Is it only
wonder or
do
birds still sing for you?
And all I
want is the taste
That
your lips allow
Era una delle
cucitrici del Vicolo dei Linaioli, e se ne stava in bilico in
quell’età in cui le ragazze non sono
più bambine ma non hanno ancora raggiunto
l’età da marito. Teneva i capelli castani legati
in una serrata treccia a spiga, perché così era
di abitudine tra chi era impiegato nei lavori di tessitura e filatura.
Ma nelle sere d’estate li scioglieva, lunghi sulle sue spalle
e sui suoi vestiti stretti in vita.
Danzava nella corte
esterna del castello di Ombra come una tempesta furiosa o come una
libellula delicata, sulla scia del ritmo ora incalzante ora struggente
dettato dagli strumenti dei suonatori. Il suo nome era Caterina;
così la chiamavano le compagne tra un ballo e
l’altro, annunciando il nome di quell’amica che era
appena arrivata o di quell’apprendista che avevano deciso
sarebbe stato l’oggetto delle loro attenzioni per quella
serata. Ma lei non aveva occhi che per lui, per il giovane mangiafuoco
che nell’angolo della piazza faceva i suoi spettacoli con
fiori di fuoco e scintille.
Il Popolo dai Mille
Colori poteva vantare molti buoni artisti, ma Caterina era convinta che
lui fosse il migliore di tutti. Lui con il fuoco aveva un legame
speciale: non si limitava a farselo strusciare sulla pelle come un
gatto subdolo, ma lo carezzava come avrebbe fatto con una fanciulla
innamorata, incoraggiandola con parole dolci e facendola trionfare
gloriosamente davanti a tutti.
Ogni volta, dopo aver
danzato ed essersi abbuffata di mirtilli sottratti di nascosto dal
banchetto della frutta, Caterina seminava le sue frivole amiche e,
facendosi spazio tra la folla raccoltasi attorno al mangiafuoco, andava
a sedersi in prima fila, le gambe incrociate e lo sguardo fisso su quel
mantello sporco di fuliggine che si dimenava come un paio
d’ali.
Spesso se ne andava
prima che lui terminasse il suo numero, silenziosa quanto la martora
che lui si portava sempre appresso, ma ogni tanto era successo che
l’avesse aiutato a ritirare il suo materiale - le fiaccole
annerite, le palle colorate, le bottiglie di vetro. E in quei momenti,
oh, il sorriso gentile e un po’ sfrontato che lui le
rivolgeva la ripagava di tutti i rimproveri che riceveva a casa per
essere tornata più tardi del previsto.
Poi, alla festa
d’autunno, lui aveva fatto fiorire un bocciolo fiammeggiante
ai suoi piedi e lei non era corsa via dopo avergli dato una mano con le
sue cose. Erano andati via insieme, lui con il suo inseparabile zaino
sulle spalle e lei con le dita macchiate di fuliggine.
« Devo
andare
a sciacquare le bottiglie, mi accompagni? » le aveva chiesto
mentre passavano di fronte a un incantatore di serpenti.
«
Sì »
aveva accettato lei entusiasta. « Mi chiamo
Caterina. »
« Dita di
Polvere. Ti piacciono i miei spettacoli? »
« Li adoro,
sei molto bravo. Ti chiami davvero “Dita di
Polvere” o è un nome d’arte? »
«
È
il mio nome» confermò lui. « Ci sono
nato, con le fiamme sui polpastrelli. »
« Non fatico
a crederlo » rise Caterina.
Era iniziata
così; con il ruscello, gli schizzi, i sassi scivolosi, il
capitombolo in acqua e lui che l’aveva accompagnata fin sotto
casa, i randagi che gli insidiavano le caviglie.
«
È
stato molto divertente » aveva detto lei, i capelli umidi
annodati sulla nuca. Lui le aveva preso le mani e le aveva posato un
bacio veloce sulle labbra, prima di scomparire furtivo
nell’oscurità del vicolo.
A partire da quella
sera erano diventati inseparabili, rapiti entrambi dalla dolce
spensieratezza degli amori adolescenziali; le fughe nel bosco, i
pomeriggi passati a imitare il verso delle allodole, i numeri che Dita
di Polvere improvvisava per lei: tutto sembrava far parte di un sogno
da cui Caterina sperava di non doversi svegliare mai.
