Disclaimer: I personaggi non mi
appartengono, ovviamente non fanno
niente di tutto questo (ci mancherebbe anche O_o) e non sono gay, bla
bla bla,
solite cose, ormai lo sapete.
E
sì, nel caso ve lo stiate chiedendo,
il titolo è tratto dall’omonima canzone
(bellissima, tra l’altro) di Lana Del
Rey, nonostante questa non sia una song fic. E’ solo molto
pertinente col tema
trattato J
Ci
leggiamo in fondo.
Forse.
Io
ci spero.
Buona
lettura ;)
Young
and Beautiful
Jude
David Heyworth Law aveva
sempre adorato la primavera, era in assoluto la stagione che preferiva
perché
il pungente e gelido inverno lasciava spazio ad un tenue e piacevole
venticello, lo stesso che poteva accompagnarlo in città per
affari o durante le
sue passeggiate nella sua residenza di campagna.
Qui,
nello Yorkshire, i prati
verdeggiavano accompagnando la fioritura degli alberi in modo naturale
ed
artistico con i
loro colori, e ancora il
sole, non più schermato da nuvole cariche di pioggia,
avrebbe accompagnato le
sue battute di caccia e di pesca sin dal mattino.
Sì,
adorava la primavera, lo faceva
sentire vivo, totalmente estraneo al torpore invernale, che egli
ironicamente
paragonava ad un letargo dei piaceri che un uomo può godere
all’aria aperta.
Ad
onor del vero però c’erano anche
delle cose che non apprezzava molto della primavera, dei lati negativi
che
anche un uomo apparentemente mite come lui riusciva a trovare: con la primavera iniziava
la stagione mondana
nella contea, e questo voleva significare un susseguirsi infinito di
balli e
feste a cui ovviamente lui e sua moglie, colonne portanti
dell’alta società,
avrebbero dovuto presenziare. Con somma grazia della consorte, per
giunta.
Jude
ci provava. Davvero, era suo
desiderio poter cambiare opinione su queste serate di festa, ma era
più forte
di lui: odiava più di ogni altra cosa i parolieri e la
mancanza di rispetto, ed
era inutile dire che in tutti quei saloni si trovavano in abbondanza
sia l’uno
che l’altro. Lo annoiavano le tipiche chiacchiere da sala, i
pettegolezzi
frivoli che puntualmente circolavano senza fondamento, tutto quel falso
perbenismo.
Non
trovava divertenti i balli, non
era interessato a quelle cose, non lo era mai stato.
Se
c’era una cosa che Jude David
Heyworth Law apprezzava più di ogni altra, questa era la
buona dialettica, la
capacità di passare da un
argomento
all’altro con naturalezza, senza mai annoiare
l’interlocutore, esprimendo le
proprie opinioni con animo, ma al tempo stesso con cortesia, che non
doveva mai
mancare. Trovava una certa grazia in questo, un talento particolare e
certamente non comune, soprattutto se accompagnato anche da un corpo
desiderabile.
Per
sua sfortuna, sua moglie non
possedeva ne l’una ne l’altra qualità ed
era noto a tutte le malelingue di
Londra che la migliore qualità posseduta da Mrs. Law fosse
il padre Primo
Ministro, nonché una dote invidiabile.
“Signore,
vostre madre chiede di
essere ricevuta da voi”
La
voce del maggiordomo lo riscosse
dai suoi pensieri , facendogli alzare la testa dalle scartoffie su cui
era
costretto da ore.
“Fatela
entrare, grazie”
Riteneva
sua madre una donna di
rara eleganza e bellezza, ma a queste virtù si accompagnava
anche pari
austerità. Sin dalla sua nascita, sua madre aveva manovrato
le fila del suo
futuro, procurandogli la migliore istruzione scolastica, ottimi
insegnanti di
musica, le migliori conoscenze in ogni ambito, insegnandogli a fidarsi
più di
se stesso che degli altri. Dopo la morte di suo padre la situazione
peggiorò. Gli
combinò un matrimonio
vantaggioso con una donna che sperava
gli avrebbe dato presto un erede maschio, che
però ancora tardava ad
arrivare. Aveva ventiquattro anni. Non era più stato
veramente libero di essere
felice.
Nonostante
tutto però provava una
certa ammirazione per il suo intelletto, verso di lei, rispettata in
tutto il
paese.
“Altro
tè?” le chiese, accennando
alla teiera di porcellana.
“Grazie
caro, volentieri”
Prontamente
la cameriera si
avvicinò e le versò una nuova tazza di
tè, ritirandosi subito dopo per non
disturbarli oltre.
“Posso
dunque sapere a cosa devo
l’onore della vostra visita, madre?
Perché, per quanto amorevole da parte vostra,
dubito che abbiate fatto
tanta strada solo per rendermi partecipe delle come sempre buone
condizioni di
salute di mia sorella”.
Sua
madre sorrise, portandosi poi
la tazza alle labbra.
“Ho
sentito che darete un ballo
domani sera…”
“Si.
Come ogni anno Allyson ha
insistito per inaugurare la stagione” alzò gli
occhi al cielo, scocciato.
“Devi
essere più gentile con tua
moglie, Jude, è una donna adorabile” lo
rimproverò.
“Lo
è davvero” rispose più per
cortesia che per convinzione, sviando prontamente il discorso.
“Ovviamente
siete invitata, se questo vi aggrada. Abbiamo fin troppe camere vuote
qui”.
“Chi
vi presenzierà?”
Rimase
un attimo stupito dal tono
neutro con cui si era espressa.
Qualcosa
non andava, lo capiva, lo
percepiva. Aveva un pessimo presentimento.
“Tutta
l’alta società, come sempre”
rispose perplesso, non perché volesse mancarle di rispetto,
ma perché la
risposta era oltremodo ovvia. La prima serata mondana della stagione
era un
appuntamento irrinunciabile per tutta la nobiltà che,
abbandonata Londra in
vista del periodo estivo, si rifugiava nelle loro residenze di campagna.
“Anche
la famiglia di tua moglie?”
“Si,
è ovvio…”
“Sai
Jude, mi sono giunte
all’orecchio delle voci” lo interruppe, posando la
tazza ormai vuota sul suo
piattino, sul tavolo, cominciando poi a fissarlo con una certa
insistenza.
