Ritorno
Ritorno
Una
fanfiction su “X”
Di Natalie Baan
(traduzione di Shu)
“Ehi, bellezza!
BELLEEEZZAAA!”
Lo schiamazzo risuonò per il corridoio, accompagnato dal rombo in rapido
avvicinamento di piedi al galoppo. Arashi alzò gli occhi dal suo libro,
spaventata, e prese in considerazione l’idea di correre a chiudere a chiave la
porta mezza aperta della sua camera da letto. Ebbe appena il tempo di completare
il pensiero, che si stava rivelando una buona soluzione, perché in un secondo la
porta fu spalancata con un’energia tale che sarebbe stato un disastro se ci
fosse stato qualcuno nelle vicinanze. Sorata si affacciò dalla soglia, col
fiatone, con una mano che ancora stringeva la maniglia e l’altra a puntellarsi
contro il muro del corridoio. Un respiro, un sorriso timido, e poi bussò con due
nocche allo stipite della porta.
Lei gli scoccò uno sguardo accigliato. Prendendolo come un invito, il ragazzo
schizzò nella stanza e si lanciò con un balzo sul letto per atterrare a gambe
incrociate. “Indovina che cos’ho qui?” annunciò, sventolando un piccolo mazzo di
quelli che sembravano foglietti di carta.
“Cosa sono?” Se l’avesse ignorato, lui le avrebbe ripetuto la domanda almeno
altre due volte, in modi diversi, e alla fine glielo avrebbe detto lo stesso;
quel metodo invece era molto più efficace.
“Biglietti dello Shinkansen!”
Ogni sillaba era dotata di un proprio punto esclamativo, e sembrava dimenarsi
per l’euforia come la coda di un cagnolino sovreccitato. Sorata cominciò a
contare i foglietti a due a due e a posarli sul copriletto. “Il Tokaido
Shinkansen per Shin-Osaka, poi c’è la Namba Station –oh, ma quello è solo un
tratto di metropolitana, i biglietti possiamo farli anche là- dopo prendiamo il
diretto Nankai Tetsudo fino a Gokuraku-bashi, e infine c’è solo da fare un
pezzettino in funivia!” Con un gesto teatrale le allungò una metà del mazzetto,
identica all’altra, e poi tornò a sedersi con un risolino per lei che se ne
stava sulla sua sedia con lo schienale dritto accanto alla finestra. “Andata e
ritorno per due per il Monte Koya, a spese del Tempio!”
“Io non vengo con te.”
Oh, di certo doveva essersi aspettato che la sua reazione sarebbe stata quella,
ma esibì lo stesso lo sguardo sorpreso e implorante ad occhi sgranati. “Ma,
bellezza, sarà fantastico! Posso mostrarti tutti i panorami –conosco ogni
angolo dei templi, e anche tutti i posti più belli sulle montagne- e poi lì sarà
tutto così piacevole e fresco e verde in questo periodo dell’anno. Molto meglio
che Tokyo a ferragosto, anche qui all’Istituto. Ecco.”
E lì Arashi sentì un piccolo tuffo al cuore, e le vennero in mente il tempio di
Ise e la nebbia mattutina che si alzava come fumo tra le colline coperte
d’alberi, quelle innumerevoli sfumature di verde smorzate e addolcite dalla luce
che annunciava l’aurora, come un soffice tappeto di muschio da stendere ai piedi
della dea al suo risveglio. L’odore delle foglie bagnate, il ponte Ujibashi
lucido di pioggia che si curvava in un piccolo arco verso i torii del cancello,
il canto basso del fiume mentre levigava incessantemente i sassi, tutte queste
cose la chiamarono dai ricordi, lontano oltre la città tentacolare, quella Tokyo
soffocante di caldo, sempre di corsa, piena di pericoli. Girò una pagina del suo
libro, accorgendosi solo dopo che non l’aveva finita di leggere. “Te lo ricordi,
vero, che dovremmo proteggere le barriere di Tokyo dai Draghi della
Terra?”
