tramontoTramonto
I
capelli della bambina svolazzavano liberi nella brezza fresca di un tardo
pomeriggio d’estate, con il sudore che le imperlava la fronte e le braccia, le
mani che tenevano saldo l’orlo del vestito, troppo lungo e inadatto per una
corsa nei campi.
Isabella
correva, senza voltarsi indietro, le risate che si perdevano libere come
uccelli nel cielo. Gli steli di grano le colpivano le gambe, un leggero
bruciore si propagava sulla pelle chiara come la luna, piccoli segni rossi le
imporporavano quel candore così bambinesco.
«Bells!
Aspettami!»
Lei
si girò, guardò per un istante il suo migliore amico che la seguiva veloce, con
la pelle ambrata che risplendeva sotto i raggi cocenti del sole.
«Tanto
non mi prendi!», lo canzonò, mostrandogli la lingua in segno di sfida. Isabella
sapeva che Jacob Black era un ragazzino tenace e in qualche modo vendicativo,
eppure non la spaventava l’idea di farlo arrabbiare: lo conosceva forse fin
troppo bene, per lei era come un fratello maggiore.
La
bambina aumentò l’andatura, sfrecciando in mezzo al campo di grano, centinaia
di piccoli chicchi librarono al passaggio di Bella.
Il
ragazzino non smetteva di correre, con solo l’obiettivo di prenderla e farle
così tanto solletico da toglierle il respiro, ottenendo così la vittoria poiché
lo avrebbe scongiurato di smettere. Era il tallone d’Achille che indeboliva la
sua migliore amica, forse uno dei pochi che Jacob sapeva.
«Non
mi sfuggirai!», le urlò, cercando di essere il più serio possibile, soffocando
una risata e abbozzando un sorriso. Intanto Isabella era sparita dal suo raggio
visivo, ma sentiva chiaramente il grano spezzarsi più in là, vicino al piccolo
ruscello. Non si fermò, continuò a correre fino a che gli steli pronti alla
mietitura si diradarono per poi scomparire totalmente alle sue spalle. La
bambina era alla base di un melo alto qualche metro; Bella teneva le mani
dietro alla schiena, un sorrisetto furbo le dipingeva il viso, le gote
arrossate, piccole gocce di sudore che le colavano lungo le tempie. Il vestito
e le ginocchia erano macchiate d’erba – forse era caduta un paio di volte, le
scarpe da festa sporche di terra, il fango le imbrattava i calzini bianchi.
I
loro sguardi si incrociarono. Isabella fece un passo indietro, senza mostrare
le mani, e Jacob avanzò verso di lei. Qualche secondo dopo, la bambina era già
sui rami più alti del melo, mentre il ragazzino la seguiva a malapena, con il
fiato corto e le mani che gli bruciavano. Lei sì che era brava ad arrampicarsi
sugli alberi senza farsi male, non come lui che si sbucciava perennemente le
ginocchia e i palmi quando provava a salire su qualche tronco.
Ovvio,
Isabella era una ragazzina delle campagne, una che non riusciva a fare a meno
di stare a stretto contatto con la natura. Passava ore sugli alberi vicino a
scoiattoli o uccellini; cantava per chissà quanto tempo, fischiando e attirando
l’attenzione di vari randagi che passavano a qualche metro da lei. Non si
conteneva quando trovava qualche cucciolo abbandonato, portandolo da sua madre
che prontamente la rimproverava con parole dolci per non ferire quella bambina
buona come il pane.
Jacob
invece era totalmente il contrario della sua migliore amica: passava il suo
tempo per le strade, con i suoi coetanei, oppure dentro casa a suonare il
pianoforte o a leggere un buon libro. Non era capace ad andare a cavallo o
arrampicarsi su un albero, a pescare o a imitare i versi degli uccelli.
«Bells,
scendi!», la implorò, massaggiandosi le dita. La corteccia gli aveva graffiato
i palmi che ora sembravano andare a fuoco. Isabella gli fece una pernacchia e
poi gli tese la mano, come a invitarlo a raggiungerla.
«Sai
che non ci riuscirò mai, sto meglio quaggiù.», le rispose, eppure qualche
secondo dopo si ritrovò seduto sul grosso ramo dove Bella aveva trovato
rifugio. Da lassù vedevano tutto il campo di grano, e anche oltre: la strada,
le automobili che sfrecciavano, le colline imporporate dal rosso del sole che
cominciava a calare. Tante altre volte Jake aveva visto uno spettacolo così, ma
solo su libri o in vecchie fotografie scattate da suo padre.
