restanti membri della sua famiglia
venivano
assassinati al pianterreno: se si fosse fermata a rifletterci un
istante di
troppo avrebbe strillato fino a perdere la voce, e non poteva
permetterselo. Per
quanto possibile, voleva mettersi in salvo – voleva perlomeno
provarci. Era orrendo
anche solo pensare una cosa del genere, eppure l’istinto di
sopravvivenza andava
ben oltre quello di correre come un’ingenua a morire insieme
al padre.
Poi,
così com’erano iniziate, le grida cessarono; quel
silenzio la spaventò se
possibile ancora di più, giacché qualcosa le
diceva che adesso sarebbero venuti
a cercare lei. Chiunque, nel raggio di miglia, conosceva i conti di
Pemberley,
e tutti giù al villaggio erano a conoscenza della giovane
lady che gestiva un
circolo di beneficienza in memoria della madre: era impossibile,
dunque, che
coloro che erano entrati nel maniero se ne andassero senza cercarla.
Nora chiuse
gli occhi e pregò, tra le lacrime, come se rivolgersi a una
qualche entità
invisibile potesse bastare, in quel momento.
Infine
giunse il terribile rumore attutito di passi che percorrevano il
corridoio. Era
una camminata lenta, pesante, come se il proprietario faticasse a
reggersi in
piedi e ogni passo fosse una fatica, e pur tuttavia continuava ad
avanzare,
inesorabile, verso di lei. I passi parvero volatilizzarsi una volta
giunti di
fronte alla porta della sua stanza, e per un attimo lei trattenne il
respiro,
sperando… Ma poi, tutt’ad un tratto, il
chiavistello della serratura aveva scattato
dall’esterno, strappandole un grido. Indietreggiò
rapidamente verso l’interno
della stanza mentre un’ombra si affacciava
sull’uscio – l’ombra di un uomo,
senza alcun dubbio, che camminava leggermente incurvato come se si
trovasse a
disagio nel suo stesso corpo, che ciondolava il capo come un animale e
che era
macchiato di sangue da cima a fondo, come un carnefice. Attraverso una
cortina
scarmigliata di capelli corvini, Nora aveva intravisto gli occhi rossi,
iniettati di sangue, febbrili del mostro, circondati da ombre scure,
incastonati in un volto che pareva giungere dal più profondo
e maledetto degli
inferni.
Un
volto che lei conosceva bene, poiché era stato
l’incubo della sua infanzia.
Non
ebbe neanche più la forza gridare; e non l’aveva
fatto neppure quando lui era
scattato in avanti per ghermirla, graffiandola con unghie lunghe e
sporche e
lacerando una spallina della sua camicia da notte, pur di trattenerla.
A quel
punto lei aveva raccolto gli ultimi residui di coraggio rimastole e gli
aveva
lanciato addosso il primo oggetto su cui si era posato il suo sguardo,
ossia il
pesante scrigno nel quale conservava i suoi gioielli; e, senza degnarlo
di un
secondo sguardo, approfittò della sua distrazione per
spingerlo via e sgusciare
fuori dalla camera, piangendo di sollievo quando si trovò, libera,
a scappare nel corridoio.
Eppure
il buio era pressoché totale – il maledetto doveva
essersi preso la briga di
spegnere anche i pochi lumi che la servitù teneva accesi
durante la notte –
sicché non si accorse dell’improvviso ostacolo che
parve materializzarsi in
mezzo al corridoio, in mezzo ai suoi piedi. Cadde miseramente
attorcigliandosi
con la propria camicia da notte – non aveva mai odiato prima
quel pregiato
indumento di cotone, ma adesso se lo sarebbe strappato di dosso con le
unghie
se fosse servito a rendere più agili i suoi passi
– e per un momento rimase
sdraiata a terra, scombussolata, mentre attendeva di riprendere a
ragionare con
maggior lucidità.
Si
accorse solo dopo alcuni secondi di essere caduta addosso ad un corpo.
Strillò disgustata, e in quel
momento riuscì ad intravedere qualcosa
nell’oscurità, nella penombra, qualcosa
che le permise di riconoscere le fattezze del cadavere nel quale era
inciampata. Una cuffia scomposta da cameriera, capelli rossicci, una
gola che si
apriva da parte a parte in una rossa voragine e un paio di occhi
sbarrati che conservavano
ancora l’espressione scioccata di chi ha guardato in volto il
proprio assassino.
Un groppo le si formò in gola.
