HUNTING
Al Princeton Plaisboro Teaching
Hospital le voci giravano più velocemente di quanto la vastità dell’ospedale
potesse far pensare.
Quando poi l’oggetto di tali voci
era Lisa Cuddy, il capo, il passaggio di informazioni era particolarmente
rapido.
Così erano passati solo pochi
minuti dal momento in cui Cuddy, come ogni giorno, aveva percorso i pochi metri
che separavano la porta d’ingresso dal suo ufficio, che la notizia aveva già
fatto il giro dell’ospedale: niente tailleur oggi per il loro capo, ma solo un
semplicissimo paio di jeans.
House si bloccò di colpo in mezzo
al corridoio, costringendo Chase a cambiare rapidamente direzione per non
finirgli addosso. Tagliò la strada ad un’infermiera, facendole cadere le
cartelle che aveva in mano.
“Oh mi scusi…” Chase si chinò per
aiutarla.
Quando si rialzò, salutando con
un cenno la donna, House non si era mosso di un centimetro, e guardava nel nulla
con un insolito sorriso dipinto sulle labbra.
Il caos che si era creato,
sembrava non averlo toccato.
Sembrava assente ma in realtà era
perfettamente conscio di quello che accadeva attorno a lui; in particolare, era
sintonizzato su una conversazione di un gruppo di infermiere poco distanti da
loro: aveva sentito la parola magica, “Cuddy”, e il suo fino udito aveva
improvvisamente escluso ogni stimolo, per concentrarsi esclusivamente su quella
conversazione.
Adorava il gossip, e la categoria
“speculazioni sulla vita di Lisa Cuddy” era la sua preferita.
“E’ successo qualcosa?” chiese
l’intensivista, guardandosi attorno per capire cosa poteva aver visto il
diagnosta.
“Zitto!” ordinò House.
Chase corrugò la fronte perplesso
e, rassegnato, appoggiò le spalle alla parete e incrociò le braccia sul petto,
aspettando che il suo capo tornasse in sé per riprendere la diagnosi
differenziale che stavano facendo fino a poco prima.
Dopo qualche decina di secondi,
come se niente fosse, House ricominciò a camminare.
“Sei un idiota.”
“Perché?” Chase lo raggiunse con
rapidi passi.
“Non può essere morbo di Crohn.
Dimmi perché.”
“Ehm…”
“Torna solo quando l’avrai
scoperto, hai il permesso di chiedere suggerimenti ai tuoi compagni di
classe.”
“E tu dove vai?”
“Nell’ufficio di Cuddy. Pare che
oggi ci sia uno spettacolo interessante lì dentro…vado a garantirmi un posto in
prima fila.”
Spalancò la porta senza un minimo
di esitazione, come faceva di solito.
Aveva già pronta una frase ad
effetto per metterla in imbarazzo e potersi così godere l’espressione stupita
che tanto adorava vederle in viso.
Non accadde niente di tutto
questo, perché l’ufficio di Lisa Cuddy era vuoto.
House rimase qualche istante con
la maniglia della porta ancora in mano, e la fronte corrugata dall’espressione
perplessa.
Poi fece un passo indietro,
richiuse la porta, e si diresse verso la prima infermiera di passaggio.
“Hai visto Cuddy?”
“No.” lo liquidò questa, senza
fermarsi né guardare chi le stava parlando.
House la seguì con lo sguardo
finché non sparì nel corridoio, indispettito da tale mancanza d’attenzione nei
suoi confronti.
In quei pochi istanti pensò a una
decina di modi con cui vendicarsi, ma quei dolci pensieri furono interrotti dal
passaggio dell’assistente di Cuddy.
“Ehi!” la prese per un braccio,
assicurandosi così l’attenzione cercata. “Cuddy non è nel suo ufficio.”
“Lo so.” si limitò a dire la
donna, guardando con astio la presa del diagnosta sul suo braccio.
“Devo vederla urgentemente. Dai
un senso al tuo lavoro aiutando un povero zoppo a cercarla.”
Lei si liberò della stretta di
House, con un sorriso di circostanza. “La dottoressa Cuddy è uscita poco fa dal
suo ufficio, ma dev’essere nei dintorni. E’ molto strana stamattina…e mi ha dato
un sacco di scartoffie da compilare. Temo che dovrà cercarla da solo.”
Detto questo, si allontanò
rapidamente.
“E’ molto strana stamattina…” House
assaporò quelle parole, considerandole la premessa di una giornata molto
interessante.
Buttò uno sguardo attorno a lui,
al via vai di gente: di Cuddy nessuna traccia.
Non che fosse un problema, lui
sapeva benissimo dove trovarla.
La gamba gli faceva male, era
stanco ed irritato.