Non
gli piaceva essere guardato in
quel modo. Si sentiva quasi accusato,
o forse era solamente la sua coscienza sporca a farlo sentire
così.
“Che
tipo di voci?” domandò, e
deglutire non gli era mai risultato così difficile, la bocca
mai così arida.
“Sembra
che alcuni tuoi
atteggiamenti abbiano dato adito ai pettegolezzi su una tua
infatuazione per un
Downey…”
“E’
naturale, Allyson…”
“Un
Downey che non è tua moglie,
Jude” concluse in tono freddo, stroncando sul nascere ogni
sua possibile
risposta. “Il fratello, nella fattispecie. Ogni donna d
Londra si chiede perché
un ragazzo avvenente non abbia ancora preso moglie”.
“Calunnie
e maldicenze. Il giovane
Downey è appena uscito da Cambridge, seguirà le
orme di suo padre in politica.
Avrà tempo per un matrimonio infelice” rispose,
fin troppo stizzito per essere
totalmente estraneo all’argomento, non riuscendo a celare
quanto avrebbe voluto
il suo stato d’animo. Quando se ne accorse distolse lo
sguardo, guardando verso
la finestra, scrutando serio il cielo del primo pomeriggio.
“Sei
piuttosto informato su tuo
cognato, vedo” commentò, aggiungendo poi un
“La gente parla, Jude”.
“E
allora lasciate che parlino,
maledizione!”
Si
tradì definitivamente con questo
scatto d’ira, alzando la voce, nonostante fosse sicuro che
lei avesse già
capito, che sapesse, che avesse sempre saputo.
Lo
sapeva, ne ebbe conferma dallo
sguardo che gli rivolse subito dopo.
Sembrava
leggergli dentro, in ogni
pensiero, ogni più recondito pensiero.
Non
era la prima volta che gli
succedeva, era già successo con lui.
A questo pensiero le dita del panico gli strinsero lo stomaco con forza.
Per
la prima volta da quando era
solo un bambino si sentì vulnerabile di fronte a sua madre.
La
vide alzarsi piano, con calma,
per poi affiancarlo, poggiandogli una mano sulla spalla con fare
premuroso.
“Questa
cosa, di qualsiasi natura
essa sia, finisce qui. Non darai modo a queste voci di farsi
più pressanti, non
ti permetterò di distruggere quello che abbiamo costruito in
tutti questi anni
per un tuo sollazzo”.
Detto
questo se ne andò, senza
salutare, lasciandolo solo ed attonito.
Il
tempo di sentir chiudere la
porta e diede sfogo a tutta la sua frustrazione
scattando in piedi e sbattendo le mani sul tavolo,
causando l’improvviso
tremore di tutto ciò che poggiava su esso. Con rabbia le
spostò di lato,
facendo cadere il servizio da tè, che andò
a frantumarsi in mille pezzi sul pavimento, mal celando un
urlo di
frustrazione.
Lo
ha osservato per tutta la sera.
L’ha
osservato mentre parlava con
uomini di spicco, colleghi di suo padre, mentre
conversava con pittori ed artisti e
ancora mentre danzava. Più volte aveva danzato con Susan, la
figlia del Signor
Levin, lo aveva notato subito, era la prima volta che faceva una cosa
simile,
stonava particolarmente con il suo solito comportamento, poco incline
alla
danza. Non correva buon sangue tra la sua famiglia e quella dei Levin,
e adesso
certamente le cose non sarebbero migliorate, almeno da parte sua.
Suo
cognato indossava una giacca
blu scura con bottoni dorati, così come il gilet, che
soprassedeva su una
camicia bianca, e dei pantaloni dello stesso colore. Gli stivali
lustri, i
capelli leggermente pettinati all’indietro, il solito sorriso
smagliante tipico
di chi sa di essere ben voluto da tutte le persone che lo circondano e
di avere
tutte le carte in regola per avere il mondo ai propri piedi.
Tutti
consideravano Robert Downey
Jr. il giovane più promettente di tutta l’alta
società, con la sua spigliata e
naturale dialettica e quella sottile ironia di chi non ha paura di
esprimere la
propria opinione. Non era raro che si prendesse gioco del suo
interlocutore con
una certa compiacenza, senza che questo se ne accorgesse. In questo
aveva
certamente imparato da suo padre, che pian piano gli stava spianando la
strada
politica nel suo partito.
Non
aveva mai incrociato il suo
sguardo quella sera, sembrava quasi che desiderasse ignorarlo. Non si
erano mai
trovati a meno di dieci metri di distanza, fino a quel momento.
Ma
certamente Jude Law non era un
uomo abituato a vedersi ignorare, no.
Lo
intravide poggiato ad una delle
colonne del salone, nella parte meno illuminata, solo e con il
bicchiere che
stava pericolosamente rischiando di rimanere vuoto, quindi decise di
avvicinarsi lui stesso.
Adocchiò
il cameriere più vicino,
prese due bicchiere di vino dal vassoio in argento e si
avvicinò all’oggetto
dei suoi pensieri, svicolando in fretta da tutti quegli invitati di cui
ricordava a malapena il cognome che si stavano complimentando per la
bella
serata. Come se gliene importasse qualcosa, poi.
“Un
bicchiere vuoto non vi si
addice, Signor Downey”
calcò
particolarmente sulle ultime due parole quando gli fu davanti,
attirando il suo
sguardo.
Lo
vide sorridere, per poi
cominciare a guardarsi intorno, come lo aveva visto fare per tutta la
sera.
“Con
tutto il rispetto, è colpa dei
vostri camerieri. È tutta la sera che ne cerco uno, ma
sembrano sparire ogni
volta che alzo lo sguardo”
“Allora
lasciate che rimedi
personalmente a questa loro grande mancanza” lo prese in
giro, porgendogli il
calice col vino, scambiandolo con il suo ormai vuoto che posò
sul vassoio di un
cameriere che passò in quel momento. “Come vedete,
non era poi così difficile”.
“Allora
forse stavo solo aspettando
che qualcuno mi offrisse da bere…” lo
guardò negli occhi, portandosi il
bicchiere alle labbra, facendolo sorridere compiaciuto.