«Dio
mio, Anne», gemette, tremando. Avrebbe voluto mostrarle il
rispetto che
meritava chiudendole almeno gli occhi, ma l’orrore
l’ebbe vinta su quel
desiderio. Si rimise in piedi a fatica,
sentendosi la camicia sporca di sangue; barcollò e
lanciò un’occhiata alle sue
spalle, ma il corridoio, immerso nel buio, era fortunatamente vuoto.
Non sapeva
per quanto ancora lo sarebbe rimasto, così riprese a
correre, perché correre
era mille volte meglio che rimanere ferma ad aspettare che il mostro
dell’incubo la catturasse.
La
cosa più logica sarebbe stata scendere al pianoterra ed
uscire di casa,
sperando di incontrare qualcuno nelle proprietà intorno al
maniero; ma le scale
si trovavano oltre la sua camera da letto, e per raggiungerle sarebbe
dovuta
tornare indietro, rischiando di gettarsi esattamente tra le braccia
dell’assassino. L’altra soluzione era trovare un
luogo in cui nascondersi fin
quando non fosse giunto qualcuno ad aiutarla – il resto dei
domestici non
poteva dormire ancora dopo tutto quel baccano, vero? – e a
scacciare quel
folle.
Si
infilò quindi dietro la prima porta che trovò
socchiusa, facendo attenzione a
rimetterla esattamente come l’aveva trovata per evitare di
fornire indizi sul
suo nascondiglio, e solo pochi attimi dopo dal corridoio provenne il
rumore
cadenzato dei passi pesanti del mostro che aveva ripreso a seguirla.
Mordendosi
con furia l’interno della guancia per non scoppiare in
lacrime, Nora si fece il
segno della croce e, nel buio, cercò un cantuccio dove
nascondersi. Scioccamente
ne scelse uno dietro una pesante tenda di broccato, ma era il meglio
che era
riuscita a trovare – aveva pensato anche ad andare sotto il
letto, ma se si
fosse chinato e l’avesse vista… Il cuore le
batteva così forte in petto da
farle temere che lui potesse trovarla solo rimanendo in silenzio.
Rimase
in attesa, e pregò.
«No-o-ra?» Il sangue le si
gelò nelle
vene quando udì per la prima volta la sua
voce cantilenante, diversa da come la ricordava eppure inequivocabile,
provenire da un punto imprecisato del corridoio. «Nora, dove
sei? Dove sei,
dolce sorella? Ti nascondi? Vuoi giocare con il tuo fratellino? Bene,
allora…
Sto venendo a prenderti…»
Istintivamente
la ragazza trattenne il respiro, cercando di non fare nessun movimento,
sperando che la tenda fosse abbastanza lunga e spessa da nasconderla
agli occhi
del folle che la stava inseguendo e che presumibilmente aveva
già ucciso il
resto della sua famiglia.
«Pensi
di poterti nascondere per sempre? Qui, in casa mia?
O speri di poter scappare? Ormai nessuno verrà a
salvarti…»
Non
si soffermò sul senso delle sue parole: non udiva niente,
fuorché il rumore
della sua voce raschiante; si limitò a chiudere gli occhi e
rafforzare le sue
preghiere, silenziosamente, recitando tutti i salmi e i canti e le
invocazioni
che le erano stati insegnati. Cercare di non farsi scappare il
più piccolo
singulto era un’impresa terribilmente difficile.
Nel
frattempo, lui aveva ripreso a parlare.
«Ma
guarda… Non è forse la camera da letto del conte,
questa? E quello… non è il
ritratto della cara, compianta contessa, là, sopra il
camino? Mi chiedo che
cosa penserebbe adesso, se vedesse in che condizioni versa la sua
casa… il
conte e i suoi figli l’hanno già raggiunta, sai?
Ma dubito che finiranno nello
stesso luogo dove è lei…» Malgrado lo
scherno grondante dalle sue parole, nel
nominare la defunta Lady Rochester qualcosa nella voce del ragazzo
s’incrinò,
ed egli rimase in silenzio così a lungo da far credere per
un attimo a Nora che
potesse essersene andato.
Ma
no, sentiva il suo respiro roco, ansimante – lì,
farsi sempre più vicino a lei…
Una
mano l’afferrò all’improvviso con forza
inusitata, strappandole un grido mentre
veniva trascinata fuori dal suo nascondiglio, alla completa
mercé del mostro.
«Trovata»,
soffiò, a poche spanne dal suo volto atterrito.