Era stato alla nursery, aveva
interrotto una riunione in sala convegni, era tornato almeno tre volte
nell’ufficio di Cuddy ed era anche entrato in tutti i bagni delle donne,
colpendo ogni singola porta delle toilette con il suo bastone: aveva ricevuto
insulti da diverse signore, ma nessuno di questi gli aveva provocato quel
sottile piacere che solo gli epiteti che lei gli assegnava sapevano
sollecitare.
Quando un giovane medico del
pronto soccorso gli aveva detto di averla vista in laboratorio, era stato anche
lì, ma solo per sapere, da un altro specializzando idiota, che era andata via da
poco, non sapeva dove.
Nel frattempo, il suo
cercapersone era suonato diverse volte: i suoi assistenti lo stavano cercando da
parecchio tempo.
Ci mancava anche quella.
Suonò l’ennesima volta e gli
venne una gran voglia di schiantare quel piccolo mostro tecnologico contro il
muro. Lo afferrò e alzò il braccio verso il soffitto, pronto per il lancio.
Un’infermiera si era bloccata in
mezzo al corridoio, e lo fissava terrorizzata, stringendosi al petto una
cartella.
Stava per far partire il lancio
quando sentì una salda presa al polso; si voltò di scatto, irritato da
quell’intromissione.
Wilson lo fissava ammonitore.
“Stavi per scagliare il tuo cercapersone contro il muro, House? Sei nervoso? C’è
qualcosa di cui mi vuoi parlare?”
Il diagnosta si liberò con uno
strattone dalla presa e riportò la mano alla tasca. “Dov’è Lisa Cuddy?” gli
chiese, scandendo bene le parole.
Wilson aggrottò le sopracciglia,
perplesso. “Sei arrabbiato con lei?”
“No!” esclamò House esasperato.
“Devo solo vederla! Sono due ore che giro per l’ospedale e sembra sempre che mi
sia sfuggita per un soffio!”
Wilson inclinò leggermente la
testa, studiando attentamente l’amico.
House ingoiò una pillola di
Vicodin, reggendo il suo sguardo.
“Ti stai distruggendo la gamba da
due ore per vedere Cuddy?! Ha per
caso qualcosa a che fare con le voci che stanno girando sul suo abbigliamento di
oggi?”
“Certo!” esclamò House, incredulo
davanti all’indifferenza dell’oncologo “E’ un evento unico nel suo genere! Lisa
Cuddy non ha mai rinunciato ad urlare il suo potere qui dentro con i suoi
impeccabili tailleurs, e un paio di jeans indicano che ha abbassato la guardia…
Perché?! Dev’essere successo qualcosa…”
Wilson lo osservò fissare il
vuoto pensieroso per quasi un minuto, poi fece un bel respiro profondo e
appoggiò una mano sulla spalla di House, attirando la sua attenzione.
“Tu sei pazzo.” gli disse,
facendo seguire una debole pacca sulla spalla alle sue parole.
Poi passò oltre, allontanandosi
con passo deciso.
“Wilson!”
L’oncologo si voltò quando sentì
il suo nome.
“L’hai vista o no?” chiese House,
come se si fosse già dimenticato le parole dell’amico.
“Dovevo passare nel suo ufficio
stamattina ma non c’era. Al cercapersone non mi risponde. Se la trovi ricordale
il nostro appuntamento.” rispose.
House abbassò lo sguardo alla
punta del suo bastone, e lo osservò disegnare piccoli cerchi sul pavimento,
mentre rifletteva in modo ormai ossessivo su dove avrebbe potuto trovare il suo
capo che, a detta di tutti, si aggirava indisturbata per l’ospedale, visibile a
tutti, tranne che a lui, con quell’affascinante anomalia che le fasciava i
fianchi, le gambe…
“House!”
La voce della sua giovane
assistente lo fece trasalire.
“Che c’è?” chiese, seccato da
quella nuova intrusione.
“Ti abbiamo chiamato diverse
volte sul cercapersone.”
“Oltre a questa ovvietà hai
qualcosa di interessante da dirmi?” rispose provocatorio, sventolandole il
cercapersone sotto il naso, che indicava in numero di chiamate a cui non aveva
risposto.
Cameron sospirò, abituata ormai
alle sfrecciatine del suo capo. “Il fegato del paziente è collassato, è molto
raro nel morbo di Crohn, ma esclude di netto le altre ipotesi a cui avevamo
pensato. Quindi ci rimane solo quella.”
“Ogni ipotesi fatta in mia
assenza ha un potenziale di imbecillità altissimo.” House le rispose
distrattamente, mentre percorreva con gli occhi i visi di tutte le persone di
passaggio nel corridoio, sperando di scovare quello di Cuddy.
