Dal quaderno dei deliri di Glenda:
Aveva già
vissuto quella situazione, ma stavolta era diverso.
Ora, là
dentro c’era Reid: quel ragazzo che aveva sempre desiderato proteggere, che
aveva quasi avuto la presunzione di “salvare” con i suoi insegnamenti, con i
suoi consigli.
Reid era
all’ultimo piano di quel palazzo, da solo, a trattare con una pazza imbottita di
dinamite, che teneva in ostaggio otto uomini. E lui era lì fuori, ad aspettare.
Impotente.
Hotch gli
batté una mano sulla spalla, anticipando il suo pensiero.
“So che non
mi approvi. Ma sai anche che era la scelta migliore”
Già, era
proprio così.
Se fosse
dipeso da lui prendere quella decisione, probabilmente non avrebbe permesso al
ragazzo di correre quel rischio: ci sarebbe andato lui, Jason Gideon, a farsi
ammazzare.
Ma Hotch
aveva ragione. Tenendo presente il soggetto con cui avevano a che fare, quello
che tra di loro aveva maggiori probabilità di successo era proprio Reid.
Perché aveva
gestito una madre schizofrenica per 18 anni.
Perché era
stato a stretto contatto con uno psicopatico affetto da personalità multipla che
lo aveva drogato e torturato.
Perché aveva
un modo tutto suo di abbattere le barriere che certi SI erigevano attorno a
loro.
“Non serve
un’arma per uccidere” aveva detto, quasi sorridendo, mentre gli porgeva la
pistola.
“No. Però
aiuta molto” avrebbe voluto rispondergli.
Invece lo
aveva guardato col suo sguardo più incoraggiante e non aveva parlato.
Si era
offerto lui volontario di salire lassù, disarmato, a trattare con lei. Lo aveva
fatto adducendo – come sempre – quelle tre motivazioni inattaccabili, che aveva
esposto col suo solito modo un po’ didascalico, distante, quasi trasognato.
Eppure,
Spencer Reid non era più il ragazzino che aveva conosciuto, quando era entrato,
per ultimo, nell’unità comportamentale. Qualcosa era cambiato in lui, da quel
giorno. Qualcosa che lo aveva reso dannatamente più fragile, ma anche
dannatamente più sicuro di se stesso.
“Ce la posso
fare, Gideon. Abbi fiducia in me. Ce la posso fare”
Jason non
era certo che potesse farcela, invece. La sua esperienza gli diceva che c’erano
anche molte possibilità che quella donna avesse ormai reciso ogni contatto con
la propria realtà, e fosse completamente in balia del suo altro sé.
Ma era la
prima volta che Reid pronunciava la frase che – in mille altre situazioni –
avrebbe pronunciato lui: “Abbi fiducia in me”. Se gli avesse negato quella
fiducia gli avrebbe fatto del male. In quel momento, Reid aveva bisogno di
ricostruire il terreno sotto i propri piedi: aveva bisogno di dimostrarsi
all’altezza di gestire quella donna, e lui, da buon profiler, sapeva bene
perché.
Perché ogni
follia che riusciva a comprendere, che riusciva a recepire e ad abbracciare, era
un passo in più fatto per avvicinarsi alla sola persona che aveva dovuto
allontanare da sé.
Proprio come
lui, che conservava le fotografie delle persone che era riuscito a salvare.
Greta Curtis
era una donna di 53 anni, centralinista in un’agenzia di telecomunicazioni,
lavoratrice modello e moglie amorevole, che, nel giro di pochi giorni, aveva
fatto esplodere quattro persone.
Adesso, era
imbottita di esplosivo: otto colleghi in ostaggio, all’ultimo piano del palazzo
della ditta.
Avevano
avuto poco tempo e pochi elementi per tracciarne un profilo: disturbo di
personalità multipla, probabilmente scatenato dalla morte del figlio; era
consapevole di ciò che le avveniva, ma non era in grado di controllarsi: le due
personalità si alternavano senza un apparente criterio. La prima era mite e
riservata al punto che nemmeno in famiglia era riuscita a dar voce al proprio
dolore; la seconda era rabbia allo stato puro: rabbia contro il mondo, contro il
destino e contro tutti gli altri esseri umani, colpevoli di essere ancora vivi.
E, in quanto rabbia, era inarrestabile: era escluso che si riuscisse a spingerla
alla resa.
