Doctor's
Lullaby
Con
il sibilo della portà, Spock scivolò nella
penombra della sala, le
mani strette sulla schiena come sempre quando doveva concentrarsi o
districare i propri sentimenti. L'aria era buia e fresca, silenziosa;
ma nell'infermeria bruciavano ancora i fantasmi
dell'attività
frenetica appena passata, come cicatrici nascoste negli angoli, nelle
flebo abbandonate sui lettini, nelle chiazze rossastre che i suoi
occhi coglievano sui lucidi strumenti cromati. Quel luogo tremava di
dolore, di pietà e di coraggio, in un modo che esulava dalla
logica
e risvegliava parti di lui che non credeva di possedere. Esattamente
come l'uomo che l'abitava.
Era
proprio per cercarlo che Spock era sgusciato via dal ponte, in quel
lungo pomeriggio di revisioni e controlli, e aveva lasciato che i
suoi piedi lo conducessero per uno dei sentieri che meglio conosceva,
e che bastava a colmare il suo sangue di un calore inspiegabile e
delizioso. Quel giorno, l'equipaggio dell'Enterprise aveva dovuto
discendere su Gardalia, un pianeta dalle dolci e fragili
città
flagellato da un morbo oscuro che ne aveva falciato la popolazione in
poco più di un mese. Raramente il Primo Ufficiale, il cui
sguardo
non aveva rabbrividito di fronte ad orrori e drammi anche
più
grandi, aveva conosciuto una miseria così tremenda; e resa
ancor più
insopportabile dalla totale irrazionalità di un simile
evento. Che
logica serviva una malattia che consumava i suoi stessi ospiti,
morendo mentre infliggeva morte? Che ordine del cosmo, che superiore
mosaico di saggezza imponeva quei fiumi di volti devastati, quei
pianti che si levavano continuamente tra i fumi dei roghi? La
malattia non è logica, Spock, gli aveva detto
Bones una volta,
mentre trascorrevano una sera bevendo tazze di tè profumato
e
ammirando insieme i ricami candidi delle stelle, non
è una cosa
pulita e comprensibile; è sudicia, stupida e impietosa. Per
combatterla ci vuole cervello, certo, e conoscenza: ma bisogna anche
essere disposti a sporcarsi le mani, e a dibattersi nel fango per
strapparle gli altri uomini.
In
quel giorno, il primo Ufficiale l'aveva capito; e insieme allo
sgomento di cui l'aveva riempito lo sguardo smarrito e assente dei
malati, era cresciuto anche un timore più egoista,
più umano, che
si addensava ogni volta che incontrava gli occhi azzurri e indifesi
di McCoy, tra le urla e il fruscio di camici dell'Infermeria: il
timore di ciò che quelle morti avrebbero potuto fare al
cuore troppo
generoso del suo dottore. Ora era lì per scoprire quanto a
fondo nel
fango avesse dovuto sprofondare, e se la sua presa sarebbe bastata
per trascinarlo in salvo.
Spock
avanzò, i tacchi degli stivali che schioccavano sul
pavimento. Non
chiamò ad alta voce, sapeva che Bones avrebbe riconosciuto i
suoi
passi.
Fu
in quel momento che udì il suono: un mormorio basso, senza
parole,
piacevolmente roco, che si alzava e si modulava come il grave
tremolio di un liuto Vulcaniano. Inarcando un sopracciglio, il Primo
Ufficiale svoltò l'angolo: e la scena davanti a cui si
trovò gli
strappò il cuore.
