Note
dell’autrice:
scusate
se aggiorno fuori tabella di marcia, ma non so se domani sera o
giovedì sarò in
grado di raggiungere un pc, per cui lo faccio ora. Grazie infinite dei
bellissimi commenti <3
II
Riaprì
gli occhi nella quiete serale della sua stanza, illuminata dalla luce
delle
candele.
Sua
madre emise un singhiozzo sollevato e si sporse sul suo letto per
baciargli la
fronte.
“Sherlock,
caro, finalmente sei sveglio. E’ tutto finito.” Gli
accarezzò i ricci sudati,
le lacrime agli occhi. “Siamo salvi.”
Sherlock
battè le palpebre. L’aria era piena di pace
ritrovata; non c’era più nessuna
traccia di distruzione o di urla o di colpi di fucile.
“Per
quanto ho dormito?” chiese con voce roca. Sua madre si
affrettò a versargli un
bicchiere d’acqua e glielo porse. Sherlock lo bevve tutto in
tre lunghi sorsi.
“Eri
stremato dalle forti emozioni e dal calore. Sei rimasto privo di sensi
per così
tanto tempo.” Si asciugò gli occhi con un
fazzoletto. “Tre giorni interi. Io e
il capitano Watson eravamo divorati dalla preoccupazione.”
Sherlock
si mise seduto contro i cuscini. Qualcuno lo aveva spogliato,
mettendogli la
camicia da notte. I muscoli gli dolevano e si sentiva la testa come
piena di
spilli dolorosi.
“Il…
Capitano Watson?” chiese confuso, massaggiandosi le tempie.
Sua
madre sospirò mettendosi una mano sul petto.
“Il
tuo salvatore. Il nostro
– la sua
guarnigione ha scacciato i russi, appena in tempo.” Sorrise
con aria sognante. “E’
venuto più volte a informarsi delle tue condizioni. Un
impeccabile gentiluomo.”
Sherlock
congiunse le punte delle dita sotto il mento. Cercò di
concentrarsi: le sue
memorie di quel giorno erano vaghe e confuse.
Ricordò
due occhi di un blu tempestoso, minacciosi e dolci a un tempo.
Ricordò il gesto
di premersi un pezzo di stoffa sul viso. Ricordò una mano
che lo aiutava ad
alzarsi.
Nient’altro.
“Ditemi,
la sua guarnigione è ancora in città?”
chiese.
“Sì,
caro.”
Sherlock
annuì, pensieroso.
“Desidero
vederlo per esprimergli la mia gratitudine” disse infine.
Sua
madre si alzò in piedi.
“Darò
disposizioni perché venga domani. Ora torna a
riposare.”
*
La
mattina seguente, Sherlock, di nuovo in forze, si mise di
buon’ora nel suo
studio e si dedicò a riempire i suoi taccuini con i
risultati di vecchi
esperimenti.
Verso
le undici qualcuno bussò alla porta.
“Sì?”
disse, senza alzare lo sguardo dai fogli.
“Un
capitano John Watson, signore, del Quinto Fucilieri di
Northumberland.”
Sollevò
la testa. Il suo maggiordomo lo guardava con espressione neutra, in
attesa di
una risposta.
Sherlock
si alzò in piedi.
“Fatelo
entrare, grazie.”
L’uomo
annuì e richiuse nuovamente la porta dietro di sé.
Sherlock
si sistemò il colletto della camicia, lisciò la
piega dei pantaloni e controllò
che i gemelli fossero allacciati con cura.
Poco
dopo si sentì di nuovo bussare.
“Prego.”
Entrò
un uomo in divisa militare, di statura modesta, biondo e
dall’aria garbata. Sherlock
ne riconobbe gli occhi: un azzurro cupo che dava l’aria di
poter facilmente
essere dolce come minaccioso.
John
Watson gli sorrise.
“Marchese”
disse, dopo essersi inchinato. Sherlock lo imitò.
“Sono felice di sapere che vi
siete ripreso.”