Almeno su
questo, nessuno di loro aveva dubbi: se non si fosse riusciti a far leva sulla
personalità ragionevole, si sarebbe fatta saltare in aria, e Hotch aveva
giustamente compreso che per negoziare con lei, bisognava che non si sentisse
minacciata.
Reid aveva
venticinque anni, la stessa età del figlio di lei. Ed era indubbio che fosse la
persona più inoffensiva tra loro. Inoffensiva all’apparenza, almeno: Gideon si
ripeteva che era un bravissimo profiler, sapeva capire, sapeva “sentire” (questo
aveva detto lui, dopo l’esperienza con Raphael) le sofferenze degli altri. Un
dono, senz’altro, raro e importante.
Ma era
Spencer, maledizione!
Il
suo Spencer, quello che era per lui un amico e un figlio: non era un
artificiere sconosciuto, non era un agente operativo assegnatogli per un caso.
Era tutto, dannatamente diverso!
Jason Gideon
ascoltava in silenzio i propri pensieri, e se ne sentiva in colpa.
Reid si
avvicinò piano, a mani alzate, senza superare le due scrivanie che lo separavano
dalla donna. Gli ostaggi – un uomo di poco più che trent’anni, e sette donne,
tutte giovani – stavano dietro di lei, stretti l’un l’altro, tra i numerosi
tavoli che, così disposti, sembravano quasi una piccola prigione. Il silenzio,
interrotto solo da qualche respiro più forte degli altri, era opprimente. Sulle
scrivanie, quelle decine di telefoni sembravano anch’esse piccoli ordigni pronti
ad esplodere…
“Sono il
dottor Spencer Reid…” disse il ragazzo, non osando muovere un passo in più di
quanto già gli era stato concesso “…signora Curtis…sono qui per parlarle…”
Gli ostaggi
lo guardarono terrorizzati, come se una parola di troppo potesse segnare la loro
fine.
Per un
attimo un ricordo passò nella mente di Reid – rapidissimo, appena un flash – un
ricordo di un’altra volta in cui si era trovato così, del tutto inerme, faccia a
faccia con l’SI.
“Parla
genio, ma guarda che se quel che gli dici non gli piace, lui ti uccide”.
Lo aveva
detto Hotch.
Allora, lo
chiamava ancora “ragazzino”.
E, allora,
era stato lui a gestire la situazione, a tenere a bada il killer, a permettere
che entrambi si salvassero.
Ma adesso
era diverso: lo aveva lasciato salire lui lassù, lo riteneva all’altezza di
farcela anche da solo.
“…Greta,
voglio aiutarla…”
La donna lo
fissò negli occhi: fu uno sguardo pieno di odio e di rancore.
“NON SONO
GRETA! SONO EDWARD!”
Edward.
Reid elaborò
rapidamente i dati a sua disposizione.
Edward
Curtis, venticinque anni, era deceduto il mese prima, in un incidente sul
lavoro. A causa di una fuga di gas il distributore di benzina dove lavorava era
saltato in aria. Il ragazzo era morto sul colpo insieme ad altri tre colleghi.
Nello
stendere il profilo, Gideon aveva sostenuto subito che l’evento scatenante della
patologia della donna fosse stata l’incapacità di elaborare quel lutto, e l’uso
dell’esplosivo come arma non lasciava molto spazio ad altre ipotesi. Aveva
altresì avanzato l’idea che la seconda personalità della signora Curtis nutrisse
paradossalmente il desiderio di veder morire quanta più gente possibile nello
stesso modo di Edward, quasi che quella fosse un’opera di “giustizia” nei
confronti di un destino che aveva lasciato in vita, sparsi per il mondo, sei
miliardi di sconosciuti anziché suo figlio.
Ma non aveva
avuto abbastanza fantasia da pensare che l’altra personalità fosse il
figlio.
Reid
deglutì.
“B-bene,
Edward…” disse “p-perché vuoi uccidere tutta questa gente?”
La donna non
rispose, e lui incalzò, ma con calma, con quella sua voce un po’ esitante e le
mani sempre in alto, immobili.
“…non ti
farà sentire meglio. N-non…calmerà la rabbia che provi. E quel dolore che senti
qua, sotto le costole…” lentamente abbassò una mano, e andò ad appoggiarla sotto
il petto, all’attaccatura dello stomaco “…non passerà. Continuerai a
sentirlo anche dopo…”
La mano
della donna scattò verso il detonatore: Reid riportò le mani in alto, di
riflesso.
“ASPETTA!
A-aspetta…Tua madre…La tua mamma, come pensi che si sentirà?”