«È
bello, vero?», mormorò Bella, ciondolando le gambe esili nel vuoto. Erano ad
almeno tre o quattro metri d’altezza, e Jake si stupì del fatto che lei non
volesse scendere, visto che soffriva fortemente di vertigini.
Lui
annuì. Il vento era aumentato e ora solleticava i loro colli, i capelli della
bambina avevano ripreso a volare e, colpiti dai raggi del sole, sembravano aver
preso una sfumatura rossiccia.
«Vengo
spesso qui, visto che è vicino casa. Ma non è la stessa cosa essere qui da sola
o con qualcuno.», continuò lei, senza distogliere gli occhi da quel tramonto
così incantevole. Quasi tutti i giorni saliva sull’albero, si accomodava,
facendosi cullare dal canticchiare degli uccellini e dalla fresca brezza che
risaliva dal rio e dal lago poco lontano, e aspettava che le tenebre calassero
e che sua madre la chiamasse dal loro giardino illuminato con le vecchie lampade
ad olio. «Volevo tanto portarci un amico.»
All’improvviso
tutto sembrò cambiare: Jacob non aveva più tredici anni, Isabella non ne aveva
più nove. Sembravano due adulti, che si tenevano mano nella mano. Due grandi
amici che ricordavano i bei momenti passati insieme.
Bella
si girò verso il suo migliore amico, guardandolo in viso. «Jake, mi prometti una cosa?»
Lui
si voltò nello stesso istante in cui i loro occhi si incrociarono. Una specie
di scintilla animò le loro anime, qualcosa oltrepassò il cielo, l’albero
ondeggiò e il vento si fece più forte, ma non si accorsero quasi di nulla. Lui
annuì, prendendole forte la mano. Tredici anni e qualcosa che stava per
succedere, qualcosa che lo avrebbe cambiato nel profondo.
«Mi prometti
che, ovunque noi saremo, anche fra tantissimi anni, ti ricorderai di me?»
Cosa
poteva risponderle? Ovviamente sarebbero sempre stati migliori amici, avrebbero
sempre vissuto nelle campagne del Kansas, frequentato lo stesso gruppo di
conoscenti. Sarebbero andati nello stesso liceo e poi alla stessa università,
magari scegliendo solo due formazioni diverse, ma Jake era sicuro che nulla
sarebbe cambiato anche quando sarebbero cresciuti e gli anni sarebbero passati.
Invece
non fu così, almeno lui non avrebbe mai pensato a un cambiamento così drastico.
New
York, la grande mela. Le luci delle strade illuminavano le camere ormai buie
dell’ospedale, mentre il pronto soccorso pullulava di vita come non mai.
Isabella
si aggiustò il camice, posizionando lo stetoscopio a ciondoloni intorno al
collo. Le sirene delle ambulanze ululavano, si avvicinavano, altre vite
andavano salvate, altri cuori che non bisognava far cessare di pompare.
«Ho
decisamente bisogno di un caffè.», mormorò la donna, rivolgendosi a una collega
che se ne stava seduta al centralino. Le sorrise, porgendole la caraffa piena
di liquido nero come la pece, che per le papille della dottoressa significavano
una cosa sola: altre ore incessanti di duro lavoro.
Bella
trangugiò il caffè caldo nel giro di pochi secondi, per poi buttare il bicchiere
usa e getta. Aveva ottenuto una laurea in medicina e aveva trovato un posto
fisso al Lenox Hill Hospital, e dopo tanti anni si chiedeva ancora perché
avesse scelto quell’indirizzo di studi. Non che odiasse ciò che faceva, per
carità, solo che… Forse non era la persona adatta a quel tipo di lavoro. Si affezionava incredibilmente ai suoi
pazienti, si lasciava incantare dalle storie della loro vita, stava ore ad
ascoltarli elogiare il proprio amore verso i figli, i nipoti, i famigliari in
generale. Era come avere una seconda famiglia, altre persone a cui voler bene.
Ma
quella era solo la parte piacevole dell’essere un dottore, ed era anche
infinitamente minuscola rispetto a ciò che le aspettava giornalmente.