Leonard
sedeva su un lettino, le spalle esili sotto il camice, le palpebre
socchiuse; con una mano, ravviava i capelli sottili di un bambino
raggomitolato sul suo grembo, il volto immerso nel sonno abbandonato
dell'infanzia. Per qualche motivo, quell'immagine, così
quotidiana,
così sommessa, lo commosse in un modo che fino a qualche
mese prima,
fino a quando lui e il dottore non avevano scoperto i loro
sentimenti, gli sarebbe sembrato impossibile. Si avvicinò,
lentamente, per non interrompere il canto di Bones, per non
rinunciare a quella calda magia; ma il medico si accorse di lui, e
alzò gli occhi. Gli sorrise, e Spock si rese conto con
sollievo che
si trattava del suo solito sorriso: forse un poco sbiadito dalla
stanchezza, forse un poco incrinato agli orli, ma anche quella volta
non si era spezzato. Il Primo Ufficiale non ne sarebbe mai stato
abbastanza grato. -Ehi- sussurrò Leonard -come sta il mio
goblin
preferito?-.
-Non
rivelo nessun motivo di disagio- rispose imperturbabile il Vulcaniano
-...adesso.-
Fu
una parola, una goccia di miele, ma al dottore bastò.
-E
tu?- domandò a sua volta; si sentiva ancora impacciato ad
usare quel
tono così palesemente amichevole: la formalità
stridente delle loro
diatribe aveva qualcosa di intimo, di complice che continuava ad
amare. -Come stai?-
McCoy
sospirò. -Come sempre ogni volta che mi trovo davanti ad
un'epidemia. Stanco, ingarbugliato e maledettamente impotente.-
-Non
avresti potuto salvarli tutti, Leonard.-
-Lo
so. Ma questo non rende le cose più facili.-
Spock
riconobbe il cambio di correnti nel grande oceano tempestoso che era
Bones, e tentò di arginare la marea. Indicò il
ragazzino, in una
muta domanda.
-Si
chiama Arshanan, o un altro nome impossibile del genere- rispose il
dottore, continuando a sfiorargli le ciocche chiare -L'ho trovato che
vagava per l'Infermeria, terrorizzato, e cercava i suoi genitori. Li
ho curati entrambi io. Sono morti.-
McCoy
distolse il viso, ma il Primo Ufficiale non si lasciò
ingannare:
tese il braccio, avvolgendolo intorno alle spalle dell'uomo, e fu un
gesto così ovvio e istintivo da non sembrargli neppure
difficile.-Raccontami.-
Bones
posò la testa sulla spalla di Spock: il suo corpo emanava
sempre un
tepore profondo, dorato, come quello di una stella. -Avevo appena
finito di somministrare l'ultima dose di antidoto- cominciò
– il
resto dei pazienti era già tornato a casa.-
Spock
serrò le labbra: la nave non aveva potuto portare
più di un certo
quantitativo di medicinali, a meno di ridurre i magazzini
scientifici. A questo proposito, lui e Leonard si erano lanciati in
uno dei litigi più infuocati e scenografici della loro
esistenza
comune. Ma in quel momento nessuno dei due voleva combattere.
-Ad
un certo punto, alzo gli occhi e mi trovo davanti questo ragazzino
magro dagli occhi enormi che mi fissa con aria solenne. “Mi
scusi,
signore” mi dice “ha per caso visto la mia
mamma?”. In un
secondo, guardandolo meglio, mi rendo conto di aver già
visto quei
capelli bianchi e quei tratti dolci: erano gli stessi di una donna
che avevo curato qualche ora prima, e a cui io stesso avevo chiuso
gli occhi. Ricordarlo è stato un colpo in mezzo al petto,
Spock. Per
fortuna sono riuscito a tirare fuori qualche parola, e gli ho
risposto. “No, piccolo, non credo di averla vista.
Però se vuoi
posso farti vedere un sacco di strane cose di metallo. Ce
n'è anche
una per guardare nella gola della gente.” Così
l'ho preso per mano
e gli ho mostrato tutto quello che c'era nella mia borsa da medico.