Nora
sollevò le mani e cercò di colpirlo alla cieca,
gli occhi serrati con forza –
l’ultima cosa che voleva vedere era il suo orrido viso
– le mani arcuate come
artigli, ma ottenne l’unico effetto di farlo infuriare di
più; inoltre, non era
riuscita a sfiorarlo neppure con la punta di un dito. Per
l’amor di Dio, come poteva essere così forte?
«Sono
ancora indeciso sul tuo destino, mia cara, dunque ti consiglio di non
rendermi
facile la scelta», ringhiò, scrollandola e
strattonandole il braccio.
«No,
no… Ti supplico, ti scongiuro… pietà…»
Gli
occhi del giovane si strinsero ancora di più.
«Pietà? Con quale coraggio
implori pietà, adorata sorella? Intendi forse quella stessa
pietà che né tu, né
i tuoi fratelli, né tantomeno tuo padre mi ha mostrato?
Parli della pietà che
il povero Edgar ha dimostrato, rinchiudendo il proprio figlio nel
sottotetto e
negando al mondo la sua esistenza, per poi venderlo come un animale,
no!, come
cavia da laboratorio, pur di non averlo più intorno? Intendi
quella pietà, mia cara?» La sua
voce era
sibilante e roca, il tono basso e pericoloso, e Nora era pietrificata.
«Oh
Dio, Dio mio, Adam, ti prego…»
Una
mano le afferrò la treccia con furia, strattonandola ancora
fino a estorcerle
un grido. «Guardami!» Le intimò,
furioso. Lei gemette, eppure socchiuse gli
occhi umidi e li puntò coraggiosamente in quelli del
giovane. «Io non sono Adam»,
sibilò lui, con feroce soddisfazione. Godette, nel vederla
impallidire ancora
di più. «Il mio nome è Faust.»
«Cosa,
io… non capisco…» Balbettò
tremante, la testa ancora piegata all’indietro,
incapace di distogliere lo sguardo da quel volto orrendo anche se
l’avesse
voluto.
Il
ghigno fu mostruoso sulle sue labbra. «Non è
necessario che tu capisca»,
ribatté; quella voce le metteva i brividi. «Voglio
solo un po’ di giustizia,
capisci… Ma tu, tu, in che
modo potresti servirmi? In fondo la tua unica colpa è quella
di essere stata
tanto stupida da lasciarti traviare dai tuoi adorati
fratelli… Vi divertivate a
torturare l’altro, non è
così? A picchiarlo,
a deriderlo, come se non foste dello stesso sangue… Adam si
ricorda di come
ridevi, di come ti piaceva quel piccolo gioco!» Con un dito
percorse i lineamenti
del volto di Nora, lentamente, studiandoli con meticolosità
chirurgica. «Il che
mi porta a considerare che anche tu hai avuto le tue parti di colpa,
cara
sorella. Posso chiamarti così, non è vero?
Dopotutto siamo molto intimi io e
Adam, davvero molto, molto intimi… Potresti quasi dire che
nessuno lo conosce
meglio di me! Ed è per questo motivo, vedi, che
sarò io ad avere il piacere di
vendicarlo», aggiunse, stavolta con un tono pacato, quasi
ragionevole, come se
stesse spiegando i rudimenti della matematica a un bambino.
Inevitabilmente,
a Nora sfuggì un singhiozzo. «Ti prego, ti
prego, io non ho fatto niente, non ho mai voluto… non
sapevo…»
«Ma
capisci, è proprio questo il punto! Tu sapevi,
mia cara! Sapevi, come d’altronde sapevano tutti in questa
casa… ma adesso,
grazie a me, nessuno sa più nulla. Ho provveduto
personalmente… E adesso è arrivato
il momento di pagare anche per i tuoi peccati, sorella»,
sibilò ancora,
avvicinandole la bocca all’orecchio.
«No,
no, no… No!» Con un urlo
disperato Nora
si ribellò, cogliendo il mostro tanto impreparato che la
lasciò andare di
scatto, come se si fosse bruciato. La ragazza finì per
terra, ma si rialzò
quasi subito inciampando sull’orlo della sua stessa camicia
da notte: lo fissò
come se avesse voluto aggredirlo, benché sapesse
perfettamente di non essere in
grado di affrontarlo in una lotta così impari –
eppure lui ricambiò lo sguardo come
se la considerasse capace di un gesto simile.
«Preferisco
uccidermi da sola piuttosto che darti la soddisfazione di completare la
tua
vendetta!» Strillò, gli occhi che brillavano di
una luce invasata, folle. Era impazzita.
Quello
che accadde dopo Faust non riuscì a prevederlo,
né tantomeno ad evitarlo. Nora gli
diede le spalle e corse verso la finestra, spaccando il vetro sottile
con la
forza del suo slancio e precipitando nel vuoto senza neppure un gemito.