Dio, che gli
era saltato in mente? Da dove gli era venuta quella domanda?
Non lo
sapeva. Era stato un istinto…quasi che fosse la cosa più ovvia da chiedere.
“Se uccidi
questa gente…se azioni quella bomba…morirai. E lei piangerà di
nuovo…!”
Stavolta fu
Reid a guardarla dritta negli occhi.
La donna
sostenne lo sguardo per pochi attimi, poi lo abbassò. Un mezzo singhiozzo, che
non riuscì a sciogliersi, le intoppò la voce.
“Scappa…”
sussurrò, piano, come per non farsi sentire “vattene, ragazzo…Lui ti
ucciderà!”
Reid sbatté
le palpebre.
“…Greta
Curtis?”
Lei si
graffiò il volto con le mani, poi se le portò tra i capelli
“TI
UCCIDERA’! Ucciderà tutti! Lui…soffre troppo!”
“Anche lei
soffre, Greta…ma lei non vuole uccidere proprio nessuno…”
Reid si fece
coraggio, abbassò le mani ed avanzò di qualche passo
“STAI
LONTANO!” gridò la donna in preda al panico “STAI LONTANO!”
Spencer
sussultò: per un istante ebbe paura. Ma non era il momento di esitare. Se voleva
salvare almeno qualcuna di quelle persone,
quello era il momento di agire.
Avanzò tra
le due scrivanie e si avvicinò alla signora, tendendo una mano verso di lei.
“Greta”
disse, pronunciando il suo nome con assoluta calma “Mi ascolti. Non succederà
niente. Lei starà bene. Tutti e due starete bene. Si fidi di me…”
“Che devo
fare???” singhiozzò la donna, scoppiando in lacrime “Che devo fare???”
Reid si
avvicinò ancora, lentamente, le appoggiò le mani sulle spalle.
“Faccia
uscire queste persone, Greta…”
“Non posso!
Lui si arrabbierà!”
Reid cercò
il suo sguardo e le fece un sorriso
“Lui non lo
saprà…” sussurrò, con tutta la dolcezza di cui era capace “perché non vedrà
niente…e noi non glielo diremo…va bene?”
Portò una
mano dietro la testa della donna, e la avvicinò a sé, facendole appoggiare il
volto sulla propria spalla. Con l’altro braccio le cinse la schiena e prese a
cullarla lievemente.
“Va tutto
bene…” ripeteva piano al suo orecchio “va tutto bene” e nel mentre, con lo
sguardo faceva cenno agli ostaggi di allontanarsi, uno per uno, dalla
stanza.
“Ti
ucciderà…”
Reid sentiva
le lacrime di Greta Curtis bagnare il suo maglione
“Ti ucciderà
appena lo saprà…”
Il ragazzo
le accarezzò i capelli
“…Non ne ho
paura…”
Gli otto
ostaggi uscirono di corsa dall’edificio, raccolti dalla polizia e dai medici.
Il telefono
di Hotch squillò.
“Reid! Gli
ostaggi sono…”
Poi un boato
sordo.
Jason Gideon
guardò, pietrificato, le vetrate dell’ultimo piano esplodere.
Per qualche
minuto non vide nulla. L’esplosione l’aveva costretto a chiudere gli occhi,
automaticamente. Quando li riaprì si trovò davanti a uno scenario di
devastazione.
Parti
dell’edificio pendevano dalla struttura portante, come vecchi vestiti sgualciti.
I vetri esplosi erano sparsi ovunque e rendevano il terreno circostante,
stranamente luccicante, come se qualche incauto gioielliere si fosse lasciato
dietro una scia di diamanti.
Crik crack ,
crick, scoppiettavano, friggevano, scricchiolavano sotto i piedi della gente in
fuga e di chi si apprestava a portare i primi soccorsi. Per alcuni istanti non
aveva più sentito nulla e soltanto in quel momento, abituando gli occhi al fumo
acre del crollo, aveva cominciato a vedere la gente muoversi, correre al
rallentatore in mezzo a nuvole di polvere.
Si sfiorò la
guancia con la mano, ritraendola sporca di sangue, ben poca cosa in quella
catastrofe epocale. Poi c’erano state le sirene, gli artificieri, le squadre
speciali che cercavano di entrare nell’edificio in fiamme. Qua e là c’era
qualche altro scoppio, cavi elettrici nudi che generavano piccole scintille, con
l’acqua che zampillava a intermittenza dai rubinetti divelti e si avvicinava
paurosamente ai fili scoperti. Si guardò intorno ammutolito, come se la
deflagrazione l’avesse privato anche della parola: alcuni degli ostaggi erano
già stati messi in salvo, ma altri si trovavano ancora vicinissimi all’edificio
al momento dell’esplosione. Qualcuno gridava reggendosi la testa da dove
scorrevano fiumi di sangue, altri piangevano isterici, ovunque regnava il
caos.