Quando
un cuore cessava di battere, una mano mollava la presa da un’altra, un corpo
cadeva nel sonno perenne, Isabella scaricava il compito a qualche suo collega
di annunciare l’accaduto alle famiglie. La donna non sarebbe mai riuscita,
conoscendosi, a pronunciare quelle parole che ormai aveva sentito tante volte.
Si richiudeva nello stanzino e i singhiozzi si impadronivano del suo corpo,
colpito da una crisi isterica. Non si era mai visto un medico piangere per la
morte di un paziente, ma Isabella era fatta così, era debole sotto quel punto
di vista.
«Fino
a che ora vai avanti, stanotte?», le chiese la centralinista. «Fino alle
quattro?»
Bella
annuì, per poi controllare il cercapersone che suonava incessantemente. Congedò
l’amica con un gesto della mano e corse verso l’entrata del pronto soccorso,
dove un’equipe di colleghi la stava aspettando.
Le
porte si spalancavano, i paramedici spingevano una barella con su sdraiato un
uomo dalla pelle scura, con il collo bloccato e sangue ovunque.
«Uomo,
trentatré anni, incidente stradale, rischio di trauma cranico, presunta
frattura del femore e della tibia, ha perso molto sangue. Ha bisogno di una
trasfusione e di recuperare liquidi persi. Gruppo sanguigno A positivo.»
La
faccia del paziente era ricoperta da uno strato di liquido rosso ormai secco, gli
occhi erano piccoli e socchiusi, le pupille dilatate dalla paura.
«Salve,
sono la dottoressa Isabella Swan, è in ottime mani, non si preoccupi.», lo
rassicurò Bella, stringendogli le dita intorno alle sue. L’uomo sbarrò gli
occhi, cercò di dire qualcosa ma lo stato di shock non gli permetteva di
produrre neanche un suono. Qualche secondo dopo, le pupille si rovesciarono
all’indietro.
Isabella
contò nella mente: uno, due, tre… Segni di un coma, lo sapeva, ormai lo
riconosceva ancora prima che si fosse manifestato per intero. Il ragazzo le
strinse un’ultima volta la mano, pronunciando una frase che nella mente di lei
non si era mai cancellata.
La
fecero allontanare, con le lacrime che le scendevano ripide lungo le guance, e
se ne stava in piedi davanti alla sala operatoria, torturandosi l’interno della
guancia fino a farlo sanguinare.
Si
rifugiò di corsa nello stanzino, sedendosi per terra e portando la testa fra le
ginocchia, urlando a pieni polmoni: una crisi isterica. Rimase lì per ore, fino
a che il sonno non la prese.
La
camera era scura, le serrande abbassate. Un’incessante bip gli frastornava le
orecchie, un tubicino gli faceva il solletico nell’incavo del braccio.
I
suoi occhi dovettero abituarsi all’oscurità prima di accorgersi che si trovava
in una stanza d’ospedale. Jacob Black cercò di ricordarsi il più possibile: si
era fermato per aiutare una ragazza con l’automobile in panne, poi si erano
messi a chiacchierare, si era chinato e…
Il
vuoto. Schiacciò le dita sulle tempie per cancellare il nero, per aiutarsi. Ricordava
ancora solo un botto e il suo corpo dolorante, l’odore di sangue che gli
riempiva le narici, il senso di nausea, la vista annebbiata…
Sprofondò
ancora di più nel cuscino, con il rimbombare nelle orecchie. La testa gli
faceva veramente male, la gamba sembrava andargli a fuoco. Nella flebo forse
c’era morfina? O qualcos’altro per alleviare il dolore?
Ripensò
per qualche secondo al volto della dottoressa, che all’inizio gli sembrava così
famigliare… E poi erano bastate due parole, un’identificazione, per accertarsi
della realtà.
Isabella
Swan. La sua Bella, la bambina con cui correva nei prati nel Kansas. Quella
ragazzina dai capelli lunghi castani che prima gli erano parsi molto più chiari
di quanto rimembrasse. La Bella mingherlina con le gambe leggermente storte,
con la spruzzata di efelidi sulle guance e sulle spalle, le gote che si
imporporavano non appena qualcuno le faceva un complimento o un apprezzamento.