“Le ipotesi in tua assenza sono
le uniche che possiamo fare…in tua assenza.” insisté Cameron.
House sembrò non averla
sentita.
L’immunologa fece per
allontanarsi da lui, poi si voltò un’ultima volta. “Stiamo comunque facendo i
test per verificare il morbo di Crohn.”
“Chi vi ha dato
l’autorizzazione?!” chiese House, contrariato.
“Cuddy.” rispose la dottoressa,
prima di avviarsi verso il laboratorio.
House la osservò allontanarsi per
qualche istante, prima di rendersi pienamente conto di quello che gli aveva
appena detto, e inseguirla con l’andatura più veloce che la gamba malata gli
permetteva.
“Dove l’avete vista?!” chiese a
Cameron, che si voltò stupita dell’improvvisa vitalità che aveva colto il suo
capo.
“L’ho incontrata in corridoio e visto che
non ci rispondevi le ho chiesto il permesso di fare i test. E’ venuta in
ufficio, le abbiamo parlato del caso e le è sembrato ragionevole…”
“Ok ok, ma come l’hai
trovata?”
“In che senso…?”
“Era strana?”
“Si…sembrava molto stanca. In
effetti, aveva qualcosa di strano che però non sono riuscita ad identificare. E’
come se l’avessi incontrata al supermercato invece che qui in ospedale… Insomma,
non so… Meno autorevole del solito. Era…” Cameron cercava di descrivere senza
successo qualcosa a cui non riusciva a dare un nome.
“Cameron.” House blocco il flusso
di parole senza senso della sua assistente, che lo guardò perplessa. “Cameron,
aveva i jeans.”
L’immunologa spalancò gli occhi,
in un’espressione di genuina sorpresa, che ad House ricordò pericolosamente
quella di un bambino. “Aveva i jeans! E’ vero! Ecco cosa c’era di strano!”
“Fate i test.” tagliò corto il
diagnosta, prima di darle le spalle e ripartire per la sua prossima
destinazione: gli spogliatoi.
Era “strana”, era “stanca”…forse
sarebbe potuta anche andare in uno di quei posti dell’ospedale che di solito non
frequentava mai: gli spogliatoi e la sala dove i medici provavano a riposare un
po’ nei lunghi turni notturni.
Non ci aveva ancora pensato,
perché era convinto che Cuddy non fosse in grado di rilassarsi neanche
immergendosi in una vasca da bagno con acqua bollente ed essenze profumate dopo
aver preso una dose notevole di Vicodin, figurarsi se ci provava in un buco
frequentato da dipendenti pronti ad approfittarsi di ogni sua debolezza.
In effetti l’idea dello
spogliatoio era pessima, ma era comunque l’ultima che gli era rimasta.
Con la gamba sempre più dolorante
e i nervi a fior di pelle per quella ricerca estenuante, si diresse nella “zona
relax” dell’ospedale.
Spalancò la porta, aspettando di
trovare qualche specializzando imbambolato davanti alla televisione.
Nulla di tutto ciò: la sala era
deserta.
Buttò una rapida occhiata al
calcetto, che era l’unico motivo per il quale anche lui e Wilson, ogni tanto,
scendevano in quel tugurio in cui i medici si spogliavano della loro professione
per diventare comuni uomini e donne stanchi, sudati e annoiati.
L’unico rumore che si sentiva era
il ticchettio dell’orologio a muro, che segnava le 11.30 in punto. In effetti,
il cambio di turno era passato da un po’, chi aveva finito era già a casa e chi
aveva iniziato era nel pieno del delirio che attraversava l’ospedale prima di
pranzo: esami, operazioni, visite.
House avanzò lentamente nella
stanza, ormai rassegnato all’idea che probabilmente si sarebbe perso l’evento
del giorno.
Ad un certo punto sentì un debole
suono provenire dagli spogliatoi, dove c’erano gli armadietti della maggior
parte dei medici, e dai quali si accedeva alle docce. Era qualcosa che
assomigliava ad un sospiro…
Socchiuse gli occhi, cercando di
concentrarsi su quel suono.
Si mosse lentamente verso l’altra
porta, che socchiuse facendo attenzione a non fare il minimo rumore.
Deserta anche quella stanza.
Ormai, però, era sicuro che lei
fosse lì da qualche parte.
Avanzò, tenendo sollevato da
terra il bastone per non rompere il silenzio; pochi secondi dopo lo teneva a
mezz’aria davanti a sé, come un’arma.
Fu così che varcò la soglia della
zona docce, con il bastone sollevato in aria e un’insana espressione sul
viso.
Quando la vide, non riuscì a
muovere un muscolo e rimase in quella posizione minacciosa, mentre il suo
cervello elaborava l’insolita immagine che si trovava davanti.