“Oh,
e siete dispiaciuto che sia
stato proprio io?” decise di stare al suo
gioco, perché gli
piaceva, lo divertiva, lo eccitava.
“Avrebbe
potuto decisamente andarmi
peggio” fu la risposta del più giovane, mentre
reclinava la testa contro la
colonna e manteneva il contatto visivo, stirando poi le labbra
dischiuse in un
sorrisino.
“Ho
saputo che avete avuto problemi
di salute ultimamente…”
Lo
osservò mentre lo diceva,
notando ancora il discreto pallore della sua pelle, la solita
vivacità dei suoi
occhi offuscata da un velo di stanchezza.
“Mi
compiace constatare che mia
sorella non ha ancora imparato a tacere” ironizzò
l’altro, facendolo ridere di
gusto perché certamente gli affari suoi, sua moglie, non
sapeva proprio
farseli.
“Spero
niente di grave, comunque…
se non sbaglio questa è la vostra prima uscita pubblica da
mesi”
“Solo
una febbre particolarmente
debilitante, a detta del dottore” fece una smorfia, poi
continuò. “Avete forse
temuto per la mia
salute, signore?”.
Con
suo grande rammarico lo vide
distogliere lo sguardo dal suo per stringere la mano ad un compagno di
partito
di suo padre, che subito cercò di farsi bello ai suoi occhi,
lusingandolo con
parole di miele su quanto fosse importante per loro avere
l’appoggio della
famiglia Law.
Tutto
quel perbenismo lo aveva
sempre infastidito, maggiormente se lo costringeva a distogliere
l’attenzione
da qualcosa di ben più interessante, ma non poteva
sottrarsi, lo sapeva. Era il
suo dovere. E lo
sapeva bene anche il
giovane Downey, che subito si congedò elegantemente con un
“A quanto sembra
avete questioni importanti di cui parlare. Come ben sapete, Signor Law,
il qui
presente Signor Ruffalo si occupa delle questioni economiche del
partito, e
sono ben sicuro che sia impaziente di scambiare qualche opinione con
voi.
Ricordatevi solo che siamo ad una festa” che
riuscì a toglierlo dall’imbarazzo
del non ricordarsi il nome di quell’uomo con gli occhiali.
Lo
seguì mentre si allontanava,
dispensando sorrisi a tutti i presenti, lo sguardo che scese su tutto
il suo
corpo mentre beveva l’ultimo sorso di vino dal suo bicchiere.
Era
decisamente troppo sobrio per
affrontare una conversazione con un banchiere.
Sospirò.
“Posso
tentarla con un buon
bicchiere di brandy, Signor Ruffalo?”
“Volentieri,
Signor Law”
Chiese
ad uno dei camerieri di
portargli due bicchieri di distillato di vino, sorridendo poi al suo
interlocutore.
“Ditemi
dunque, in che condizioni
sono le casse del nostro partito?”
Aveva
cercato il soggetto dei suoi pensieri
per tutta la sala per molti minuti, invano, poi lo aveva visto entrare
nel suo
studio, nella stanza accanto. Ovviamente lo seguì nella
stanza fiocamente
illuminata solo dalla luce delle candele della sala da ballo adiacente,
lasciando la porta socchiusa, con l’intento di prenderlo di
sorpresa e
giocargli uno scherzo.
Si
stava avvicinando, cercando di
fare il minor rumore possibile, quando…
“Vi
ho mai detto quanto sia
invidioso della vostra collezione di libri?” lo sente dire
senza distogliere lo
sguardo dalla libreria, tanto per fargli capire che sì,
sapeva che era dietro
di lui e sapeva che lo aveva seguito.
“Oh,
riuscirò mai a farmi beffa di
voi?” chiese il padrone di casa, fingendosi offeso.
“Spero
proprio di no”
“Comunque,
sentitevi libero di venire
a leggerli quando più vi aggrada”
“Siete
molto gentile, Signor Law…”
accennò un sorriso, poi gli si avvicinò, in modo
che solo lui potesse sentirlo.
”O forse è solo un espediente per avermi come
vostro ospite?” gli sussurrò
all’orecchio, e l’altro sapeva benissimo a cosa si
stesse riferendo. Ci pensava
continuamente.
L’ultima
volta che lo aveva
invitato nella sua residenza di campagna per una battuta di caccia, la
primavera passata, non erano mai usciti dalle sue stanze. E lo stesso
tipo di
incontro, seppur in maniera molto più fugace, era avvenuto
più volte durante la
sua permanenza alla villa per le vacanze di Natale e durante la sua
ultima
visita a Londra. Sua moglie non aveva mai sospettato nulla.
“Trovo
che siate decisamente troppo
astuto per essere così attraente”
rispose Jude con una gran dose di ironia, vedendolo ridere
di gusto.
“Trovo
che il vostro sia un luogo
comune privo di fondamento”
“Oh
si, tu
ne sei la prova,
vero?”
Abbandonò
quasi senza accorgersene
l’etichetta che gli imponeva di dare del Voi ai suoi
interlocutori, attirando
lo sguardo del giovane Downey.
Avevano
un patto; nonostante la
loro intimità, in pubblico avrebbero continuato a darsi del
voi, senza neanche
mai chiamarsi per nome. Questo per non dare adito a possibili
pettegolezzi, per
non dare nell’occhio.
Lui
stesso adesso stava infrangendo
quel patto.
“Pensate
di trattenervi a lungo?”
si ricompose subito dopo, vedendo il ragazzo rilassarsi, emettendo un
leggero
colpo di tosse.
“No,
ripartirò stasera stessa”
“Così
presto?”
“Non
posso trattenermi più del
necessario”
“Posso
essere così sfrontato da
chiedervi il motivo di questa vostra insolitamente breve
permanenza?”
“Direi
che lo siete stato in ben
altri modi, e in più di un’occasione”
Sorrise
beffardo a questa sua
battuta pungente, compiacendosi di tutta quella malizia di cui era
capace,
probabilmente complice la sua età.
Poi
arrivò la verità, come un
fulmine a ciel sereno.
“Vostra
madre è venuta a casa nostra,
ieri sera. L’ora era tarda, ammetto di esser stato preso alla
sprovvista.