Le
aveva voluto così bene che la sua immagine era rimasta viva negli anni. Jacob
si ricordava perfettamente di lei, in ogni minimo particolare. Quasi conosceva
la precisa posizione di ogni neo che aveva sulla schiena, quante lentiggini
coloravano il suo viso grazioso. Tutte quelle piccole cose, quelle immagini
insignificanti per quanto importanti per lui, avevano costituito il fotogramma
di Isabella nella mente del ragazzo, perché aveva segnato una parte della sua
vita. Erano cresciuti insieme, si erano voluto bene come fratelli. Lui l’aveva
protetta come non mai.
Tossicchiò
e sentì un bruciore nel petto, le bende gli pizzicavano la pelle. Si girò per
guardare oltre la luce e sulla soglia vide un sorriso, il primo della giornata.
Le
mani le bruciavano da matti, ma Isabella non se ne curò. Il calore del caffè
sulle mani serviva per riportarla alla realtà, farle rendere conto che non
stava sognando.
Dopo
essersi addormentata appoggiata alla parete, con la testa fra le ginocchia,
Eden, una sua collega, l’aveva trovata e fatta risvegliare dal suo torpore. Da
quel momento, la testa di Bella sembrava scoppiare, peggio ancora che dopo una
sbronza.
L’avevano
obbligata a prendersi un caffè molto forte, perché nel caso della dottoressa
era l’unico rimedio per far passare il mal di testa da post crisi isterica. Non
l’avevano lasciata un secondo da sola, esattamente come succedeva tutte le
volte che lei crollava psicologicamente.
“Ha bisogno di
qualcuno con cui parlare, quando sa che è sull’orlo di una crisi. Stia con la
gente, ci chiacchieri. Non stia mai da sola quando si sente sballottata.”
Era
andata da uno psicologo. Uno psicologo,
roba da pazzi… Come se ne avesse avuto veramente bisogno, o almeno lei la
pensava così. Ma i suoi genitori l’avevano portata laggiù con la forza, come se
si trattasse di una visita quotidiana. Era andata su tutte le furie, perché non
sarebbe servito a nulla.
Era
ancora seduta sulla sedia nello stanzino delle infermiere, con Eden che le
accarezzava i capelli e le altre donne che le gironzolavano attorno come
mosche, quando prese una decisione: doveva alzarsi, andare da quell’uomo e
vedere se tutto era vero. Pensava di esserselo sognato, perché era strettamente
impossibile, ma se la tenevano lì non poteva fare nulla.
«Devo
andare da un paziente.», disse, raddrizzandosi. Teneva ancora il caffè in mano,
che ora si era nettamente raffreddato per la gioia dei suoi poveri palmi.
Nessuno
si oppose, e con passo svelto Isabella percorse i corridoi fino ad arrivare
davanti alla porta dell’uomo sconosciuto del pronto soccorso. Dormiva ancora,
la fronte imperlata da goccioline di sudore microscopiche. Doveva provare un
dolore lancinante, e lo stomaco della dottoressa si contorse a quel pensiero.
Se era veramente chi pensava che fosse, non se lo meritava, per niente. Il
monitor segnava i suoi battiti cardiaci, che ora erano tornati regolari dopo un
arresto durato meno di due minuti. Non tremava, non aveva convulsioni, non
sembrava contorcersi più di tanto… I suoi colleghi avevano fatto un lavoro
magistrale, come da etichetta. Ma Isabella non si dava pace. Doveva esserci lei
in quella sala operatoria, tenere lei in mano il bisturi. Voleva dire allo
sconosciuto che tutto sarebbe andato bene prima di farlo addormentare.
Ma
ci sarebbe veramente riuscita? Avrebbe aperto quel corpo, lasciando sì che le
voci nella sua mente smettessero di parlare?
Ora
le mani le tremavano vistosamente, quindi la risposta era chiara. No, non ce
l’avrebbe fatta. Si sarebbe allontanata urlando e piangendo, sentendosi solo in
colpa. Non poteva torturare quell’uomo, non lei.
Era
stato meglio così, in un certo senso, perché la crisi isterica in ogni caso era
arrivata, e Isabella non aveva fatto in tempo per placarla.
Ripensò
per un attimo alle parole dette dal paziente.
“Te l’avevo promesso”
Voleva
sapere il perché di quella frase. Magari, visto lo stato di shock e la
commozione cerebrale, l’aveva scambiata per qualcun altro. Molte volte
l’avevano salutata pensando a un’altra persona, era successo, non si
preoccupava. Ma quella volta invece un senso di ansia le logorava lo stomaco,
la pancia.
