dello spazio e del tempo
PROLOGO:
Mi
chiamò un venerdì pomeriggio, sul tardi, era
già buio.
Di tutte le persone
che nel corso degli anni si erano allontanate da me, lui era
l’unico con cui non volevo più avere contatti.
Era stato il mio
grande amore o meglio, l’unico uomo che io avessi mai amato:
ma ci eravamo presi e lasciati così tante volte, e sempre
per colpa sua, che quel sentimento si era trasformato in una condanna.
Lo amavo ancora, ne ero pienamente cosciente, ma non potevo permettere
a me stessa di ricaderci. Ne sarei uscita un’altra volta
piegata.
Lasciai squillare
il telefono fissando il display, stringendo i pugni e i denti,
imponendomi di non prenderlo nemmeno in mano.
Mi resi conto che
stavo muovendo la testa leggermente, a ritmo con la musica che
procedeva senza intoppi. Per lui avevo scelto, come suoneria, la sigla
di Madagascar perché lo avevamo visto insieme, anni prima,
qualcosa come un miliardo di volte. Ci piaceva perché ci
rispecchiava: lui vestiva perfettamente i panni di Martin, la zebra,
con la sua voglia di fuggire dallo zoo e io quelli di Gloria,
l’ippopotamo, per la mia decisione ma anche per
l’accondiscendenza con cuoi accettavo tutto quello che mi
succedeva attorno. Anche se lui diceva spesso che ero più
come Melman, la giraffa malaticcia, dato che avevo la borsa
dell’acqua calda sempre a portata di mano.
Sentire quella
canzone divertente mi tolse il fiato. Non so quante volte
l’aveva scimmiottata lui per me…
Ricordo il sospiro
profondo che feci quando il telefono smise di suonare. Restai a
fissarlo per qualche minuto, sperando che non arrivasse un messaggio
che mi avvisava di avere una comunicazione in segreteria.
A riscuotermi ci
pensò il telefono sulla mia scrivania.
Il suo numero
lampeggiava sul display… Erano tredici anni che aveva quel
numero. Glielo avevo regalato io, il primo Natale che avevamo
festeggiato insieme, come coppia.
Non sapevo nemmeno
che avesse il numero del mio ufficio, non mi aveva mai chiamato
lì. Doveva essere qualcosa d’importante. Ma lo
stesso dubitai sul da farsi.
Alla fine, dopo
innumerevoli squilli, risposi. Non dissi nulla, non ne ero capace.
“Giada!?
Giada sono nei casini! Ho bisogno di aiuto!”
Le lacrime mi
oscurarono la vista: quella era la chiamata che avevo sempre temuto di
ricevere. Lui con le sue difficoltà economiche, con quel
giro di amicizie sbagliate, con il suo carattere istintivo e sfrontato,
un po’ da guerriero… sapevo che prima o poi si
sarebbe messo nei guai, nei guai seri.
E se ora, dopo
quasi tre anni di silenzio, chiamava me per aiutarlo, doveva proprio
essere nella merda fino al collo.
Non
riuscì a dire granché, era così
agitato che gli tremava la voce e il respiro pesante, come dopo una
lunga corsa, spezzava le parole già storpie.
Non capii molto ma
mi mise il cuore in pace sapere che non era in una centrale di polizia,
che non era sotto la minaccia di un’arma e che non era
morente in un letto d’ospedale. A quanto avevo capito mi
stava chiedendo più che altro un consiglio su cosa fare o
non fare in quel momento. Non mi aveva detto molto, ma era chiaro che
era una situazione incasinata, che c’era un problema serio.
Mi disse che non poteva parlarne al telefono, mi chiese se potevo
raggiungerlo e mi diede un indirizzo.
Già
mentre ne prendevo nota storsi la bocca. Non era casa sua, ma era
comunque nel suo vecchio quartiere, quello stesso quartiere che anni
prima, ai tempi della nostra prima storia, ai tempi delle superiori,
aveva faticato a mostrarmi.
Abitavamo nella
stessa città e le nostre case erano entrambe in rioni di
periferia solo che la mia era la periferia ricca, quella fatta di poche
vie e poche case, con enormi spazi verdi, con case enormi, ben tenute,
spesso sfarzose e con giardini enormi in cui era facile perdersi.
Mentre la sua era la periferia povera. Quella in cui le case sono
stipate in poco spazio, quella in cui il degrado era
all’ordine del giorno, quella in cui trovavi facilmente tutto
quello che era illegale.
Naturalmente i
nostri quartieri, come gli altri in città avevano dei nomi
illustri, per ricordare un santo o qualcosa che aveva reso quel posto
un tempo famoso, ma per tutti erano il Prada, il mio,
in onore al grande marchio e lo
zoo, il suo, perché le case e la gente che ci
viveva ricordavano proprio quel posto.
Non ero
sicura di
voler andare ma le sue parole, la sua voce e il solo fatto che mi
avesse cercato dopo tutto quel tempo perdi più in ufficio,
mi fece desistere.
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