Ma arrivò
l’inverno, e suo padre le trovò un posto sulla Rosa del deserto,
una nave mercantile diretta alle lontane terre orientali, dove avrebbe
rammendato e cucito per il comandante e per i suoi uomini; e lei fu
costretta ad abbandonare tutto: le amiche, le feste, la musica e Dita
di Polvere. Aveva protestato, aveva difeso i suoi sentimenti e i suoi
desideri con rabbia, ma l’inflessibilità di suo
padre aveva avuto la meglio: sarebbe partita, avrebbe fatto il suo
dovere a bordo e poi avrebbe trovato un buon partito tra i ricchi
commercianti di oltremare, in modo da sostenere economicamente la
famiglia come ci si aspettava dal primogenito.
Il giorno in cui la
nave salpò, Dita di Polvere nemmeno venne a salutarla;
Caterina conosceva la sua indole codarda e la sua avversione per i
sentimentalismi, eppure non riuscì a perdonarlo per non
averle lasciato un ultimo bacio da poter rivivere sulle labbra per
sentirsi meno lontana. Durante la traversata e le frequenti soste nei
porti principali della tratta, vide numerose meraviglie: banchi di
coralli e spiagge bianche, uova di drago e piccole sculture di vetro
soffiato; ma ogni sera si ritrovava a passeggiare sul bagnasciuga, i
sandali in mano, e immaginava di danzare tra le onde e di vedere
sbocciare corolle di fuoco dall’acqua torbida.
*
Give me
love, like her
‘Cos
lately I’ve been waking up alone
Dita di Polvere
inspirò a pieni polmoni. Aria di casa,
avrebbe potuto pensare. Certo, c’erano bancarelle di
pasticcini al miele, banchi di spezie provenienti da oltremare,
folletti dei cristalli che sporgevano le loro braccine sottili oltre le
sbarre di ferro delle gabbiette in cui erano rinchiusi; eppure come
avrebbe potuto godere di tutto questo quando ciò per cui era
tornato, ciò per cui quei dieci anni erano stati
maledettamente lunghi, non c’era più?
Passò di
fianco a uno storpio che chiedeva l’elemosina,
superò un crocicchio di bambini che giocava a campana e si
inoltrò nel Vicolo dei Linaioli, senza vedere davvero i
contorni di ciò che lo circondava. Avrebbe fatto riparare il
suo farsetto e poi sarebbe tornato sulle piazze, a fare
l’unica cosa che dopo tutti questi anni gli era rimasta; al
diavolo i sogni, i sentimenti, la cieca ripugnanza nei confronti delle
fiamme che gli avevano portato via la sua donna.
Oltrepassò
l’entrata della prima bottega che trovò,
lasciandosi di lato la porta di legno rovinata dalle intemperie e
logorata dal passare del tempo - come lui, un guscio vuoto che non
apparteneva più a nulla se non a se stesso.
« Salve
»
disse, rivolgendosi all’anziano appollaiato dietro il
bancone. « Le tarme hanno intaccato il mio mantello; riesce a rattopparmelo entro il tramonto? »
Il sarto
valutò i buchi nella stoffa, poi chiamò una delle
cucitrici impegnate nel locale attiguo.
«
Sarà
necessario un lavoro di precisione » le comunicò
una volta che lei lo ebbe raggiunto. Dita di Polvere le rivolse
un’occhiata distratta: l’unica donna di cui gli
importava più ormai era sua figlia Brianna, che a sentire
Balla con le Nuvole si era trasferita in pianta stabile negli
appartamenti della Brutta. Irraggiungibile, quindi - quasi
quanto le
altre due.
« Ho
già riparato danni simili. L’indirizzo a cui
consegnarlo? » chiese la donna rivolgendosi direttamente a
lui. Teneva il mantello tra le mani come se fosse un’oggetto
prezioso, e non una vecchia e lisa pezza di tessuto qual era in
realtà.
« Aspetto qui fuori; non sono un uomo molto
impegnato » rispose Dita di Polvere rivolgendole una smorfia
triste. Lei annuì, poi scomparve nuovamente nel retrobottega.
Salutato il sarto con
un cenno della mano, il mangiafuoco andò a sedersi sui
gradini di pietra sbeccata lì di fronte; poi estrasse alcune
palle dallo zaino e cominciò a farle roteare descrivendo un
ovale sopra la sua testa. I suoi movimenti svelti erano ormai
automatici al punto da potersi permettere di lasciarsi distrarre dalle
immagini che gli affollavano la mente, e subito una piccola fattoria in
rovina apparve davanti ai suoi occhi come una visione.