Quando
rialzò lo sguardo, lui si era svegliato. Sorrise al pensiero che i medici
dell’equipe l’avevano tenuto in vita, sebbene i traumi subiti fossero piuttosto
forti. Oltre alla commozione cerebrale e alla frattura della gamba, aveva perso
la milza e il bacino aveva riportato delle microfratture che nel giro di
qualche settimana si sarebbero messe a posto.
Ad
un certo punto, l’uomo si voltò, e lei sorrideva ancora. Rimase spiazzata, non
sapeva cosa dire o cosa fare, così rimase sulle sue, con il sorriso sulle
labbra, a giocherellare con il bordo del bicchiere di carta.
«Sono
stati grandiosi, i miei colleghi. Si rimetterà presto.», mormorò, avvicinandosi
lentamente. Posò il caffè sul comodino e si lasciò guardare: gli occhi di lui
vagavano sul suo viso, esaminandolo in ogni piccolo particolare.
«Puoi
smetterla di fingere, Bells.», disse rauco, porgendole una smorfia che poteva
assomigliare vagamente ad un sorriso. «Non c’è bisogno di prendersi in giro.»
Lei
ingoiò il nodo che le si era formato in gola e iniziò a giocherellare con le
dita. «Jake?»
L’uomo
annuì e debolmente le strinse le mani fra le sue, che tremavano. Le raccontò
tutto, e lei si sedette al suo fianco, ad ascoltarlo attentamente, proprio come
faceva con tutti i suoi pazienti.
Entrambi
conoscevano però come si erano persi di vista: da un giorno all’altro Isabella
dovette trasferirsi con i genitori a New York, mentre Jacob sarebbe rimasto
laggiù, nel Kansas. La ragazza dei prati che si spostava a correre per le
strade affollate di taxi e grattacieli; niente più campi di grano, tramonti
visti dai rami di un melo, ruscelli che scorrevano pacifici al limitare di un
giardino.
Jake
se l’era immaginata, a piangere in un appartamento della Grande Mela,
ricordando tutto ciò che si era lasciata alle spalle… Lui compreso.
Il
ragazzino ormai uomo aveva fatto lo stesso: aveva trascorso interi pomeriggi
chiuso nella sua stanza, a rimembrare la voce di Bella che era sparita assieme
alla sua felicità.
Per
entrambi il sole era sparito. Non videro più nessun tramonto senza ricordarsi
l’uno dell’altra, lontani migliaia di chilometri.
«Rimirare
un tramonto mi ricordava te. Tu eri il mio tramonto, lo sei sempre stata. La
promessa di non dimenticarti l’ho mantenuta, sono stato fedele.», sussurrò lui
con voce strozzata, segno che stava per cedere.
Isabella
non sapeva se somministrargli una nuova dose di antidolorifici o rispondergli,
ma presa dall’impeto posò le sue labbra fredde su quelle di Jacob, che erano
totalmente l’opposto.
Quante
volte avevano entrambi sognato un bacio come quello? Tante, troppe, soprattutto
lui, che si era sempre immaginato al fianco della sua Bells, a guardare un
tramonto in riva a qualche fiume o, meglio ancora, in cima a quel melo che
aveva popolato i sogni di tutti e due.
Dopo
qualche secondo si staccarono, le mani che ancora si stringevano. Ora le labbra
di Isabella erano bollenti.
«È
il tramonto.», sussurrò, fissandolo negli occhi scuri. Ricordava tutto di lui,
ogni piccola cosa, e i suoi occhi le erano sempre piaciuti, così scuri e
profondi, come la notte che ormai sovrastava la città.
Jacob
la guardò sorpreso. «È notte fonda, non dire stupidaggini.»
Lei
lo zittì, posandogli due dita sulla bocca. «È il tramonto che segna la fine
della lontananza. Perché noi siamo di nuovo insieme, come sopra quell’albero di
mele nel Kansas.»
Felici
e liberi, mani nelle mani. Lui aveva di nuovo tredici anni, lei di nuovo nove. Erano
di nuovo uniti.
Nel
giardino della casa di campagna una bambina con la pelle ambrata e i capelli
rossicci rincorreva le farfalle. I suoi occhi, dello stesso colore del
cioccolato, le inseguivano, brillando al sole che ormai si stava ritirando
dietro le colline. Dietro di lei, Isabella e Jacob ridevano, seduti su una
coperta con un bimbo paffuto che muoveva i primi passi. I capelli neri e la
pelle chiara risplendevano alla luce rossastra del crepuscolo, mentre gli occhi
chiari – presi dalla nonna materna, sembravano gioire.