Lisa Cuddy era seduta per terra,
sul pavimento bagnato e sporco delle docce, con la schiena e la testa appoggiate
alla parete e le braccia che cingevano mollemente le ginocchia.
I capelli erano bagnati e le si
appiccicavano disordinati al collo e al contorno del viso, mentre qualche ciocca
più lunga le scendeva fino alle spalle, bagnandole la camicia color
vinaccia.
E…aveva i jeans, ma ad House in
quel momento lo scopo della sua estenuante caccia era sfuggito di mente,
estasiato com’era da un’anomalia molto più complessa e intrigante.
Non si era accorta di lui: aveva
gli occhi chiusi ed immersa nei suoi pensieri. Non dormiva, di questo House ne
era sicuro.
Si avvicinò a lei ancora di
qualche passo, talmente concentrato nel tentativo di non far rumore che si
dimentico di tirare giù il suo bastone.
Così, quando lei aprì gli occhi,
trovò un uomo che la fissava dall’alto, pericolosamente vicino e, soprattutto,
con un bastone sollevato minaccioso in sua direzione.
Riconobbe subito House, ma prima
che la ragione agisse sui suoi muscoli, l’istinto l’aveva già spinta ad agire:
aveva lasciato improvvisamente le ginocchia, puntando le mani a terra pronta a
sollevarsi da terra; gli occhi spalancati e un’espressione spaventata sul volto.
Il diagnosta non si aspettava di
vederla muovere, e quando fece quello scatto improvviso, si spaventò anche lui,
e indietreggiò rapido di un passo.
“HOUSE!!!!!” Lisa urlò, indignata
da quell’incursione nella sua privacy.
House abbassò lentamente il
bastone, senza staccarle gli occhi di dosso e senza dire una parola.
“Ma cosa stai facendo?! Volevi
uccidermi?!” il tono di voce della donna si abbassò un po’, ma non perse
d’aggressività.
House percepì però una tonalità
nuova: la sua voce aveva forse tremato?
Gli vennero in mente una
cinquantina di battute splendide sul fatto che l’aveva spaventata così tanto da
averla quasi fatta piangere, ma l’anormalità di quella situazione lo confondeva
troppo, e preferì studiarla ancora qualche istante, prima di avventurarcisi.
Le si avvicinò e le porse una
mano.
Lisa rimase a fissarlo qualche
secondo, prima di accettare quell’aiuto; poi afferrò saldamente la mano di
House, che la sollevò da terra con un gesto veloce.
Indugiò qualche istante di
troppo, stringendo con le sue le dita della donna; lei lo guardò
interrogativa.
“Hai la mano gelata.” disse lui,
lasciando la presa e portandosi la mano in tasca, come per voler riporre al
sicuro quella sensazione così insolita.
Lisa si strinse le dita con
l’altra mano, mentre cercava di riprendere a respirare regolarmente:
quell’apparizione improvvisa l’aveva scossa parecchio.
“Si può sapere che ci fai qui?!”
chiese al collega, non appena fu sicura di aver riacquistato il completo
controllo della sua voce.
House non rispose; la fissava
dall’alto del suo metro e novanta, come se la stesse studiando, come se stesse
frugando dentro di lei in cerca di una risposta.
“House!” gli afferrò una spalla,
scuotendolo leggermente. “Cosa. Ci. Fai. Tu. Qui.?” ripeté, prima di
interrompere il contatto fisico che, some sempre quando erano per qualche motivo
da soli in una stanza, percepiva come qualcosa di potenzialmente pericoloso.
Dopo qualche secondo di
esitazione, il diagnosta si voltò dandole le spalle, e fece qualche passo
lontano da lei; poi si girò ancora e tornò a fissarla.
Scosse la testa, con un mezzo
sorriso stampato in faccia.
Lisa lo guardava perplessa e
sempre più a disagio; House era solito studiare spesso il suo abbigliamento, in
cerca di uno spacco o di una scollatura, e la cosa non la infastidiva ormai più,
era anche riuscita ad ammettere a se stessa che quel gioco malizioso la
intrigava parecchio. Adesso però sapeva perfettamente cosa vedeva House: era
senza tacchi, quindi molto più bassa del solito, la sua camicia era sgualcita e
bagnata, i capelli appiccicati al viso, un paio di vecchi jeans al posto dei
suoi soliti tailleurs e tutto il trucco che aveva era un po’ di mascara che
aveva preso in prestito dalla sua assistente, senza che lei lo sapesse
ovviamente.
“Sono ore che ti cerco.” le disse
il diagnosta, senza perdere l’espressione divertita che aveva sul volto.