Voleva…” si fermò, abbassando lo
sguardo e chiudendo gli occhi. Sembrava molto
preoccupato, e turbato.
Subito
dovette combattere l’istinto
di rompere qualcosa.
Come
aveva potuto sua madre
spingersi a tanto?
“Insinuava
un qualche legame tra
voi e me, che ovviamente ho smentito. Non so come abbia fatto a
scoprirlo” fece
una pausa, esitante. Esitazione che aumentò quando Jude
sfiorò la sua mano con
la propria. “C-credo che mi stesse minacciando,
Jude”.
“Non
succederà più, te
lo garantisco” sbagliò ancora,
stringendogli le dita tra le proprie, proprio come aveva fatto la prima
volta
che lo aveva amato, usando la forma errata , perché in fondo
Law aveva sempre
odiato quei sotterfugi.
Che
parlassero, che aumentassero i
pettegolezzi, non gli importava. Non avevano prove, solo loro due
sapevano la
verità, e Jude David Heyworth Law nell’ultimo anno
era stato più felice di
quanto riuscisse a ricordare.
Era
sicuro che anche per Robert
fosse lo stesso, nonostante si rifiutasse di ammetterlo con la ormai
ben nota
ostinazione della famiglia Downey.
“Lo
so. Mi sposo in autunno”.
Gelo.
È
questo quello che sentì calare
nella stanza, pesante come un blocco di ghiaccio, opprimente.
Si
sposava. Era
normale, era naturale: non capiva
come suo padre non avesse già provveduto ad
un matrimonio vantaggioso per i suoi affari, donandogli invece la
possibilità
di terminare gli studi.
“L’annuncio
verrà dato tra qualche
settimana, non lo sa ancora nessuno” spiegò, per
poi aggiungere in un sussurro
“Volevo che lo sapeste da me”.
“Quindi
ancora non è sicuro?”
“Si,
lo è”
“Ma
avete detto che…”
“Non
importa quello che dico io, è
stato deciso così. Il matrimonio si farà, non
posso farci niente. Nessuno può”.
Eppure
quelle parole gli suonarono
molto come un grido di aiuto.
“E
chi è la fortunata?” chiese
pungente, geloso, lasciando la sua mano e
allontanandosi da lui, che nell’ultimo anno era stato il
centro del suo mondo,
arrivando vicino alla finestra.
Lo
sentì sospirare.
“La
figlia di Levin, Susan”
Rise.
Era
inappropriato, lo sapeva, ma
gli venne da ridere.
Era
ironico e crudele, troppo per
poter essere un caso; per la prima volta si chiese se sua madre si
fosse
limitata a minacciare Robert o se fosse andata per parlare con suo
padre.
Li
stavano dividendo.
“Mio
padre crede che questo
matrimonio sanerà la profonda frattura tra le vostre
famiglie, visto che mia
sorella è vostra mo-“ provò a dire, ma
l’altro non gli permise di finire la
frase.
“O
più semplicemente vi allontanerà
da qui. Ti allontanerà
da me”
Era
difficile parlare, sentiva la
gola secca e un gran senso di oppressione
sul petto. “Almeno la trovate gradevole?”.
“Io…
l’ho vista solo un paio di
volte, per ora, ma… credo…”
“Ne
siete innamorato? Credete di potervi
innamorare di lei?” si voltò a guardarlo, notando
lo sguardo basso, perso
chissà dove, le braccia incrociate al petto, le
dita e le unghie che tormentavano il tessuto delle maniche
della giacca.
Gli
fece tenerezza in quel momento,
era la prima volta.
Si
avvicinò.
Il
giovane non rispose. Era rimasto
spiazzato, non sapeva come obiettare, non sapeva come rispondere.
“Pensate
di poter essere
felice?” insistette.
“Voi
amate mia sorella?” fu la sua
flebile risposta, che a Law ancora una volta, suonò molto
come una supplica, il
desiderio di essere rassicurato.
“Si,
la amo”
Gli
arrivò di fronte, portando una
mano sotto al suo mento e facendogli alzare la testa, non vedendolo in
alcun
modo vittima di questa repentina, ma necessaria, confidenza; sarebbe
stato
ipocrita da parte sua esserlo, dopo tutto quello che avevano fatto, e
Robert
Downey Jr. era molte cose, ma non un ipocrita.
Sapeva
bene come si sentiva: sapere
che tutto sarebbe andato per il meglio, che si sarebbe abituato a
quella nuova
situazione che era chiamato ad affrontare era avvilente, ma al tempo
stesso
tranquillizzante. Come un’ancora di salvezza quando la nave
sta colando a
picco.
Robert
sentiva la gola bruciare
mentre il suo amante si avvicinava al suo orecchio, baciandogli la
tempia in
modo dolce e gentile.
“Mai
quanto amo te, però”
Fremette
a questa dichiarazione di
Law, sentendo la sua mano cercare la propria.
Non
era la prima volta che gli
diceva una cosa del genere, ma questa volta c’era qualcosa di
strano, lo
avvertiva, qualcosa di definitivo,
di
unico. Di vero.
Jude
fece per avvicinarsi alle sue
labbra, ma rimase deluso quando l’altro si voltò,
rifiutandolo, chiudendo gli
occhi e abbassando di nuovo la testa.
“Mia
sorella si starà sicuramente
chiedendo dove sei…” si tradì ancora il
giovane, confidenziale, scosso dagli
eventi.
E
mentre Jude Law lasciava la
stanza, ferito come mai si era sentito dalla persona a cui
più teneva, l’unica
cosa che sentì fu un sospiro
profondo, e subito dopo dei colpi di tosse.
Si
impedì di tornare indietro.
Doveva
indossare nuovamente la sua
maschera di marito amorevole, l’ennesimo ballo sarebbe
iniziato entro pochi
minuti e sicuramente sua moglie desiderava danzare.
Ballò
con sua moglie quella sera,
non perché desiderasse farlo ma perché era quello
che tutti si aspettavano che
facesse, era il suo ruolo, era quello che era obbligato a fare. Non
doveva
lasciar spazio ai pettegolezzi.