Non ce
l’aveva fatta a non recarsi nel luogo in cui lei aveva
cessato di vivere, dove il fuoco aveva divorato Roxane, vesti, carni,
cuore, tutto. Aveva visto i muri anneriti, le piante infestanti che
ricoprivano il pozzo, il recinto del pollaio marcito dalla pioggia:
ogni cosa trasudava odio e dolore. Un nome era uscito dalla bocca
inizialmente reticente di Balla con le Nuvole: Volpe di Bragia, con la
sua banda di incendiari orfani di Capricorno. Da quel momento, ogni
notte nei suoi sogni Dita di Polvere vedeva quell’odiato viso
cavallino contorcersi nelle fiamme, e il mantello di code di volpe
prendeva vita e azzannava il suo padrone ancora e ancora.
*
Lo aveva riconosciuto
subito, nonostante le cicatrici sul volto e lo sguardo carico di
dolore. Certo, erano passati tanti anni dall’ultima volta che
lei bambina gli aveva sfiorato il viso, ma Dita di Polvere sembrava
invecchiato di una vita intera.
Caterina
carezzò la stoffa e la tese per controllare che il rammendo
fosse sufficientemente resistente. Era tornata ad Ombra tre anni prima,
sfuggita al marito che non aveva mai desiderato come una lepre che
sguscia dalla gabbia in cui è stata rinchiusa. In abiti
maschili, si era intrufolata come mozzo su una tartana diretta alla
Rocca delle Tenebre ed era rimasta a lavorare per un periodo al
Cronicario; era lì che aveva risentito il nome di Dita di
Polvere, un nome che portava con sé tanti ricordi e
altrettanti rimpianti. Il Barbagianni ne parlava spesso, anche se erano
ormai tre anni che di lui non si sapeva più nulla, scomparso
come la neve sulle cime dei pini in una mattina di sole. Poi Caterina
era ripartita: era tornata all’ombra dei merli del castello
che tanto aveva amato da ragazza, convinta che se Dita di Polvere
avesse fatto ritorno era in quel luogo che l’avrebbe
ritrovato.
Lo guardò
ancora una volta dalla soglia della bottega: osservava assorto la
piazzetta in cui sfociava il vicolo, con quell’aria
malinconica che da sempre gli era caratteristica.
« Ecco,
è come nuovo » annunciò, avvicinandosi
e
porgendogli il farsetto accuratamente piegato. Bambine con nastri nei
capelli correvano sull’acciottolato, l’aria era
tiepida e il profumo intenso dei tigli in fiore si diffondeva
tutt’intorno.
« Ti
ringrazio » le disse lui, spolverandosi i pantaloni di panno
e
frugando nelle tasche in cerca di qualche moneta da darle come compenso.
« Lascia
»
lo fermò lei, toccandogli il polso in un gesto istintivo.
Poi aggiunse: « Siamo a posto così... Dita di
Polvere. »
Lui le rivolse uno
sguardo interrogativo; evidentemente il suo caschetto corto e qualche
ruga di espressione attorno agli occhi bastavano perché non
riuscisse a riconoscerla. Una consapevolezza amara si diffuse nella
mente di Caterina; troppo tempo, troppe persone, troppe vicissitudini
li avevano tenuti lontani.
« Noi ci
conosciamo » gli ricordò, raccogliendo le falde
della gonna e sedendosi accanto a lui. « Ricordi il ruscello
delle allodole? »
Un bagliore di
comprensione attraversò le iridi del mangiafuoco, e
l’ombra di un sorriso apparve sulle sue labbra screpolate.
« Ciao, Caterina. »
Lei annuì;
dopo così tanti anni il suo nome continuava a sembrare
più bello, se pronunciato dalla voce di Dita di Polvere.
« Ho saputo
delle tue perdite. Ti sono vicina, lo sai »
sussurrò con tono dispiaciuto. Ricordava perfettamente la
sera in cui il Barbagianni aveva ricevuto la pergamena che annunciava
la tragedia, e Bella accasciata su una sedia, il volto rigato di
lacrime. Roxane faceva spesso visita al Cronicario; arrivava ogni volta
all’alba con una mula carica di erbe medicinali e impacchi
curativi per i malati.