“E i tuoi assistenti sono ore che
cercano te. Ho dato loro il permesso per verificare il morbo di Crohn sul tuo
paziente.” rispose lei, cercando di portare la conversazione su un argomento
puramente professionale.
Come se ci fosse la possibilità
che House la lasciasse in pace senza ottenere prima quello che voleva…
Tutti facevano finta di niente,
ma lui no; per quello che era tutto il giorno che cercava di sfuggirgli. Pensava
di essere al sicuro lì, e invece…
“Sono ore che ti cerco, dopo aver
saputo che oggi sfilavi con un guardaroba casual.”
Lisa alzò gli occhi al
soffitto.
“Ti cerco per vedere finalmente
le forme del tuo fondoschiena risaltate da un paio di jeans aderenti, e ti trovo
in tenuta da casalinga alle prese con le pulizie di primavera.” House indicò con
un gesto verso di lei che, inevitabilmente, si fece scappare un sorriso “Cuddy,
quei jeans saranno due taglie più grosse della tua! Certo che tu sai come
deludere un uomo!”
House se l’era sempre cavata
benissimo a raggirare gli altri con le parole, ma sicuramente non poteva mentire
a se stesso: sapeva di essere attratto da lei, ma in nessun momento, come ora,
il bisogno di toccarla era stato così forte.
Non sapeva perché era conciata in
quel modo, ma percepiva per la prima volta il suo lato più fragile, più umano e
si scoprì ad adorarlo più di quella sicurezza e quell’aggressività che credeva
essere il motivo principale per cui la desiderasse così tanto. Oltre al suo
corpo, ovviamente.
Lisa non disse nulla, limitandosi
a portarsi le mani ai capelli per raccoglierseli in una coda, che poi lasciò
andare. Fece ricadere le mani lungo i fianchi, in un gesto impotente.
Bastò questo a stordire House
ancora di più.
Le anomalie e i comportamenti
insoliti stavano diventando decisamente troppi, e la smania di scoprire cosa
stesse dietro ad un’irregolarità, era stata ormai sostituita dall’inquietudine
che quell’insieme di particolari fuori ordine gli stavano provocando; per quanto
amasse le anomalie, House aveva paura dei cambiamenti.
“Cos’è successo? Ti sono entrati
i ladri in casa e ti hanno rubato tutti i tailleurs di Armani, lasciandoti solo
i jeans di quando eri una grassa adolescente senza amici?”
“Non so se hanno preso anche
quelli, non ho avuto il coraggio di andare fino in camera da letto.”
House corrugò la fronte. “Ti sono
entrati davvero i ladri in casa.”
Lisa annuì e, a disagio, si mise
la mani in tasca.
House le si avvicinò e, senza
esitazione, le prese i polsi e le tirò fuori le mani dalla tasca, lasciandoli
subito dopo. “Adesso non esagerare. Lisa Cuddy non si mette le mani in
tasca.”
Lei lo guardò confusa, mentre
cercava di ricacciare indietro le lacrime che aveva trattenuto fino a quel
momento.
Quei bastardi erano entrati in
casa sua mettendo tutto a soqquadro. Era riuscita ad arrivare al salotto, ma poi
la rabbia per vedere infranta in quel modo violento la sua privacy aveva avuto
la meglio, insieme alla nausea che le dava il pensiero di gente che frugava nei
suoi cassetti, tra le sue cose. Aveva chiamato la polizia ed era andata ad
affittarsi una camera nell’hotel più vicino. Aveva incontrato la sua vicina, che
l’aveva convinta a fermarsi da lei almeno per un tè, almeno finché non si fosse
calmata un po’. Aveva accettato perché odiava essere scortese, ed era rimasta
calma anche quando, scossa almeno quanto lei, la sua anziana vicina le aveva
rovesciato il tè bollente sui vestiti che indossava. Aveva declinato con un
sorriso l’offerta di comprarle una gonna nuova e, dopo aver ringraziato per il
tè, era andata a parlare con la polizia e con qualche altro vicino, sperando che
qualcuno avesse notato qualcosa di strano quel giorno a casa sua.
Si era così fatta sera quando si
era ricordata che il giorno dopo sarebbe dovuta essere in ospedale prestissimo
per una telefonata importante che attendeva, e che non avrebbe avuto tempo di
passare a comprare qualcosa da mettersi. Di tornare a casa, non ci pensava
nemmeno: avrebbe mandato qualcuno a mettere in ordine e solo dopo sarebbe
entrata di nuovo. Solo il pensiero delle sue cose in mani d’altri le faceva
venire voglia di urlare, non voleva vedere nulla che le facesse venire in mente
quel pensiero. Aveva trovato un supermercato ancora aperto, che certamente non
vendeva tailleurs. Quel paio di jeans era la cosa più simile ad un capo
d’abbigliamento decente che aveva trovato. Aveva pagato in fretta, senza neanche
provarli.