E
mentre danzava , mentre coglieva
quella felicità che da tempo mancava negli occhi di sua
moglie, mentre la
vedeva sorridere felice, i suoi pensieri erano rivolti altrove.
Downey
aveva ballato più volte
con Miss Levin, ma non c’era passione tra
loro, lo vedeva. Non c’era affetto, non c’era
niente. Non si guardavano
neanche, non parlavano, non sorridevano.
Sarebbe
stato l’ennesimo matrimonio
infelice, proprio come il suo.
Non
poteva farci niente, aveva dato
a Robert una possibilità ma aveva scelto, lo aveva
rifiutato. Doveva lasciarlo
andare.
Improvvisamente
un colpo di tosse,
seguito da un secondo, un terzo e molti altri, ma non ci fece caso
mentre
continuava a danzare al ritmo di quella bella musica con sua moglie,
che ancora
una volta gli sorrise raggiante.
La
guardò e le sorrise a sua volta.
Quella
tosse che fino a quel momento
fu solo un sottofondo si fece più insistente, e un brusio
sempre più ronzante
si alzò nella sala.
Poi
un urlo.
La
musica si fermò improvvisamente,
il violinista, preso alla sprovvista, fece stridere
l’archetto sulle corde.
Jude
si voltò di scatto e lo vide:
vide quella figura che tanto aveva ammirato quella sera piegata in
avanti, una
mano al petto, aggrappata con forza alla camicia ormai macchiata, lo
sguardo
spaventato fisso sul pavimento.
E
il sangue.
Stava
tossendo sangue e non sapeva
cosa fare, non riusciva a respirare.
Lo
vide crollare in ginocchio e
quel lieve rumore echeggiò tra tutti i presenti adesso
ammutoliti, inorriditi,
ognuno al loro posto.
Emise
un rantolo.
Sangue.
Ancora
sangue.
“ROBERT!”
Lasciò
la mano di sua moglie e
corse verso di lui, inginocchiandosi sul pavimento, invocando
l’aiuto di un
medico che non sembrava arrivare mai.
Sua
moglie piangeva disperata
vedendo il suo fratellino colpito
da
quella terribile malattia di cui aveva sentito parlare in molti salotti
di
Londra, quella piaga bianca che si
manifestava senza motivo apparente
e che
portava sempre, inesorabilmente, ad una sola conclusione.
“Chiamate
un medico! Serve un
medico!”
Nessuno
si fece avanti.
Ordinò
a due ragazzi della servitù
di correre a chiamare un dottore, poi aiutò Robert ad
alzarsi, non pensando che
non fosse in grado di sorreggersi sulle proprie gambe, come in
realtà successe.
Lo sorresse un attimo prima che crollasse nuovamente sul pavimento,
passandogli
un braccio dietro alla schiena e
uno
dietro alle gambe, sollevandolo da terra.
E
mentre sentiva la testa del
ragazzo poggiarsi sul suo petto, un lieve lamento giungergli alle
orecchie,
mentre lo portava fuori da quella sala, al riparo da tutti quegli
sguardi che
erano puntati su di lui come una accusa o una condanna,
sentì alzarsi un
brusio. Sempre più forte.
Perfino
in un momento come questo
parlavano, quelle malelingue.
Come
sempre non avrebbe fatto
niente, avrebbe lasciato che parlassero perché si sarebbe
sentito un bugiardo a
negare quei pettegolezzi, un traditore.
Si
immaginò lo sguardo contrariato
di sua madre, e gli venne da sorridere.
Portò
Robert in una delle stanze
adibite agli ospiti di quella serata e lo adagiò cautamente
sul letto,
coprendolo con una coperta.
Era
pallido.
Aveva
un aspetto spettrale, pensò,
soffermandosi con lo sguardo macchiata di sangue ormai rappreso che
deturpava
il suo candore.
Gli
passò una mano tra i capelli,
sapendo che quando sarebbe arrivata sua moglie non avrebbe
più potuto
concedersi una tale libertà.
Aveva
paura.
La
sola idea di perderlo gli faceva
mancare la terra sotto ai piedi, e nonostante questo non poteva
esternare
niente, non di fronte a Allyson.
Rimase
al suo fianco fino
all’arrivo del medico, con sua moglie che non smetteva di
piangere, tenendo la
mano del suo adorato fratello sotto quella coperta che aveva il solo
scopo di
tenerlo al caldo.
Il
dottore dopo un’attenta analisi
a cui Jude si rifiutò di assistere, preferendo rimanere in
corridoio,
camminando ansiosamente avanti
e
indietro nel vano tentativo di tranquillizzarsi, purtroppo
confermò i loro
sospetti, dando voce alle loro paure.
Lo
capì subito, appena vide sua
moglie uscire in lacrime dalla stanza, inconsolabile. Non
cercò neanche il suo
abbraccio, non riusciva a parlare, e fu portata nelle sue stanze da una
delle
domestiche per un po’ di riposo.
La
sua reazione era chiara, e il
totale mutismo del dottore era un fausto presagio. Gli tremavano le
mani.
“Che
cos’ha?” chiese in un
sussurro, lo sguardo perso nel vuoto, una volta che il medico si chiuse
la
porta alle spalle.
“Mi
dispiace tanto…”
“Le
ho chiesto che cos’ha!”
sibilò quindi, fulminandolo con lo sguardo.
Odiava chi usava subdoli giri di parole, lo aveva sempre fatto.
L’uomo
strinse la sua borsa tra le
mani, chiudendo appena gli occhi per incassare il colpo, probabilmente
spaventato dal suo cambiamento. Matt Smith era da anni il medico della
famiglia
Law, ma mai aveva visto il Signor Law sotto quella luce, sembrava
un’altra
persona. Come se gli avessero strappato un pezzo
d’umanità, pensò tra se e se.
“E’
la tisi. Io… io non posso fare
niente…”
“No…” scosse la testa con forza
il padrone di casa,
serrando le mani tremanti in uno scatto d’ira, le unghie che
andarono a
conficcarsi con forza nei palmi, lasciandovi i segni.
“Potete
solo stargli vicino per il
tempo che gli resta” lo guardò dal basso
l’altro uomo.
“No.
NO!”