« Avrei
dovuto esserci » mormorò lui, il viso sfregiato
tra
le mani ruvide. « A me il fuoco avrebbe dato
ascolto. »
« Non
incolparti; gli incendiari sono crudeli, avrebbero potuto uccidervi
tutti comunque. A loro basta una coltellata tra le scapole, non
gl’importa dell’onore. »
« Non potevo
tornare, capisci? » proseguì Dita di Polvere.
« Ci ho provato, ogni giorno per dieci anni; ma di cento
tentativi e altrettante speranze, uno per uno si sono rivelati vani. Ho
tradito, ho commesso degli errori; tutto ciò che ho fatto
è stato sempre e solo per poterle rivedere. Ma ho
fallito. »
Alcune cose suonavano
strane e incomprensibili all’orecchio di Caterina - che luogo orribile
è, quello da cui non riesci a fuggire per dieci anni?
-, ma preferì non fare ulteriori domande per non far
rivivere a Dita di Polvere ulteriori sofferenze.
In un frullar
d’ali, un uccellino grande quanto una mano umana si
posò ai piedi del mangiafuoco; piegò il capino e
scrutò i suoi lunghi capelli con i suoi attenti occhi neri.
Poi, con un gorgheggio gioioso, spiccò il volo e scomparve
oltre i tetti e le grondaie.
« È
stata soltanto la mia immaginazione o gli usignoli cantano ancora per
te? » sorrise Caterina.
« Festeggiano
il mio ritorno » scherzò Dita di Polvere, lo
sguardo perso nel cielo azzurro.
« Lo
indosserai stasera? » gli chiese, porgendogli il farsetto
dalle ampie maniche.
« È
quello che devo fare » rispose lui, atono.
« Presto
ritroverai la tua passione, ne sono sicura » lo
incoraggiò Caterina stringendogli una mano tra le sue.
« Verrai a
vedermi? »
« Sai che
verrò. Verrò sempre. »
*
C’è
un mangiafuoco che si esibisce in un angolo buio della corte esterna
del castello di Ombra, e i suoi germogli di fuoco sbocciano come mille
stelle appena nate. E c’è una donna che lo
osserva, un po’ in disparte rispetto alla calca di curiosi.
Molti la conoscono come la cucitrice di Mastro Giorgio; altri - le
malelingue, specialmente - come colei che è fuggita dal
marito e ha gettato disonore sulla sua famiglia; altri ancora come la
giovane donna che balla alle feste, la gonna lunga a sfiorarle le
caviglie. Non si tratta di Roxane, né lei desidera prendere
il suo posto ora che la ferita causata dalla sua morte brucia ancora
nel cuore di Dita di Polvere. Caterina ha scelto di stare vicino
all’uomo che ha amato, e rispetta il suo dolore cercando di
dargli affetto e conforto. Un giorno, forse, si ameranno di nuovo, e
torneranno al ruscello delle allodole come due giovani innamorati.
Frida’s
corner ~
L’idea per
questa storia è nata per Daniela, perché oggi
è il suo compleanno e scriverle una Caterina/Dita di Polvere
mi sembrava potesse essere un regalo gradito. ♥ Questo al principio,
perché poi plottando la storia le cose si sono rivelate
più complicate di come in realtà avevo
immaginato, ed è stato necessario fare un minimo (si fa per
dire) cambiamento rispetto al Canon: e se anche Roxane fosse
morta nel
rogo del fienile in cui ha perso la vita il suo secondo marito?
Come avrete
senz’altro capito, ai tempi della prima parte i due
protagonisti hanno circa tredici anni (in Veleno
d’Inchiostro
Fenoglio dice a Meggie che la seconda figlia di Minerva ha preso marito
all’età di quattordici anni); mentre nella seconda
parte (spero di aver fatto i conti giusti) ne hanno circa una trentina.
Il titolo è
una frase della meravigliosa canzone di Ed Sheeran “Autumn
Leaves”, mentre le citazioni che aprono le due parti sono
tratte da un’altra canzone di Ed, “Give me
Love”.
Spero che la storia vi
sia piaciuta, che Dita di Polvere vi sia sembrato IC e che Caterina vi
sia risultata un personaggio simpatico - come ho voluto sottolineare,
Caterina non pretende di sostituire immediatamente il ruolo di Roxane,
ma intende essere prima di tutto un appoggio per la povera anima
spezzata di Dita di Polvere. Un po’ come ha fatto Resa nel
nostro mondo, per intenderci.
Grazie per aver letto,
grazie di cuore.
Frida
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