Era arrivata in hotel, si era
spogliata con l’idea di farsi una doccia, ma era crollata sul letto esausta. Non
aveva avuto neanche la forza di versare quelle lacrime che reprimeva dal
pomeriggio, perché di piangere davanti ai suoi vicini o alla polizia non ci
pensava nemmeno.
Le uniche persone che l’avevano
vista piangere erano state i suoi genitori e il suo primo fidanzato, e ricordare
quei momenti la faceva ancora sentire terribilmente stupida.
Ovviamente non aveva puntato la
sveglia, e si era svegliata giusto in tempo per indossare la camicetta del
giorno prima, rimasta miracolosamente illesa e i jeans che aveva comprato, per
poi correre in ospedale.
Non si era immaginata che un
semplice paio di jeans potesse provocare quegli sguardi e tutte quelle frasi
dette a mezza voce tra il personale dell’ospedale, finché non lo aveva visto con
i suoi occhi.
Aveva fatto quello che doveva
fare e poi si era rifugiata lì, l’unico posto dove era sicura, a quell’ora, di
non incontrare praticamente nessuno. Si era lavata i capelli, per distrarsi dai
pensieri che le si accavallavano nella testa.
Non voleva tornare a casa, non
voleva sapere cosa le avessero preso, ne cosa avessero fatto a casa sua. Non
voleva aver paura a passare la notte nel suo letto…
Era riuscita però a non piangere,
fino a quel momento.
Fino a che non aveva visto negli
occhi di House, l’ultima persona al mondo a cui avrebbe voluto mostrare un solo
accenno di debolezza, quanto i suoi tentativi di apparire tranquilla e
impeccabile come al solito fossero stati inutili.
Non riuscì più a trattenerle; le
lacrime incominciarono a rigarle il viso, senza che potesse fare niente per
controllarle. Non voleva piangere davanti a lui, non voleva piangere davanti a
nessuno, ma quello che lei voleva non riusciva ad avere la minima influenza sul
suo corpo.
All’inizio furono solo lacrime
silenziose, che segnavano la sua espressione atterrita.
House fu colpito da una serie di
emozioni che faceva fatica a riconoscere, e a tollerare.
Cuddy in lacrime era una
situazione che non si era mai immaginato e che non aveva idea di come gestire;
se fosse stato qualcun altro, chiunque altro, avrebbe trovato una frase che
contenesse la parola “patetico” e avrebbe levato le tende in fretta. Invece, non
riusciva a muovere un muscolo, né a trovare qualcosa da dire. Le parole che gli
uscirono dalla bocca furono solo un tentativo di difendersi dal forte senso di
impotenza che lo aveva colto: “No…Cuddy ti prego non metterti a piangere.”
Solo un sussurro, una preghiera
detta in un momento di difficoltà.
Si trovavano lì, uno di fronte
all’altra, lei che piangeva e lui che la fissava terrorizzato.
Fu Lisa la prima a muoversi.
Non riuscì più a reggere quello
sguardo e, dopo aver soppesato l’ipotesi di fuggire, decise che l’alternativa
che aveva era altrettanto patetica, ma probabilmente era quello di cui aveva
bisogno: fece quel passo che la separava da House e gli appoggiò fronte e mani
sul petto, incominciando a singhiozzare.
“Oddio…” House alzò gli occhi al
soffitto, mentre uno strano impulso lo coglieva: quello di stringerla forte e
consolarla.
Provò tenerezza per lei, e un
bisogno di proteggerla così istintivo che riuscì a fatica a dominare. Ma riuscì
a farlo, almeno per qualche secondo.
Poi vide le sue mani posarsi
sulla testa della donna, e percorrere i suoi capelli bagnati fino alle spalle.
Una strana rabbia lo colse: lei
non doveva essere così, questo rompeva le regole del loro gioco!
Ci mise qualche minuto a capire
che la rabbia che provava era tutta per quei bastardi che erano entrati in casa
sua, sconvolgendola in questo modo.
Quando questo dato arrivò alla
sua coscienza, si accorse che il tocco stentato con cui l’aveva sostenuta fino a
qualche istante prima si era trasformato in un abbraccio: ora la stringeva
forte, cingendole le spalle e premendo la guancia sulla sua testa bagnata.
Stranamente, non si sentì un
idiota sentimentale.
I singhiozzi di Lisa smisero
gradualmente, e dopo diversi minuti in quella posizione, si accorse che si era
calmata.
Ora però, sciogliere l’abbraccio
diventava complicato: avrebbero dovuto guardarsi, magari dirsi anche
qualcosa.