Urlò
quella volta, scaraventando a
terra un piccolo mobile che si trovava accanto a lui e tutto
ciò che esso
conteneva, portandosi poi le mani alla testa.
“Signore,
io non…”
Il
dottore si sentì prendere per il
colletto della camicia e
sbattere con
forza contro la parete, lasciando la borsa che ancora teneva tra le
mani che
cadde rumorosamente a terra, probabilmente rompendo qualche boccetta di
medicinale. Lo fissò negli occhi, impaurito.
“Se…”
sibilò Law vicino al suo
viso, ma subito si fermò, respirando a pieni polmoni. Non
riusciva neanche a
dirlo. Si fece forza. “Se lui muore, state pur certo che voi
non lavorerete più
in questa città, ne in nessun’altr-“
“Smettetela.
Jude, per favore…”
La
sua voce era flebile, ma
perfettamente udibile, infatti appena lasciò prontamente il
povero medico, che
subito cercò di ricomporsi.
Osservò
il giovane Downey notando
l’innaturale pallore della sua pelle, l’espressione
stanca, le labbra
leggermente bianche.
Robert
era la sua cura ad ogni
male, perfino in un momento come quello riusciva ad esorcizzare i suoi
demoni.
“Come
ti senti?” gli chiese,
prendendolo per le spalle e guardandolo preoccupato, e subito lo
sentì
irrigidirsi, rivolgendo un’occhiata spaventata al medico
accanto a loro. Era a
disagio, lo capiva, ed è per questo che ordinò
all’uomo di andare a controllare
lo stato di salute di sua moglie perché
“Sarà sicuramente sotto shock,
poverina. Temo per i suoi nervi. Vi prego di prendervi cura di lei,
Dottor
Smith”.
Inutile
dire che l’uomo eseguì
l’ordine nel minor tempo possibile, lasciandoli soli.
In
quel momento Robert gli fece
cenno di entrare nella stanza, chiudendo piano la porta dietro di loro,
rimanendo fermo davanti ad essa, dandogli ancora le spalle.
“Robert…”
“Mi
hanno appena detto che morirò,
come dovrei sentirmi?”
La
voce era rotta, il respiro
affannoso.
Lo
vide abbassare la testa.
Era
la prima volta che lo vedeva
piangere, si era sempre dimostrato cinico e pungente, apparentemente al
di
sopra di tutto e tutti, ma adesso la sua maschera di sicurezza si stava
sgretolando, lasciando spazio al suo lato più fragile,
piegata dalla verità
delle ultime ore, da quella maledetta malattia che neanche sapeva di
avere.
Il
giovane Downey in quel momento
si chiese se fosse la punizione per tutti i peccati che aveva commesso.
Jude
lo abbracciò da dietro,
cingendolo con le braccia, pensando che l’unica cosa da fare
in quel momento fosse
proteggerlo, lasciarlo sfogare, dargli
un punto di appoggio, un appiglio a cui aggrapparsi.
Non
sarebbe servito, lo sapeva. Lo
sapevano entrambi.
Robert
Downey Jr. era sempre stato
un giovane molto ambizioso: la posizione privilegiata di suo padre gli
aveva
procurato i migliori insegnanti privati ed era entrato a Cambridge con
le
massime aspettative, con l’intento di entrare in politica.
Voleva diventare
primo ministro, proprio come Downey Sr., gestire il paese, migliorarlo,
far
espandere l’economia, raccogliere consensi.
Non
lo avrebbe mai fatto.
“Quanto
mi resta?” gli chiese.
Law
scosse la testa. Nessuno lo
sapeva: a volte la malattia faceva il suo corso velocemente, altre
logorava la
persona fin nel profondo.
Inspirò
a fondo, probabilmente
cercando di darsi coraggio, annuendo appena.
“Devo
tornare a casa”
“Non
se ne parla, hai sentito il
dottore, devi riposare. Ho già fatto inviare
una missiva a Londra”
“Non
capisci…”
“Così
è deciso.” Concluse
perentorio, ponendo fine a quell’inutile diverbio. Non era in
grado di
affrontare il viaggio per Londra, era un giorno a cavallo,non gli
avrebbe
permesso di partire.
Voleva
essere sicuro che avesse
tutte le migliori cure possibili, avrebbe chiamato i migliori medici
d’Europa
se necessario. Desiderava averlo accanto, per quel poco tempo che
ancora
rimaneva loro.
Il
giovane lo capì, interpretando
però le sue parole nel peggiore dei modi, credendole cariche
di possessività ed
egoismo.
“Sei
davvero egoista nel volermi
privare della mia famiglia in un momento come questo”
insinuò, guardandolo
freddamente con i suoi begli occhi adesso ancora arrossati.
“Io
non…” sospirò forte, poi
riprese. “Sono preoccupato per te. Non voglio lasciarti
andare”.
Non
sapeva neanche lui se il suo
discorso fosse riferito all’allontanamento dalla sua casa, da
lui e da tutto
quello che avevano condiviso, o alla conclusione inevitabile della
malattia.
Non si guarisce dalla tisi, non c’è una cura,
è tutto inutile.
Gli
strinse maggiormente la mano,
mentre con l’altra gli spostava una ciocca di capelli dalla
fronte.
“Quella
volta, in campagna…” lo
sentì sussurrare, la voce nuovamente incrinata dal pianto,
le lacrime che
ancora gli rigavano il bel viso.
Lo
lasciò fare. Lasciò che si
interrompesse, gli diede il tempo necessario per metabolizzare. Non gli
avrebbe
mentito, non gli avrebbe detto che tutto sarebbe andato bene, che si
sarebbe
risolto, che era un brutto sogno. No.
Si
sedette accanto a lui, poggiando
la schiena al suo stesso cuscino, cingendogli le spalle con un braccio,
attirandolo
più vicino.
“Hai-hai
detto che mi avresti amato
per sempre”
“Si,
lo ricordo bene” gli baciò la
fronte, sentendola leggermente calda sotto alle labbra, cercando di
farlo
calmare, il corpo ancora scosso dai singhiozzi.
“Lo
farai davvero?” lo guardò negli
occhi, e per Jude la risposta fu oltremodo naturale.