“…on!...deon!!!Jason” si voltò
di scatto.
Hotch lo
stava chiamando a pieni polmoni in quel delirio infernale.
Lo sentiva,
ma non lo vedeva.
Troppo
fumo.
Sirene si
avvicinavano, incrementando la confusione. Un altro pezzo del palazzo cadde a
terra con un poderoso fragore. Si abbassò istintivamente, sapendo però che non
c’era luogo dove potersi nascondere. Non appena si riebbe gridò anche lui con
quanto fiato aveva in gola
“Reid!!Reid!!REID!!”.
Reid che era
ancora lì dentro, Reid che era con quella pazza dinamitarda, mentre lui…
Si slanciò
verso l’entrata dell’edificio, incurante dei richiami di Hotch e di quelli dei
vigili del fuoco. Doveva entrare, doveva trovarlo, solo questo importava.
“Fermatelo!!Fermatelo!!” sentì
qualcuno urlare alle sue spalle.
“Jason!!!NO!” Braccia
muscolose lo afferrarono saldamente da dietro.
Lui si
divincolò.
“tenetelo,
tenetelo!!”.
“lasciatemi!
Lasciatemi, Lasciatemi andare!!! Devo entrare! Lasciatemi!!”.
Ci vollero
quattro uomini per tenerlo fermo.
“LASCIATEMI!”.
Non gli
importava se i vetri, a contatto con la sua guancia, gli ferivano il volto
lasciandovi rivoletti di sangue.
“Signore non
può entrare!”.
In quel
momento un pompiere uscì sorreggendo una figura quasi irriconoscibile.
“UN’AMBULANZA, PRESTO!” gridò
“C’E’ UN FERITO GRAVE!”
Era
un’attesa interminabile.
Da quando
avevano seguito l’ambulanza ed erano arrivati lì, avevano perso il senso del
tempo: ma era evidente che quella sala operatoria era chiusa da troppe ore.
Dopo lo
shock iniziale, e il tentativo di gettarsi in un palazzo in fiamme, Gideon
sembrava essersi chiuso in un imperscrutabile silenzio.
“Jason…” la
mano di Hotch batté sulla sua spalla “non potevi andarci tu, lo capisci? Non
potevi andarci tu. Spettava a lui, lo sapevi quanto me. E lui…è stato
bravo…”
Lo sguardo
di Gideon fissava il pavimento.
Certo che
sei stato bravo, Reid. Sono così fiero di te…
Appoggiò la
fronte fra le mani: non rispose.
Che senso
aveva, in fondo, ammettere che non potevano fare altrimenti? Lo avrebbe fatto
sentire sollevato? Avrebbe riportato indietro il tempo? Avrebbe salvato la vita
di Reid?
Erano tutti
lì, raccolti insieme come una famiglia smarrita: Hotch che gli teneva la mano
sulla spalla, Morgan che camminava su e giù, come una tigre in gabbia, Prentiss
in piedi, con le spalle appoggiate al muro, Garcia che si mordeva le unghie.
D’un tratto
JJ balzò in piedi.
“Qualcuno
vuole un caffé? Siamo…qui da ore e…” sforzò un sorriso gentile, uno dei suoi.
E scoppiò in
lacrime.
Per un
istante, Gideon desiderò alzarsi, e passare una carezza su quella testa
bionda.
Non ci
riuscì.
Lo fece,
invece, Morgan, che le mise un braccio attorno alle spalle e la portò fuori.
Poi la porta
si aprì ed Hotch si alzò, andando incontro al medico che era appena uscito.
“L’intervento può dirsi
riuscito, ma le lesioni riportate sono gravi. Il giubbotto antiproiettile in
parte lo ha protetto…e probabilmente si trovava a distanza dall’ordigno, quando
è esploso…”
“…mi stava
telefonando…” mormorò Hotch, quasi senza tono “…forse si era allontanato da lei,
per chiamarci…”
Il medico
continuò, lento, impersonale.
“Le sue
condizioni sono ancora critiche. Non posso sciogliere la prognosi. La famiglia è
stata avvertita?”