Anche Cuddy doveva aver avuto lo
stesso pensiero, perché sembrò stringersi ancora di più a lui, come a voler
fuggire a quello che sarebbe venuto dopo.
“Spero che il mascara che rende
le tue ciglia così sexy sia waterproof.” forse una via per uscire incolume da
quella situazione, House l’aveva trovata.
Una via familiare ed
accogliente.
Lisa staccò la fronte dal suo
petto, guardandolo solo per un istante prima di sciogliere anche l’abbraccio.
“Non lo so, non è mio. L’ho rubato a Christina.” rispose, con la voce ancora
tremante.
House rimase a guardarla, con le
mani ancora sulle sue spalle: era sconvolta, di una bellezza sconvolgente.
Abbassò lo sguardo sulla sua
maglietta, notando che era bagnata delle sue lacrime. “Rimborsa l’ospedale per
questa?”
Lei sorrise e House non poté fare
a meno di fare lo stesso. “La prossima volta che metti in giro la storia del
jeans attillato per adescarmi e usarmi come amichetta del cuore in qualche
meandro dell’ospedale, giuro che ti sputtano davanti a tutti.”
“Perché, ora non lo farai?” gli
chiese lei, guardandolo seria.
“Hai idea della fine che fa la
mia reputazione se questa storia dell’abbraccio si viene a sapere in giro?!”
chiese lui, fingendosi scandalizzato.
“Allora sono io che ho il
coltello dalla parte del manico!” esclamò Lisa, continuando a sorridere.
“Ah no, Cuddy! Anche tu hai una
reputazione da difendere. Mi ammazzeresti se ti minacciassi di raccontare in
giro che ti sei messa a piangere come una bambina tra le mie braccia!”
Lisa non replicò, perché aveva
ragione.
Senza che se ne rendesse conto,
le scese ancora una lacrima, ciò che restava di emozioni tristi che se ne
stavano ormai andando.
“Ora che hai scoperto che basta
qualche lacrima per farmi correre da te hai deciso di andare avanti a piangere
per il resto dei tuoi giorni?!” House non perse l’opportunità di punzecchiarla
ancora un po’ per quella sua così tenera debolezza.
Cuddy si asciugò la lacrima con
un gesto veloce, decidendo che ormai era venuto il momento di ricomporsi, prima
che House si fosse approfittato troppo di quel momento di fragilità. “Veramente
sei tu che mi sei corso dietro per tutto l’ospedale solo perché qualcuno ti ha
detto che avevo i jeans!” gli fece notare lei, incrociando le braccia con aria
di sfida, decisa a riprendere la sua posizione di potere.
“Certo! Ma immaginavo tutt’altro
modello, non questo…” tornò a posare lo sguardo sui suoi fianchi, cercando delle
parole che trasmettessero indignazione, mentre istinti più primitivi gli
comunicavano che aveva addosso ancora il suo odore, che la sua maglia era ancora
calda per le lacrime e il respiro di lei, e che le sue piccole mani, mentre si
staccavano dal suo petto, avevano indugiato in quella che poteva essere
interpretata come una carezza. Tutti questi dettagli gli impedivano di
concentrarsi sulla loro solita guerra verbale.
“Non sapevo fossi appassionato di
moda femminile, la prossima volta cercherò di non deludere i tuoi gusti!” disse
la donna, assecondandolo.
“Sarà meglio.”
Decise che era un buon momento
per tagliare la corda, prima che lei gli leggesse negli occhi quanto quel loro
piccolo momento d’intimità l’avesse turbato.
Aveva già raggiunto la porta
quando Cuddy lo chiamò.
Si voltò, guardandola.
“Grazie…per aver sopportato il
mio sfogo.”
Lui annuì appena, e la fissò
dritto negli occhi per qualche istante di troppo.
Si girò ancora verso la porta, ma
ormai quello sguardo gli era entrato nella testa, e aveva mandato a puttane la
sua fidata ragione, che gli urlava di andar via di lì prima di combinare qualche
danno irreparabile.
Tornò a voltarsi verso di lei,
che era nella stessa identica posizione di prima: in piedi, le mani chiuse l’una
nell’altra, gli occhi rossi.
La raggiunse con lunghi passi e
agì talmente in fretta che Lisa non fece neanche in tempo a sorprendersi.
La chiuse ancora in
quell’abbraccio che avevano sciolto da poco, ma invece di farle spazio sul suo
petto, abbassò la testa incontrando la sua bocca a metà strada.
Premette le labbra su quelle
della donna, mentre l’abbraccio protettivo si trasformava in qualcosa di meno
innocente: una delle mani del diagnosta le percorse la schiena in una carezza di
fuoco, mentre con l’altra le cingeva la nuca, attirandola ancora di più a
sé.
