Storia terza classificata al
contest Secondi
non vuol dire ultimi
indetto da SilverKiria sul forum di Efp-
Storia quarta classificata al
contest L'isola
che non c'è indetto da WendyNoh sul forum
di Efp.
Storia quarta
classificata al contest Non
i soliti personaggi
indetto da REAwhereverIgo sul forum di Efp.
Storia vincitrice del
premio "Miglior Storia Drammatica" al contest Qual
è la miglior Edita che abbiate mai scritto? indetto sul forum di EFP da
PhoenixQuill
Nota
legale:
Harry Potter © 1997, J. K. Rowling.
Il qui presente
intreccio è da considerarsi proprietà esclusiva
dell'autrice; pertanto, non può essere riprodotto
- totalmente o parzialmente - senza il consenso di quest'ultima.
Avvertimenti: fluff, grandissima
libertà nel trattare Penny che, di fatto, è quasi
un OC.
Note: Questa Penelope è
fortemente autobiografica, mea culpa. In realtà la Rowling
non ci dà molte informazioni su di lei, ergo, ho fatto di
testa mia. E si vede.
Il cognome di Audrey
me lo sono inventata, yay.
Penelope
aspetta
L'attesa è una curiosità
dell'anima.
(Giorgio Gaber)
Il nome è un attributo della personalità,
utilizzato per individuare e identificare una persona.
Ce ne sono alcuni che
calzano a pennello, sembrano cuciti su misura per il loro proprietario.
Penelope Clearwater
non crede al destino, è troppo razionale per farlo;
tuttavia, trova ci sia una certa ironia amara nella scelta del suo nome
di battesimo.
Penelope aspetta
seduta sulla poltrona demodé del salotto, si morde
nervosamente le labbra mentre stringe in mano un invito spiegazzato,
cercando di trovare le parole giuste con cui rispondere a
quest’ultimo.
Penelope
aspetta, lo ha sempre fatto.
Aspettava, tutti i
giorni, davanti alla scuola del suo paesino dell’Irlanda del
nord, sperduto in mezzo alle lande verdi e a strapiombo su un mare
freddo e burrascoso. Si ricorda ancora - anche adesso che ha quasi
trent’anni - quella costruzione di pietra grezza a due piani,
coperta dall’edera e dal gelsomino, con piccoli fiori bianchi
dal profumo pungente.
Tuttora non le
dispiace quella fragranza, le ricorda l’infanzia, una maestra
giovane e tutta fossette, con i capelli rossi che le ricadevano
morbidamente sulle spalle piccole; è l’odore delle
mele succose rubate a merenda dall’albero del giardino, dei
libri della biblioteca comunale, adiacente all’edificio
scolastico.
Rammenta
quest’ultima come una sala grande, con migliaia di scaffali,
lunghi e possenti tavoli di legno di quercia e storie infinite da
raccontare.
Dietro il bancone, a
sinistra dell’ingresso, sedeva una bibliotecaria indiana
minuta, gli occhi da gatta e le ciglia nere folte, che nelle
fantasticherie da bambina di Penelope era Sherazade scappata dallo
sceicco che la teneva prigioniera.
La bimba passava il
pomeriggio lì, a sfogliare il suo libro preferito, vecchi
volumi polverosi o ristampe di conosciute favole piene di colori e
disegni. Poi, alle cinque e cinque, passava suo padre a prenderla.
Il signor Clearwater
era un orologiaio e, fosse cascato il mondo, sarebbe stato
lì con la sua Golf blu lucida e il sorriso sulle labbra,
nascosto dalla barba bionda e spettinata come i capelli della sua
piccola.
E
Penelope, immancabilmente, aspettava.
La ragazza vide per
l’ultima volta la bibliotecaria il trentun agosto dei suoi
undici anni.
La mattina seguente,
dopo essere scomparsa in una nuvola di fumo verde, si
ritrovò con papà sul binario 9¾.
Non stava
più nella pelle e vedere il treno fermarsi in stazione fu un
sollievo: ci sarebbero state così tante cose nuove da
studiare, da imparare!
Una volta arrivata
nella scuola, dato il suo amore incondizionato per i libri, la
precisione e la puntualità apprese dal padre, la scelta del
Cappello Parlante (Corvonero! Gridato così forte da farle
male alle orecchie) era stata scontata.
Aveva atteso il suo
turno per sedersi sul famigerato sgabello parlando con un ragazzino con
mille lentiggini, i capelli rossi e una divisa scolorita, leggermente
consumata sui gomiti.
«Era di mio
fratello Bill» aveva confessato il suo nuovo amico, le guance
dello stesso colore della chioma e lo sguardo abbassato «lui
è molto più atletico di me … per
questo è tutta rovinata» Percy, così si
chiamava, tastò l’orlo, sorridendo timidamente
«a me piace più leggere. Spero solo di essere
abbastanza eroico da entrare in Grifondoro. Nella mia famiglia lo siamo
da generazioni» e con la punta dell’indice
indicò i fratelli maggiori, seduti alla tavolata rosso-oro.
Vedendo tutta la
trepidazione negli occhi del vicino, anche Penelope, per un attimo,
desiderò essere smistata in quella casa.
Dopo il verdetto del
Cappello, l’unico cui confidò la sua delusione fu
proprio Percy, ma lo fece solo tre anni dopo.
In fondo, era
irlandese e come diceva suo padre, loro erano un popolo orgoglioso.
Tuttavia, fin dal
primo momento, la ragazza sentì di potersi fidare del
più piccolo dei Weasley.
«Per quanto
insopportabile, egocentrico, megalomane, saccente, un cuore ce
l’hai anche tu, Percy Ignatius
Weasley»
fece divertita Penelope, per essere subito fulminata con lo sguardo dal
suo interlocutore, le orecchie rosse e due grossi tomi in mano
«O non ti saresti mai offerto di portare al mio posto questi
macigni».