La voce di
Gideon si fece udire come un sussurro.
“Siamo noi
la sua famiglia…”
Il dottore
alzò un sopracciglio: non aveva sentito.
“Siamo noi
la sua famiglia” ripeté Jason, sollevando la testa “…posso vederlo?”
“Gideon…”
Lui si alzò,
facendo leva con le braccia, e si avvicinò al medico.
“La prego,
me lo lasci vedere…”
Vedere…non riusciva a
vedere…
Gli
sembrava di sentire delle voci…una pronunciava il suo nome…
“Spencer…cos’hai, stai
male?”
Mamma…sei
tu? Io…non vedo niente …non…
“Spencer,
tesoro…non rispondi alla mamma?”
…non ci
riesco…non riesco a parlare…sto così
male…Mamma…ho paura…
“Non fare
così…va tutto bene. La mamma resta con te, adesso…”
Sì…rimani…rimani…passerà.
Passerà se resti…
“Ti leggo
qualcosa Spencer, vuoi…?”
Oh, dio,
sì…leggi, mamma. Sono passati così tanti anni…! Leggi per me…
“ “Mi
chiedevo che ore potessero essere” “ la voce di Gideon leggeva chiara e lenta,
dolcemente “ “sentivo il fischio dei treni che, più o meno lontano, come il
canto di un uccello in una foresta, segnando le distanze, mi descriveva la
distesa della campagna deserta, dove il viaggiatore si affretta verso la
stazione successiva…” “
La porta si
aprì piano.
“Basta così,
Gideon. Devi andare a casa, ora. Ti do il cambio io…”
Jason fece
cenno di no con la testa, e richiuse il libro tenendo il segno con un dito.
“Non sono
stanco”
“La tua
faccia dice il contrario. Coraggio, Morgan ti dà un passaggio”
Gideon non
diede segno di volersi alzare: il suo corpo stesso non ne aveva la forza. Era
sveglio da più di 48 ore, e ormai gli sembrava che le sue gambe si fossero
radicate a quel pavimento, e che non ne sarebbero più state sciolte. Mai più, se
Reid non si fosse svegliato.
“Sembra che
dorma, vero?”
Hotch prese
una sedia, e si sedette accanto all’amico.
Se non fosse
stato per tutte quelle apparecchiature di monitoraggio, le bende che gli
avvolgevano il braccio che restava fuori dalle lenzuola, e la garza che gli
copriva la tempia e il sopracciglio destro, il viso di Reid sembrava veramente
quello di una persona serenamente addormentata.
Invece, la
realtà di fatto era che il loro collega era entrato in coma dopo l’intervento, e
i medici non erano in grado di prevedere come si sarebbero evolute le sue
condizioni.
Gideon era
rimasto sempre lì, gli aveva parlato, gli aveva letto i suoi libri preferiti. A
volte, semplicemente, era rimasto fermo a guardarlo, tenendogli la mano come se,
in assenza di parole, quel contatto potesse trasmettergli il messaggio che non
lo avrebbe lasciato solo.
Perché era
questo che Spencer Reid gli aveva chiesto, nel suo modo implicito e riservato,
sempre, da quando avevano cominciato a fidarsi l’uno dell’altro: di non
essere lasciato solo da lui, da Jason Gideon. Ed egli, anche lui nel suo
modo mai diretto, mai invadente, lo aveva guidato per mano, gli aveva insegnato
“a fare scacco in tre mosse”, gli aveva fatto capire di essere parte integrante
di un gruppo, gli aveva ripetuto, tutte le volte che ce ne era stata
l’occasione, che lo stimava, che era orgoglioso di lui, che gli voleva bene.
E gli aveva
insegnato che non c’era bisogno di un’arma per uccidere.
Forse, tutto
ciò che Reid era diventato, la sua bravura, la sua sicurezza, la determinazione
con cui non aveva esitato a salire lassù, e a trattare con una pazza che lo
aveva ridotto così, erano state colpa sua. O forse, lui era solo uno stupido
presuntuoso nel pensare una cosa del genere, e Reid aveva salvato otto persone –
e si era lasciato ridurre così – solo perché era veramente speciale.
“Tu sai come
ha fatto a convincerla, Hotch?” disse ad un tratto, rompendo il silenzio.
“Non c’ero.
Non posso saperlo”
“Io sì”
sorrise Gideon “Io lo so. L’ha trattata come una madre, ha fatto leva sul suo
istinto materno e l’ha fatta sentire…esattamente come fa sentire noi, Aron. In
colpa se non riusciamo a proteggerlo. Se non ci prendiamo cura di lui…”
Appoggiò la
sua mano su quella di Reid
“Hai fatto
così, vero, razza di genio…?”