“Si”
sussurrò, perché era l’unica
cosa che riusciva a pensare mentre gli passava una mano tra i capelli,
mentre
lo vedeva chiudere gli occhi, un’ultima lacrima che gli
rigava la guancia
mentre si abbandonava alla sua carezza. “Te lo
prometto”.
Robert
gli posò la testa sulla
spalla e lui lo strinse maggiormente.
Sentiva
lui stesso gli occhi
bruciare adesso, non sapeva per quanto avrebbe continuato ad essere
così calmo,
sapeva solo che lo stava facendo per lui; non era pronto per questo,
aveva
sopportato a malapena l’idea di vederlo sposarsi, come poteva
tollerare anche
solo l’idea di vederlo morire?
“Ho
paura”
“Lo
so”
“Non
voglio. I-Io devo… devo fare
tante cose, voglio cambiare il paese, io… non sono pronto
per questo” Downey
scosse la testa, chiudendo gli occhi e respirando forte, lamentandosi.
“Perché
a me?”.
Non
resistette più, vederlo così
gli faceva troppo male. Gli prese il viso tra le mani, cercando il suo
sguardo.
“Ti
prego. Ti prego, non fare così,
è già abbastanza difficile,
non…”
“Ieri
sera ero così spaventato da
tua madre, Jude… Ironico, vero? Il suo desiderio di
separarci verrà esaudito
molto presto”. Trovava una certa, macabra, ironia in questo.
L’essere obbligati
a separarsi per sempre contro la loro volontà. Forse era
destino che andasse
così.
“Non
dire così…” gli passò una
mano
tra i capelli, cercando di rassicurarlo, di rassicurarsi. Adorava i suoi capelli,
adorava tutto di lui.
Mantennero
il silenzio per molto
tempo, abbracciati, probabilmente per l’ultima volta, poi fu
Robert a parlare
per primo, schiarendosi la voce.
“Anch’io,
sai?”
“Cosa?”
Si
voltò verso di lui,
sorridendogli teneramente.
“Ti
amo anch’io, Jude”
Ed
era la prima volta che glielo
diceva.
La
prima volta che lo confessava a
qualcuno.
Lo
guardò rivestirsi lentamente, vicino alla finestra,
infilandosi i pantaloni
e infilandosi la camicia,
stringendo appena i lacci sul petto. Dal letto aveva davvero una bella
prospettiva e godeva dell’ottima visione del suo profilo, che
considerava praticamente
perfetto.
Si
girò sul fianco Law, ancora avvolto dal lenzuolo, reggendosi
la testa con un
braccio per continuare ad osservarlo.
“Sei
bellissimo” si lasciò sfuggire, e incuriosito
osservò la reazione dell’altro.
A
dispetto di quanto avesse immaginato, non si scompose affatto.
Probabilmente non
era una novità per lui ricevere dei complimenti, e questo lo
fece ingelosire un
poco.
“Mi
sembra il minimo che tu possa dirmi” ironizzò,
ridacchiando sommessamente,
dandogli ancora le spalle “Dopo quello che abbiamo
fatto”.
“Tua
madre avrebbe dovuto chiamarti Narciso, non
Robert…”
“…Intendi
tua suocera?” chiese
quindi, facendolo
ridere di gusto.
Ci
aveva provato a resistere, lo aveva fatto davvero, per riguardo e
rispetto nei
confronti di sua moglie, ma Robert occupava ogni suo più
recondito pensiero da
molto, troppo tempo. Annebbiava
il suo
buon senso, in sua presenza diventava impulsivo, irrazionale, geloso, e
l’amarsi
in maniera così intima e passionale era stata solo la
conclusione naturale del
loro corteggiarsi ad ogni evento a cui entrambi partecipavano.
“Credo
di amarti”
Lo
aveva detto così, con naturalezza, in quel modo
così stranamente distante da
lui e dal rapporto che aveva con sua moglie, quasi fosse una
liberazione, e il
più giovane si voltò subito, guardandolo negli
occhi. Gli sorrise teneramente.
“E’
solo perché mi trovi attraente”
“Non
è vero”
“Lo
hai detto tu, però, solo pochi attimi fa” si fece
più vicino, poggiando un
ginocchio sul letto, arrivando a pochi centimetri dal suo viso. Lo
stava
stuzzicando, lo faceva sempre, lo divertiva vederlo capitolare con
facilità,
soprattutto di fronte ad altre persone ignare dei loro discorsi.
“Hai
totalmente frainteso le mie parole, lo sai. Non burlarti di
me” lo ammonì,
sorridendo scherzosamente.
“Vuoi
dire che mi ameresti ugualmente, anche se non fossi giovane e
bello?”
Questa
volta sembrava davvero preso dalla sua domanda, non c’era
traccia di ironia o
di scherzo nella sua voce. Robert Downey Jr. in quel momento voleva
più di ogni
altra cosa conoscere la verità su quello strano sentimento
che l’altro uomo gli
aveva dimostrato per così tanto tempo. Non gli era mai
capitato di sentirsi
così, era la prima volta. Come anche la prima volta che si
concedeva a
qualcuno in quel modo, così intimamente e
con complicità.
“Si.
Ogni giorno della mia vita.”
Rimase
un attimo stranito da quella risposta, forse quasi spaventato.
L’eternità
gli sembrava una cosa molto grande da affrontare e
l’unico modo per non essere travolto da questo
pensiero, gli
sembrò smorzare la
tensione con una battuta, quindi prese un bel respiro e sorrise, forse
in
maniera troppo dolce. E
si tradì
ulteriormente abbassando la testa, il petto colmo di un nuovo calore
mai
provato, che sembrava far scalpitare il suo cuore.
“Non
sei credibile” lo punzecchiò, puntandogli un dito
sul petto nudo.
“Mi
metta alla prova, Signor Downey” fu la risposta del biondo
che si avvicinò a
lui, centimetro dopo centimetro, non trovando alcuna resistenza.
Indugiò sulla
sua bocca, sfiorandola appena, lasciando entrambi in bilico tra la
ragione ed
il cuore per un tempo che parve loro infinito, tanto che Robert non si
sarebbe
stupito se suo padre fosse entrato dalla porta di quel loro rifugio
segreto per
riportarlo a Cambridge con urgenza.