Il viso della giovane
Corvonero si distese in un sorriso, mentre guardava di sottecchi
l’altro sbuffare e allontanarsi, alla ricerca di un manuale
introvabile.
Sfogliò le
pagine ingiallite del libro davanti a lei, rimuginando.
Già dal
primo anno la presenza di Percy era una costante nelle sue giornate a
Hogwarts, ma non si era mai resa conto di come fosse diventata
indispensabile.
Era sveglia, la
Clearwater - era una Corvonero, per Morgana! – ma non
riusciva a spiegarsi come si potesse essere innamorata di Percy
Ignatius Weasley.
Penelope
aspettava che Perce la invitasse a uscire.
Quando successe
davvero, frequentavano il sesto anno: erano andati a Hogsmeade a bere
qualcosa ai “Tre Manici di Scopa”, sotto lo sguardo
di Madama Rosmerta, furbo e malizioso come chi ha capito già
tutto.
Penelope si era
rovesciata addosso del the.
Percy le aveva
scattato una foto mentre, imbarazzata, cercava di asciugare il
pasticcio combinato, mormorando decine di scuse «La
Clearwater che perde il suo famoso autocontrollo è un evento
degno di essere ricordato» le aveva detto, pulendole il naso
macchiato.
Tornati a Hogwarts si
fidanzarono, ma ben presto paura e agitazione dilagarono in tutto
l’istituto.
Cattivi presagi,
rettilofoni, sangue alle pareti. Qualcosa di antico si era risvegliato
e si aggirava per i corridoi del castello.
S’imbatté
anche nella minuta corvonero, pietrificandola; stava tornando in
Dormitorio.
Penelope
aspettava – pregava –
di essere liberata.
Tornata normale, le
raccontarono di come Percy si fosse preoccupato, avesse d’un
tratto perso la sua sicurezza e la spavalderia da “Prefetto
Perfetto”.
Quella volta non
aspettò. Gli corse incontro, abbracciandolo «Ti
amo più della mia copia rilegata di “Storia della
Magia”».
Lo baciò,
ma fu uno scontro di bocche, di denti: il compagno dischiuse
timidamente le labbra, le guance in fiamme.
«Merlino,
Penny, è disdicevole, può vederci qualcuno, siamo
prefetti!» l’altra rise forte, una risata
cristallina e liberatoria, le mani intrecciate tra i suoi capelli
rossi. Era felice.
Quella gioia
durò a lungo, la giovane iniziò anche a pensare
che si sarebbero potuti trasferire in Irlanda, forse avrebbe potuto
trovare lavoro nella vecchia biblioteca del suo paese.
Avrebbe potuto aprire
un negozio di libri, o sarebbe diventata un’insegnante, per
raccontare ad altri bambini le storie che aveva appreso nel corso degli
anni – “Il Mago e il Pentolone
Salterino”, “Baba Raba” e tante altre
ancora – per rendere la loro infanzia un po’
più magica.
E invece
scoppiò la guerra. Decise di restare a combattere, serviva
aiuto: barriere da rafforzare, famiglie da consolare e decine di feriti
da curare. Aveva imparato troppo da Madama Chips per permettersi di
fuggire.
A cosa servivano, in
fondo, tutta quella cultura, tutto quel sapere, se non per essere messi
a disposizione degli altri?
Sarebbe anche potuta
essere una buona Grifondoro, migliore di Percy, meno codarda. Era
cambiato da quando aveva iniziato a lavorare al Ministero.
«È
meglio finirla qui» le era piombato alle spalle, nessuna
spiegazione, nessun ripensamento.
Il pianto era amaro
sulle labbra.
Penelope
aspettava di morire.
C’era quasi
riuscita, lasciandosi scivolare la bacchetta di frassino dalle dita
esili, non schivando volontariamente uno Schiantesimo lanciatole da un
Mangiamorte di fronte a lei.
Poi c’era
stata una spinta forte, una caduta; era circondata da calcinacci, il
viso sporco di polvere.
«E pensare
che sei stata sempre combattiva» Wood aveva
un’espressione amara a deformagli il volto. Anche lui era
venuto a combattere o, più precisamente «A
difendere le mie pluffe» aveva scherzato alzando la ragazza e
ridandole la bacchetta raccolta a terra.
«Eri la
prima della classe in Difesa delle Arti Oscure. Coprimi le spalle,
Penny».
Penelope
aspettava la sconfitta del Signore Oscuro.
Aveva una luce nuova
negli occhi: speranza.
Penelope è
seduta ancora sulla sua poltrona, rilegge per la centesima volta il
piccolo cartoncino giallo:
Audrey
Wickham e Percy Weasley
annunciano il loro matrimonio
presso la Tana
il 20 Aprile.
Distoglie lo sguardo
dalla partecipazione nuziale solo quando sente sbattere il portone di
casa.
Oliver sbuca da dietro
lo schienale, stampandole un bacio umido sulla guancia.
È sudato,
sporco di polvere e ha la divisa blu e gialla del Puddlemere United
ancora addosso.
«Abbiamo
vinto! Mi sono smaterializzato qui subito.» urla per la
stanza con lo sguardo che brilla d’orgoglio, sollevandola di
peso e iniziando a volteggiare con lei.
La compagna gli getta
le braccia al collo, tenendosi stretta per non cadere, i capelli biondi
disordinati le ricadono sugli occhi.
Accartoccia
l’invito di Percy, lo getta a terra in un punto imprecisato.
Penelope
aspettava
– tempo imperfetto.
Ora non lo fa
più.
|