Il boato
del cristallo che andava in frantumi rimbombò nelle sue
orecchie come l’eco di
un tuono, e solo dopo, quando udì il tonfo del corpo che
toccava terra, riuscì a
muoversi di nuovo.
Ancora
piuttosto scioccato, egli si affacciò alla finestra,
aggrappandosi al telaio
dal quale spuntavano pezzi di vetro taglienti come lame e guardando
giù: il
corpo di Eleanore Rochester giaceva scomposto come una bambola rotta
sull’erba
bagnata dalla rugiada notturna, circondato da frammenti di cristallo,
una
macchia bianca su un prato nero. Il collo era piegato in una posizione
innaturale, e gli occhi sbarrati, aperti verso il cielo, sembravano
piantarsi
nelle profondità stesse della sua anima.
Su,
nello studio, il mostro indietreggiò debolmente, osservando
senza vederle le
proprie mani grondanti sangue, lo stesso che gocciolava
dall’intelaiatura della
finestra. Non riuscì a trattenere un conato, e
inginocchiandosi per terra
riversò l’esiguo contenuto del suo stomaco sul
tappeto. Lo sforzo, seppur
minimo, lo indebolì al punto da lasciarlo infreddolito e
tremante, e quando si
rialzò, a fatica, cercando di reggersi sulle sue gambe, lo
specchio che si
trovava sopra una cassettiera gli restituì
l’immagine di Adam e non più quella
di Faust.
Il
mostro lo aveva abbandonato quando più aveva bisogno di lui.
Gli lasciò
l’incombenza di occuparsi di suo padre, dei suoi fratelli, di
sua sorella,
mentre lui rimaneva rintanato chissà dove, come un serpente
dietro un sasso, in
attesa di tornare nel momento più impensato.
Adam
aveva cercato di restituire una parvenza di dignità a quella
famiglia che non
lo aveva mai voluto né tantomeno amato, sistemando i corpi
senza vita sui
divani con una cura maniacale che aveva parvenze di follia, posando
addirittura
un libro tra le mani del padre e dei fiori tra quelle di sua sorella.
Dopodiché
aveva appiccato il fuoco, ed era rimasto a guardare.
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Angolo Autrice.
Appena finito una
storia e ne inizio già un'altra... yeah, chiamatemi pure
folle, ma cosa ci vogliamo fare? Ormai dovreste aver capito con chi
avete a che fare :D
Scherzi a parte, benvenuti in questo nuovo esperimento! Vi ho
incuriositi, mh? Almeno un pochetto? *-*
Se sono
approdata in questa sezione, il merito (o la colpa, deciderete voi :p)
va alla mia cara, carissima Sylphs,
che anche da poco mi ha detto che dovevo assolutamente inventarmi un
"mostro" tutto mio; e siccome questa idea mi turbinava in mente
già da un po' - e ci ho lavorato parecchio prima di riuscire
a trovare un qualcosa di definitivo - alla fine non ho resistito e ci
sono cascata... Così, eccomi qua :D [Ad ogni modo, andate
anche a leggere del suo, di "mostro": storie del genere non devono
rimanere in un angolo della soffitta a prendere muffa, per cui correte,
su!]
Come già accennato nell'introduzione, diverse opere hanno
ispirato questa storia. In particolar modo, devo assolutamente citare:
- Il fantasma dell'Opera,
di Gaston Leroux
- La Bella e la Bestia,
Disney e Beaumont
- Frankenstein,
di Mary Shelley
- The Others,
di Alejandro Amenábar
- Follia d'amore e
d'oscurità, di Sylphs (x)
- Downton Abbey,
serie TV
- Lo strano caso del
Dr. Jekyll e di Mister Hyde, di Robert Louis Stevenson.
(Per quanto riguarda le altre influenze bisogna prenderla con Edgar
Allan Poe, Victor Hugo, Andrew Lloyd Webber, film, libri, musical e
soggetti con maschere vari.)
Quindi sì, insomma, aspettatevi roba del genere. Okay, detto
questo... Niente, credo che per ora lascerò così.
Spero che qualcuno voglia imbarcarsi insieme a me in questa ennesima
avventura - sono sempre parecchio emozionata quando pubblico il primo
capitolo di una long e straparlo, non fateci caso - e nell'attesa vi
lascio! Alla prossima carissimi, grazie di essere passati per di qua -
per uscire seguite pure il sentiero luminoso.
Baci e abbracci, dalla vostra
Niglia.
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