Aveva
un’espressione sincera e aperta. Sherlock sollevò
un angolo delle labbra.
“Se
ho potuto riprendermi in primo luogo, è grazie a voi. E, vi
prego, chiamatemi
Holmes.”
Gli
porse una mano. Dopo una breve esitazione, John Watson la strinse.
Sherlock
sentì un brivido caldo scorrergli lungo il braccio e
potè giurare di averlo
avvertito anche nell’altro uomo. Per un attimo una strana
armonia, un
inspiegabile senso di completezza lo invase.
Sciolse
in fretta la presa e tornò a sedersi, indicando al suo
ospite di fare
altrettanto.
“Prego,
mettetevi a vostro agio, così potremo parlare più
comodamente del modo in cui potrò
sdebitarmi per quello che avete fatto.” Allargò il
suo sorriso, che raggiunse
gli occhi. John Watson si illuminò. “Anche se
penso non vi sia un corrispettivo
materiale per la dignità di un uomo, o per la sua
vita.”
John
Watson fece per parlare, ma poi si accorse che il maggiordomo degli
Holmes li
stava osservando impettito dalla porta e si interruppe.
Sherlock
sospirò.
“Vi
prego di scusarmi, ma sono un omega non reclamato e in molti casi non
ho diritto
alla discrezione.” Le sue parole grondavano disprezzo; il
maggiordomo si mosse
da un piede all’altro, a disagio. “Pare che non sia
sicuro lasciarmi solo con
un alfa.”
John
Watson gli rivolse un’occhiata colma di dispiacere, ma non di
pietà. Poi
distolse in fretta lo sguardo e si mise a giocherellare con i guanti
che teneva
in mano.
“Credetevi
quando vi dico che il solo pensiero di farvi danno mi
addolora” disse piano.
Sherlock
batté le palpebre, per un momento preso alla sprovvista da
quella misteriosa
affermazione. Poi torno in sé e si mise a riordinare
meccanicamente i suoi taccuini
sulla scrivania.
“Mi
avete salvato la vita. Sono un uomo con abbondanza di mezzi. Chiedetemi
quello
che volete, e io ve lo darò” disse in tono pratico
ma benevolo. “Qualsiasi
cosa.”
John
Watson allargò gli occhi per la sorpresa prima di scuotere
la testa con decisione.
“No,
no, no. Non sono venuto per ottenere qualcosa in cambio. Quel che ho
fatto l’ho
fatto per dovere e… Per voi.”
L’onestà nel suo sguardo era quasi sconcertante.
Sherlock ne fu colpito. “Solo per voi.”
Calò
un breve silenzio, pieno da una parte di stupore, e
dall’altra di nervosismo.
Sherlock
si schiarì la voce tentando di scuoterli da
quell’imbarazzo.
“Ma…
Ci sarà pure qualcosa che volete. Che posso
darvi,” tentò in tono ragionevole.
John
Watson lo guardò intensamente.
“Mi
basta sapere che pensate bene di me.”
Sherlock
rise.
“Avete
impedito il mio disonore, e con molta probabilità la mia
morte. Come potrei non
pensare bene di voi?” chiese sarcastico.
Di
nuovo John Watson distolse lo sguardo. Vedendo un tenue rossore
imporporargli
il collo, Sherlock eruppe in una risata profonda.
“Non
siate così modesto, capitano Watson. Ho sentito dire che
siete un eroe di
guerra. Dovreste essere abituato alle lodi.”
Fu
il torno del soldato di ridere.
“Ho
un temperamento peculiare.”
“Un
tipo di peculiare non del tutto spiacevole, allora.”
Il
rossore sulle guance di John Watson peggiorò, diventando
più che evidente.
“Io…
Ho mentito, signor Holmes” ammise, dopo aver deglutito con
fatica. Quando
sollevò lo sguardo Sherlock vide che era pieno di
apprensione. “C’è
qualcosa che vorrei.”
Sherlock
sorrise.