Si
avvicinò ancora, e finalmente lo baciò. E quel
bacio Robert Downey Jr., si
ripromise, lo avrebbe ricordato per sempre.
Perfino
cacciare adesso non aveva
più alcuna attrattiva per lui. Tutto aveva perso interesse,
il mondo sembrava
aver perso i suoi colori e tutto ciò che aveva di bello.
L’estate stava
arrivando, ma nel suo cuore tutto era freddo, non riusciva a
capacitarsi di
questo suo stato d’animo, di questa sua più totale
apatia; erano passati due
mesi da quella sera, da quel dannato ballo di inizio primavera che
aveva
segnato l’inizio della fine e da Robert non aveva
più avuto notizie.
I
suoi genitori erano venuti a
prenderlo il giorno seguente e lo avevano riportato a Londra.
Non
lo aveva più visto.
Glielo
avevano proibito, loro
sapevano, tutti sapevano, non era il benvenuto in quella casa.
Aveva
provato a scrivergli un paio
di lettere, ma non aveva mai ricevuto risposta. Aveva il dubbio che
fossero
state bruciate prima che potesse leggerle.
Perfino
sua moglie sapeva, glielo
aveva fatto ben capire in più di un’occasione, ma
questo non gli provocava
nessuna reazione, nessuna vergogna. Voleva soltanto poter rivedere
Robert, il
resto non gli importava.
Quella
mattina era uscito a caccia
per cercare di svagarsi, come ogni mattina, ma come sempre era tornato
alla
residenza a mani vuote e la testa colma di pensieri, non sapeva cosa
fare. Per la
prima volta in tutta la sua vita, i suoi soldi e la sua posizione
sociale erano
totalmente inutili, aveva le mani legate.
Appena
rientrò in casa capì che c’era
qualcosa che non andava: era deserta, non vi era nessun rumore udibile,
nessuno
dei domestici stava svolgendo il proprio lavoro.
Li
trovò tutti riuniti fuori dalla
porta del suo studio, in silenzio, tutti ad ascoltare qualcosa che
ancora dalla
sua posizione non riusciva ad udire.
“Che
cosa succede?” chiese, e
sembrò riscuoterli dal loro torpore. Frettolosamente si
dispersero tutti,
affrettandosi alle loro mansioni, rimase solo il suo maggiordomo, colui
che era
sempre stato al servizio della sua famiglia e lo aveva visto crescere.
“E’
vostra moglie, Signore. E’
inconsolabile.”
Ebbe
una fitta al cuore.
Le
fredde dita del panico lo
attanagliarono e aveva le mani che tremavano mentre abbassò
la maniglia della
porta ed entrò nella stanza.
Trovò
sua moglie seduta al suo
scrittoio, il volto rigato dalle lacrime, gli occhi ormai arrossati e
gonfi. Non
riusciva neanche a parlare. Teneva tra le mani una lettera.
“C-Che
cos’è?” chiese con voce
tremante, gli occhi spalancati dalla paura, tutti i sensi tesi mentre
si
avvicinava a lei. Ancora e ancora, passo dopo passo, inesorabile.
Riconobbe
la calligrafia minuta e
fitta di Robert
Downey Sr. sulla
missiva, la lettera era stata scritta di suo pugno.
Il
respiro si fece più affannoso.
Doveva
sapere cosa stava
succedendo.
Non
riusciva a respirare.
“E’
morto…” sua moglie non riuscì a
trattenere altre lacrime, addolorata dalla perdita del fratello.
Panico.
Ebbe
un giramento di testa.
Poi
il buio.
Vuoto.
[NdA]: Allora, ditemi: Da 1 a 10, dove 1
è “amorevole” e 10 è
“Dammi
una cazzo di lametta che mi devo tagliare le vene per
obliquo!”, quanto mi
odiate?
In
effetti il mio intento era
scrivere una cosa angst ma PROPRIO PROPRIO ANGST… spero di
esserci riuscita.
*ognuno ha le proprie aspirazioni, son cose xDDD*
Se
è tragica anche solo la metà di
come volevo che fosse, adesso mi aspetterei di essere esiliata dal
fandom
RDJude fino a quando non farò ammenda (cioè mai)
xDDDD
Scherzi
a parte, non mi sono
divertita a scriverla ma ce l’avevo in testa da un
po’, e si sa… i pensieri
tragici stanno meglio su carta che vorticanti nel mio cervello. Ho
fatto un po’
di spazio anche per i pensieri felici, diciamo LOL
Adesso
qualche chiarimento, perché la
situazione è un po’ complicata. Partiamo dai
riferimenti storici: La tisi, o
tubercolosi, o TBC, o “quello che aveva lei del Moulin
Rouge”, insomma, come
volete chiamarla. Nel XVIII
secolo (epoca in cui
ho immaginato fosse ambientata la storia) la tubercolosi
era
praticamente la principale causa di morte, e una volta contratta veniva
considerato inevitabile morire per la malattia. E sì, non me
lo sono inventato
(avrei scelto un nome più carino! Tsk, babbani! u.u), veniva
davvero chiamata
la Piaga Bianca.
Per
quanto riguarda il mio ritorno
alla terza persona, e soprattutto al tempo passato: STRANO. Buon Loki,
è stato
stranissimo, ormai sono abituata alla prima persona, ad entrare
completamente
nella testa di un personaggio. Spero di non aver fatto un casino,
ammetto che a
volte avevo una faccia tipo -à
O_o ahaha non molto
adorabile, sapete
ahahaah
Detto
questo vi auguro davvero una
buona serata, i love you so much, me lo dimostrate sempre in ogni modo
possibile
e mi sento in colpa perché l’unica cosa che posso
fare è ringraziarvi qui in
fondo, o con le risposte alle recensioni.
Grazie
mille a tutti, vi voglio
bene anche se non conosco la maggior parte di voi (anche se dopo questa
storia
mi farete bannare dal sito ahahahah). Davvero, grazie.
Convivenza
Forzata è ancora work in
progress, se qualcuno se lo stava chiedendo.
E
adesso basta, che queste note d’autrice
stanno diventando più lunghe della fic stessa, il che non
è una bazzecola LOL
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