Erano
ritornati nel Kansas per una vacanza, per far conoscere ai figli la terra che
aveva cresciuto i loro genitori. Fra quei campi, era sbocciato un amore
giovane, fanciullesco, nascosto dall’innocenza di una bambina ma scoperto alla
mente dell’adolescente.
Ma
in realtà era stata una pausa richiesta sia da Bella che da Jake, per tornare
un po’ a scoprire loro stessi, per tornare dove erano nati, anche per
incontrare i genitori di lui che ancora non avevano conosciuto il nipote
maschio.
Le
risate della famiglia si propagavano per tutta la distesa di erba. Nonostante
ormai fosse tardo pomeriggio, e l’oscurità si stesse affacciando, il caldo non
sembrava mollare, ma Isabella e Jacob ne erano ben felici.
Jocelyn
ballava sotto quel cielo screziato di rosso, lilla e arancio; cantava una
filastrocca che Bella le aveva insegnato qualche giorno prima. Seguiva il ritmo
delle parole pestando i piedini sul prato, in un balletto divertente agli occhi
dei suoi genitori.
Daniel
batteva le mani cicciottelle, con un sorrisino sdentato sul viso. Due fossette
ai lati della bocca fecero sì che Bella gli baciasse entrambe le guance.
Si
erano sposati dopo un anno che si erano rincontrati. Tutti dicevano che stavano
andando troppo velocemente, che ci sarebbe voluto più tempo per conoscersi meglio.
Ma a cosa poteva servire? Loro si conoscevano dalla nascita, non avevano
segreti, il tempo ormai non contava più, ora che erano tornati insieme.
Isabella era rimasta incinta qualche mese prima del matrimonio, e Jocelyn era arrivata poco prima di
Natale, con qualche giorno di anticipo. L’avevano fatta vestire di rosso, in
stile natalizio… Una delle solite idee di Jacob.
Le
ci erano voluti più di cinque anni per dire di nuovo ‘sì’ a Jake per allargare
la famiglia, e Daniel non si fece aspettare. In una mattina primaverile era
venuto al mondo un fiorellino dal peso decisamente notevole. Se era stato
veloce ad arrivare, a nascere non si poteva dire lo stesso. Ben due settimane
di ritardo e quattro chili di dolcezza.
Erano
passati più di sette anni da quel loro incontro nell’ospedale di Manhattan, e
Isabella ancora non riusciva a credere che il destino fosse stato così benevolo
con lei.
Da
quando Jacob era al suo fianco, non ebbe più crisi isteriche, e il suo lavoro
andò a gonfie vele. Era felice, decisamente.
Ora
il tramonto era al suo massimo apice, con i colori che dipingevano ogni cosa.
Jocelyn
indicò la palla di fuoco oltre le colline, e Bella sorrise, per poi vedere il
melo. Era sempre lì, nessuno lo aveva abbattuto, niente era cambiato.
E
nella sua mente erano di nuovo bambini, a correre fra i prati, a ridere e
rotolarsi nei campi di grano. Erano di nuovo su quel ramo a guardare il
crepuscolo, uniti come non mai.
Guardò
Jacob negli occhi, sorridendo. Sì, le cose non erano cambiate più di tanto,
alla fine. Lo amava, e con lui avrebbe rimirato ogni singolo tramonto della sua
vita, fin quando lui sarebbe stato al suo fianco.
Ta-daaaaan! Ebbene sì, sono tornata, con un pairing che non mi si addice granché XD Però
ho voluto partecipare al contest di Aniasolary, "Never and again
contest", e ho scelto la coppia opposta a quella per cui tifo di solito
lol Comunque ammetto che sono veramente felice del risultato, cosa
veramente strabiliante visti i mesi di secca... Nella mia mente c'erano
le balle di fieno come nel deserto, yuppi! Non so che altro dire, se
non chiedere alle ragazze a cui piace JacobxBella di dirmi la loro :)
Non sono una grande tifosa, della coppia, si sa, però... Meglio
provarci! :) Potete trovarmi su: Facebook: PROFILO e GRUPPO Pagina grafica: QUI Grazie mille per aver letto, e si va di commentare sarei veramente felice. Un bacio, Ever :)
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