“Ne
ero certo. Non esitate a manifestare il vostro desiderio. Entro i
limiti del
possibile, farò di tutto per esaudirlo.”
John
Watson si alzò in piedi e pose la mano sull’elsa
della spada che portava al
fianco. Sherlock intuì che il gesto lo tranquillizzava;
dopotutto, era un
soldato. Si chiese cosa potesse incutergli tanto timore – si
chiese cosa
potesse essere così estremo da fare paura persino a un
coraggioso ufficiale
dell’esercito britannico.
“Signor
Holmes” cominciò, e i suoi occhi ardevano.
“Ve lo chiedo con la più grande
sincerità d’animo e vorrei, se possibile, che voi
rispondeste animato da un
uguale sentimento.”
Sherlock
aggrottò le sopracciglia, ma annuì.
“Avete
la mia parola, capitano.”
John
Watson aggirò la scrivania posta in mezzo a loro e gli si
avvicinò, la mascella
tesa, lo sguardo nervoso.
“Vorrei
che mi concedeste l’onore della vostra mano” disse,
scandendo le parole con
infinita cura.
Sherlock
credette di non aver sentito bene. Con la coda dell’occhio
vide che il suo maggiordomo
era rimasto a bocca aperta.
“Io…
Temo di non capire…” disse con qualche
difficoltà, il cuore che gli batteva
forte in petto per la sorpresa. Gli occhi di John Watson erano gentili
e pieni
di passione.
“Vorrei
sposarvi al più presto. Rendervi mio.” Gli
sfiorò con delicatezza una mano,
chinandosi su di lui. “Se anche voi vorrete fare lo stesso
con me.”
Sherlock
alzò il capo. Erano molto vicini, eppure non
sentì nessun famigliare sentimento
di repulsione verso quell’uomo a un tempo timido e
intraprendente che aveva
appena dichiarato di volersi legare a lui. La sua gentilezza, la sua
sensibilità e la sua empatia rendevano improbabile, quasi
paradossale la sua
natura di alfa; eppure Sherlock ancora ricordava il suo odore, quel
profumo
delizioso.
No,
non c’era nessun errore. John Watson tradiva gli stereotipi
della propria
specie: era diverso, unico.
Come
lui.
Sherlock
si alzò bruscamente in piedi.
Cosa
stava facendo? Doveva restare lucido. Ne andava del suo futuro, della
sua
libertà. Non poteva farsi abbagliare dalla gratitudine e da
una prima buona
impressione.
“Voi
non mi conoscete” disse secco, misurando a lunghi passi la
stanza. “Dite di
avere un temperamento peculiare. E’ vero anche nel mio caso:
ho trent’anni e
non sono ancora stato reclamato.” Rialzò lo
sguardo su di lui, diffidente. “Questo
non vi insospettisce? Non vi spaventa il pensiero di un omega
così contrario
all’idea di un compagno?”
John
Watson sorrise con dolcezza.
“Penso
che non vogliate un padrone, non che non vogliate un compagno. E penso
che se
fossi un omega anch’io desidererei la stessa cosa.”
Sherlock
si fermò in mezzo alla stanza. Lo guardò
esterrefatto.
“Vi
prendete gioco di me?” sibilò.
Il
capitano tornò subito serio e scosse la testa.
“No-
credetemi, no. Ho sentito molto parlare di voi. Le vostre ricerche
scientifiche, il desiderio d’indipendenza, il rifiuto di ogni
alfa abbastanza
coraggioso da proporsi a uno spirito così libero. So che vi
dipingono come
arrogante e…” si interruppe e deglutì,
a disagio, “e… pazzo… e vogliate
scusare
queste parole che non sono le mie. Credetemi quando vi dico che da quel
poco
che ho avuto modo di conoscervi, non mi sembrate né
arrogante né pazzo. Penso
che siate straordinario.” Si avvicinò a lui in due
passi, gli occhi vivi e
adoranti. “E che non intendo tarparvi le ali né
costringervi a nulla che voi
non vogliate. Desidero solo avere l’onore di essere il vostro
alfa.”