Lei inizialmente accettò
passivamente quel contatto, senza il coraggio di fare nulla, sconcertata da
quello che House stava facendo, e soprattutto dal modo in cui il suo corpo
reagiva.
Dopo alcuni secondi le labbra di
lui non le bastarono più, e socchiuse la bocca, cercando un contatto più
profondo.
Quando le loro lingue si
incontrarono, improvvisamente anche Lisa capì cosa stava realmente succedendo, e
quanto fosse lontano da quello che sarebbe dovuto succedere in quel
momento. Prima o poi la ragione avrebbe prevalso su uno di loro, interrompendo i
brividi di piacere che provava, così come la sensazione di essere parte di
qualcosa di perfetto.
Gli passò le braccia attorno al
collo, attaccandosi a lui come se fosse stato l’unica che poteva salvarla
dall’oblio della razionalità.
E probabilmente lo era
davvero.
Quel bacio fu tanto lungo e
intenso da risultare quasi doloroso. Si staccarono solo quando incominciò a
mancar loro l’ossigeno.
I loro sguardi, inevitabilmente,
si incontrarono.
“Prego…” disse House.
Poi le sfuggì, scomparendo rapido
dalla porta, senza voltarsi questa volta.
Lisa si passò una mano dietro al
collo, continuando quella carezza che le stava piacendo così tanto, e che si era
così improvvisamente dissolta.
La paura e la rabbia per quello
che era accaduto a casa sua erano scomparse, così come la sensazione di gelo che
la coglieva ogni volta che i pensieri correvano a delle mani sconosciute che
frugavano tra le sue cose.
Ormai c’erano solo il calore di
un abbraccio e il desiderio innescato da un bacio.
Un giorno qualcuno le disse che
l’amore può far dimenticare tutte le cose brutte che intralciano la nostra
vita.
In pochi istanti, quelle parole
sgretolarono il muro di razionalità che le aveva imprigionate fino a quel
momento e si fecero largo nel suo cervello fino a raggiungere il centro dei suoi
pensieri, dal quale potevano essere ammirate, così perfette come solo la verità
sa essere.
Ai ladri non ci pensava più, ma a
quel bacio si.
Semplice, lineare.
Vero.
EPILOGO
Anche quel giorno la voce di
corridoio gli arrivò pochi minuti dopo che aveva messo piede in ospedale.
Appena sentì un’infermiera
pronunciare a mezza voce a una collega “E’ ancora in jeans…”, abbandonò a metà
una delle sue maratone diagnostiche che stava svolgendo con i suoi assistenti
per raggiungere rapidamente l’ascensore. I tre giovani medici lo seguirono per
un po’, poi si accorsero che lo scopo per cui House camminava non era più lo
stesso, e si fermarono osservandolo allontanarsi.
Un minuto dopo era davanti
all’ufficio di Cuddy.
Spalancò la porta; lei era seduta
alla sua scrivania, la testa sollevata dalle carte che aveva davanti, lo sguardo
tranquillo fisso nel suo.
Lo stava aspettando.
Puntò il bastone in sua
direzione, cercando di celare con quel gesto plateale, l’impazienza che lo
governava.
“Questa volta non mi costringerai
a darti la caccia per tutto l’ospedale!” esclamò.
Lei sorrise, realmente divertita
da quello sfogo esasperato.
Si alzò e girò lentamente attorno
alla sua scrivania.
House seguì ogni suo movimento
con lo sguardo.
Quando l’ostacolo della scrivania
non fu più tra loro, abbassò gli occhi sulle sue gambe.
Un paio di jeans aderenti le
fasciava i fianchi in modo sublime.
Lisa fece un giro su se stessa,
spalancando le braccia. “Contento?” chiese, rassegnata, al collega.
“Wow!” esclamò House, guardandola
finalmente negli occhi.
Rimasero in piedi, uno di fronte
all’altra, entrambi con il ricordo di quel bacio ancora sulle labbra, ed
entrambi improvvisamente incapaci di muovere un solo muscolo.
House l’avrebbe baciata ancora,
ma non adesso.
Lisa avrebbe ancora appoggiato le
mani sul suo petto, o portatogli le braccia al collo, ma in un altro
momento.
Quell’istante servì solo a far
capire ad entrambi che quello che ricordavano con una piacevole morsa allo
stomaco, sarebbe successo ancora.
Quella certezza, per ora, era
abbastanza.
FINE
Vally
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Editor
Fanfic scritta per il contest "Cuddy in jeans" del forum huddy (http://huddy.forumfree.net/)!
Dedicata a tutte le pazze del forum, che mi fanno tanta compagnia in queste
giornate oberate di studio...
Alla prossima,
Vally
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