Poi gli ho preso un sandwich e un succo di frutta, e dopo qualche
minuto mi è praticamente crollato addosso.- un momento di
silenzio,
un respiro. -Il guaio è che mi assomiglia così
tanto. Così tanto.-
Il Primo Ufficiale gli strinse il braccio, delicatamente, nel modo
con cui cui sapeva che McCoy si sarebbe sentito protetto ma non
commiserato; quella era una storia che Bones gli aveva raccontato
solo da poco, sussurrandola contro l'incavo del suo collo nel buio
della loro camera. Sfiorando la mente del dottore, poteva immaginare
il piccolo Leonard, tutto gomiti e ginocchia, rannicchiato accanto al
muro della camera di sua madre, le urla di lei che si mischiavano ai
suoi singhiozzi soffocati; l'odore di disinfettante e di sangue che
accompagnava l'arrivo del dottore; la figura accasciata di suo padre,
troppo sprofondato nel proprio dolore per curarsi di quello di un
bambino di sette anni. -Mi dispiace, Leonard.-
-Non
devi dispiacerti- mormorò McCoy -non è colpa tua,
né di nessun
altro. È solo che sono un vecchio dottore sentimentale.
Insomma, so
che è assurdo reggere un'intera nottata di morti e malattia
e poi
piagnucolare di fronte ad un unico bambino, ma è tutto
così...-
inspirò a fondo – ...così uguale che mi
viene voglia di urlare. È
come se in lui vedessi me stesso, e anche Johanna. Essere genitori
è
una responsabilità enorme, Spock. Oltre a quella di insegnar
loro a
vivere, c'è anche quella di non lasciarli soli troppo
presto.-
Ecco
un'altra delle cicatrici, pensò Spock, un'altra delle ferite
mai
rimarginate che bruciavano sotto la dolcezza ruvida di Bones, e che
in qualche modo ne facevano parte. Aveva dovuto lasciare sua figlia
bambina, senza accompagnarla il primo giorno di scuola, senza
litigare con lei per i primi ragazzi, senza vederla sbocciare in una
giovane donna. Le poche volte che si erano sentiti, i toni erano
stati aspri e feroci, troppo simili e quindi ancora più
irosi. Era
uno dei grandi rimpianti del dottore.
-Che
cosa farà adesso Arshanan?- chiese -che cosa gli
succederà? Verrà
sballottato tra i parenti, fino a quando sarà abbastanza
grande da
cavarselo da solo, senza aver conosciuto una vera famiglia? Non posso
permetterlo. Non posso.-
Per
qualche istante rimasero in silenzio, il Primo Ufficiale eretto e
solido, Leonard con la testa appoggiata al suo braccio, le lacrime
che scorrevano senza rumore.
Poi
le parole vennero in superficie, come anelli nell'acqua.
-Che
cosa gli stavi cantando, prima?- domandò Spock.
-Oh, . Una ballata
del Sud che mia nonna mi cantava sempre per farmi
addormentare. Sembra che funzioni ancora, dopotutto.-
Il
Vulcaniano esitò solo un istante, un brivido di fronte a
quel gesto,
a quella sfida a tutto ciò cui aveva obbedito nella sua
vita. Ma per
Bones, ne valeva la pena. -Pensi che potrei cantare per voi una
canzone? È un famoso canto Vulcaniano.-
Leonard
sorrise contro la sua uniforme, riprendendo ad accarezzare i capelli
di Arshanan; il bimbo dormiva tranquillo. -Certo.-
Spock
cominciò, la voce bassa e fluida come oro fuso, incanalata
da una
disciplina senza asprezze: il canto scivolò nell'Infermeria
deserta,
magico, solenne, vibrante di fuochi nascosti come tutti i Vulcaniani,
allontanando l'odore di sangue, arginando un poco i ricordi. Il
respiro contro la sua spalla diventò più
profondo; gli occhi di
Bones erano chiusi, i capelli scarmigliati, le occhiaie due solchi
violacei. Spock lo trovò bellissimo.
Continuò
a cantare piano, stringendo entrambi a sé.
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