Sherlock
socchiuse gli occhi, un ghigno pericoloso sulle labbra.
“Voi
non sapete quello che dite” sussurrò tagliente.
“Ve ne pentireste. Oh, ve ne
pentireste. Se voi ora mi state mentendo, prima o poi sareste costretto
a
rivelare la vostra vera natura. Mi verreste in odio. Di conseguenza, mi
adopererei in ogni modo per rendere la vostra vita un inferno. E vi
posso
assicurare che ho una mente molto attiva e fantasiosa.” Il suo
ghigno si allargò.
“Avreste pace solo durante il mio calore… Ma,
conoscendomi, forse neanche in
quella circostanza.”
John
Watson gli si avvicinò tanto che le loro fronti quasi si
sfiorarono. Non
sembrava sentirsi affatto minacciato né offeso da quelle
parole così
irrispettose - dette da un omega, per di più. Aveva scoperto
i denti e i suoi
occhi erano diventati scuri, ma a Sherlock sembrarono più
sintomi di
eccitazione che di rabbia.
“No”
disse roco. “Voi, voi non
sapete cosa
dite, se pensate che me ne potrei pentire anche solo per
un’ora.”
Poi
sorrise. Provocatorio. Languido.
“Signore-”
si intromise debolmente il maggiordomo, che sembrava sconvolto dalla
situazione
che si era venuta a creare.
Sherlock
prese un grosso respiro, poi si raddrizzò, allontanando il
viso da quello
dell’alfa.
Era
la prima volta in vita sua che veniva pervaso da una simile sensazione
di frenesia,
fatta eccezione per i giorni del calore.
Era
intrigato. Voleva. Desiderava. E non si sentiva umiliato, né
schiavo di una
natura perfida e traditrice. Al contrario: si sentiva vivo. Energico.
In controllo di una debolezza che non sembrava
neanche più tale.
“Andate
a chiamare la marchesa” ordinò.
Il
maggiordomo emise una sorta di squittio.
“Ma,
signore, sapete bene che-”
“Se
al vostro ritorno il vostro padrone si dovesse lamentare di un qualche
affronto
subito, vi do il permesso di punirmi con la morte” disse John
Watson
guardandolo negli occhi. Sorrideva con aria maliziosa, ma complice.
Sherlock
sorrise a sua volta.
“Avete
sentito? Andate.”
Non
appena il servitore fu uscito, i due si riavvicinarono come attratti da
un
magnete invisibile.
“Avevo
tentato più volte di immaginare come foste fatto”
sussurrò John Watson
carezzandogli la guancia con il dorso di una mano. Sherlock gli
afferrò il
polso e ne baciò l’interno; l’altro si
lasciò sfuggire un sospiro deliziato e
sorrise. “Credevo che il vostro scarso successo in campo
amoroso derivasse da un
aspetto sfortunato, amplificato da un carattere difficile. Poi, tre
giorni fa,
vi ho visto. E…”
Sherlock
rise. Si rese conto che una forza sconosciuta sembrava avergli
sottratto peso,
lasciandolo fluttuante nell’aria. Un’euforia
misteriosa che lo galvanizzava.
“Vi
siete ricreduto?” chiese cingendogli la vita con un braccio.
John
Watson tacque e lo guardò con malcelato desiderio.
“Sì”
sussurrò sulle sue labbra. “Dio,
sì.”
Fu
un bacio colmo di rispetto, piacere, gioia. Sherlock non era abituato a
nessuno
dei tre e dovette aggrapparsi alle sue spalle per tentare di riprendere
possesso delle proprie gambe. Teneva gli occhi chiusi e si sentiva
caldo,
leggero, meravigliosamente confuso.
John
Watson si separò da lui senza fiato.
“Sposatemi”
disse con urgenza, prendendogli il viso in entrambe le mani.
“Sposatemi domani.