Immaginò che Reid sollevasse le
sopracciglia con aria di sufficienza e poi facesse uno di quegli strani sorrisi
dei suoi, che sembravano sempre dire due cose diverse insieme “sì, è vero, sono
un genio” e “no, non ho fatto quel granché”.
“Senti Jason” la voce di Hotch
stavolta era dolcemente ironica “fare lo sciopero del sonno non servirà a
guarire Reid”
“Lo so” rispose, abbozzando un
pallido sorriso “è per me che lo faccio”
Non ci fu bisogno di dirsi altro.
Aron Hotchner era un eccellente profiler e un amico fraterno, avrebbe potuto
leggergli la mente. Sapeva che quell’impotenza lo rodeva dentro, sapeva cosa
significava per lui non poter far niente per salvare qualcuno.
“Vado a prenderti una
coperta…”
All’inizio fu doloroso: la luce
era tagliente e gli occhi si richiusero subito. Ma poi, con dolcezza, il
tepore del sole gli scaldò le palpebre, che sbatterono un paio di volte,
lentamente. Era mattino, lo riconobbe subito: c’era quel tipo di luminosità
tenue, discreta, che gli era sempre piaciuta tanto. Mamma, alzati. Non
vedi che bella luce? Mamma, alzati…ti prego… Dov’era? Voleva girare
la testa per guardarsi attorno, ma si sentiva come inchiodato: sembrava che il
suo corpo si fosse afflosciato come un pupazzo di stoffa. Cos’era
successo? Ricordava il pianto di una donna, e poi… …poi aveva sentito la
voce di sua madre, che leggeva un libro. Ma no…non era lei. Non era stata la
mamma…era… “…Gideon…” Gli occhi di Reid si erano spostati al lato del
letto, dove una persona dormiva, con una coperta sulle spalle, e la fronte
appoggiata sulla sua mano. Adesso la realtà cominciava a mettersi a fuoco e
l’udito rimandò al suo cervello i lievissimi suoni degli apparecchi di
monitoraggio, e il profondo silenzio di quella asettica stanza di
ospedale. Il grosso libro dalla copertina rossa era appoggiato sul comodino,
accanto ad un bicchier d’acqua mezzo vuoto e ad un paio di occhiali. La
fronte di Gideon era calda e pesante, sulle sue dita. Reid non ebbe il coraggio
di muoverle: lo guardò dormire come aveva fatto tante volte, in quella luce del
mattino, con sua mamma. Ma Jason non era come lei: non gli chiedeva di essere
protetto. Semmai, era lì per proteggere lui. Spencer socchiuse gli
occhi. Si sentì immensamente sereno.
La guancia di Gideon era ancora
solcata dai visibili segni lasciati dalle lenzuola. Si era addormentato proprio
in una posizione strana. Da quando si era svegliato, non aveva detto quasi
niente: aveva semplicemente sorriso da un solo lato della bocca, con quel
sorriso dolce e paterno che rivolgeva soltanto a Reid. Poi aveva telefonato
ad Hotch. “stanno venendo qua…” disse “…ti senti stanco? Vuoi che li faccia
entrare uno ad uno…?” Spencer fece cenno di no col capo “…voglio vederli
tutti insieme...” Inaspettatamente, la mano di Gideon calò sulla sua testa,
in una carezza gentile. “ricordi qualcosa di ciò che è successo?” “poco o
niente…è tutto confuso…come in sogno…” “meglio così. Meglio così. Ma se
presto o tardi ti capiterà di ricordare, ci sono tre cose che devi tenere a
mente” lo guardò con aria complice “la prima, è che sei stato bravo. La seconda,
è che otto persone sono vive grazie a te…” Reid lo guardò, e gli rivolse un
sorriso d’intesa, che voleva dire tante cose. “e la terza…?” “Sì, sono
fiero di te, ragazzo…” pensò Gideon, ma scrollò il capo e rispose: “…La
terza, è che non devi azzardarti mai più a farmi spaventare così!” Gli
scompigliò i capelli, e Spencer rise. Hotch e gli altri entrarono poco dopo:
trovarono Jason seduto sulla stessa sedia, che spiegava al suo giovane collega
le strategie migliori per batterlo a scacchi…
This
Web Page Created with PageBreeze
Free Website
Builder
|