Ditemi di sì.”
Sherlock
appoggiò la fronte alla sua e sospirò.
“Sì.”
*
Quando
tornarono a bussare alla porta, si separarono, sorridenti.
“Prego”
disse Sherlock, gli occhi ancora fissi in quelli dell’altro.
John aveva quasi
le lacrime agli occhi.
Sua
madre entrò in un turbinio di gonne e ventaglio.
“Oh,
Sherlock, è vero dunque?” esclamò al
colmo della gioia, sfiorandogli una
guancia con una carezza.
Suo
figlio alzò gli occhi al cielo. John si schiarì
la voce e, dopo essersi
inchinato, avvicinò le labbra alla mano della donna.
“Marchesa”
disse reprimendo a stento un sorriso. Aveva notato che Sherlock
sembrava
indispettito da tutto quel giubilo. “Lieto di
rivedervi.”
La
signora Holmes rise deliziata.
“Capitano”
disse facendosi allegramente aria col ventaglio. “Voi siete
un angelo. Avete
compiuto il miracolo! Si era persa del tutto la speranza.”
John
arrossì e raddrizzò la schiena, sistemandosi a
disagio la spada sul fianco.
Sherlock emise un verso seccato.
“Vi
ringrazio per avermi presentato al meglio, madre” disse acido
indicandole la
propria sedia.
La
marchesa prese posto come una regina sul trono.
“Caro,
io ho sempre saputo della tua natura ostica, ma in fondo buona. Avevo
però il
terrore che nessun altro se ne accorgesse.”
John
sorrise con fare educato ma non commentò, visto che non
voleva offendere né
lei, né Sherlock.
“Marchesa,
l’ho già domandato a vostro figlio, ma ritengo
indispensabile anche la vostra
benedizione: vorrei avere l’onore della-”
“L’avete!”
gridò la signora, le guance rosse per
l’entusiasmo. “L’avete,
capitano!”
John
non potè fare a meno di sorridere per la gioia riconfermata,
e Sherlock,
seppure ancora infastidito, non potè fare a meno di unirsi a
lui.
“Credete
che la cerimonia possa essere celebrata in fretta?” chiese
impaziente il
capitano.
“Deve!”
rispose subito la marchesa. Sherlock digrignò i denti: aveva
paura che John ci
ripensasse, e non faceva nulla per nasconderlo. “Al
più presto.”
“Domani
due giugno sarebbe una data adatta?”
La
donna stava già per dire sì quando si interruppe
di colpo. Sherlock la fulminò
con un’occhiata.
“Temo
che questo non sia possibile, capitano” mormorò la
marchesa con aria afflitta.
“Dalla morte del mio adorato marito, la custodia di Sherlock
è passata all’unico
alfa rimasto nella famiglia: suo fratello Mycroft.”
Sospirò. “E il caro Mycroft
al momento si trova in Francia. Senza il suo permesso, Sherlock non si
può
sposare.”
John
impallidì per la delusione. Sherlock, furioso,
battè un piede a terra.
“Ridicolo!
Non sono una proprietà che si trasmetta da una persona
all’altra. Non ho alcun
bisogno del benestare di Mycroft!”
Sua
madre emise un verso di dissenso.
“Sherlock,
abbiamo già parlato di queste tue strane idee ribelli. Non
essere sciocco.
Certo che hai bisogno del suo benestare. E’ il tuo tutore; il
suo compito è di
proteggerti, di scegliere quel che è meglio per-”
“So
io quel che è meglio per me!” gridò
Sherlock, rosso in volto.
John
gli sfiorò un braccio per calmarlo.
“Non
è possibile ottenere il suo permesso via lettera?”
chiese, pallido e nervoso.
La
marchesa sembrò riflettervi su.
“Sì”
disse infine con aria penserosa. “Penso che la legge lo
consenta.” Guardò con
aria speranzosa i due, che erano ancora vicini. “Gli
scriveremo in modo che
possiate unirvi al più presto.”
|