“Ma staremo via soltanto un giorno e una notte” la blandì. “Okay, così non c’è
tempo per vedere un sacco di cose –ma non sarà bello staccare, anche se solo per
un pochino? Ho già parlato con gli altri, e Karen-san e Sumeragi-san e tutti gli
altri mi hanno detto che ci sarà una sorveglianza extra quando saremo via,
giusto per sicurezza!” Nuvole di temporale dovevano aver cominciato ad
addensarsi visibilmente nell’espressione della ragazza –che presuntuoso, si era
accordato con gli altri Draghi del Cielo prima ancora di chiedere a lei, come se
avesse già accettato!- perché Sorata fece marcia indietro all’istante. “Aspetta,
aspetta!” Si guardò addosso con aria agitata prima di infilarsi una mano dentro
la camicia che portava sopra la canotta, causando un momentaneo stato d’allarme
in Arashi. Ma non ne tirò fuori nulla di più pericoloso di una lettera un
po’ accartocciata, che brandì trionfalmente. “Ho delle comunicazioni top-secret!
Da parte del Direttore per l’Indovino del Koyasan!” Le mostrò la lettera, con
l’apertura verso di lei, e Arashi poté distinguere chiaramente il sigillo
ufficiale dell’Istituto CLAMP, stampigliato in ceralacca. Sorata lanciò in aria
la busta, con un po’ troppa energia –quella compì una piroetta, ondeggiando qua
e là, e lui dovette allungarsi fin quasi a cadere dal letto per riacchiapparla.
Se la strinse al petto e indirizzò alla ragazza uno spudorato sguardo da
innocente. “Non vorrai farmi portare queste cose così importanti tutto da solo?”
Arashi chiuse gli occhi, e pregò i kami di concederle molta pazienza.
* * * * *
Le ombre del crepuscolo si stavano facendo più scure, come il colore del tè
quando si spande e tinge l’acqua in cui è messo in infusione, mentre Arashi
cominciava a risalire la riva del fiume. Quella tranquillità, quella solitudine
erano accoglienti, sembrava che il bosco fosse diventato una stanza privata, un
santuario sigillato da cortine di buio. Passò di nuovo dall’Okunoin, con i
segnacoli delle sue tombe che si drizzavano in piccoli gruppi tra le rocce e lo
svettare dei cipressi, fin dove lo sguardo si poteva spingere in quella luce
incerta. L’antico cimitero era immerso nel silenzio, tranne ogni tanto per lo
stridente frinire di una cicala: tutti i turisti e le scolaresche se n’erano
andati ora che il complesso del tempio era chiuso per la notte. Di loro era
rimasta qualche offerta, bastoncini d’incenso ormai consumati o quasi, e il
ricordo del loro passaggio, l’eco dei passi, delle voci, del battito vivo dei
cuori, a dissolversi nella presenza dei defunti che tutto avvolgeva.
Onorevoli antenati, spiriti
guardiani…
Lasciato il cimitero, trovò il sentiero che si apriva su per la collina e
portava al complesso principale del tempio. Non sapeva bene se poteva stare in
giro dopo l’ora di chiusura, sebbene i monaci le avessero assicurato che, da
ospite di riguardo qual era, poteva visitare liberamente tutto, a parte i
santuari più segreti, e anche se nessuno era venuto a cercarla lì sulla riva del
fiume dove aveva passato le ultime ore delle giornata. Comunque, sentiva che era
meglio trovare Sorata prima di rientrare alla foresteria. Era certa che neanche
lui sarebbe tornato indietro senza di lei.
Non era stato poi così male come aveva temuto –o almeno, non dopo i primi minuti
di viaggio sullo Shinkansen, durante i quali Sorata aveva dato spettacolo,
com’era prevedibile, facendo un sacco di chiasso. Una volta che era riuscita a
convincerlo che riferirsi alla loro trasferta come a una “luna di miele in
anticipo” in sua presenza non era una buona idea, si era calmato e aveva
cambiato rotta, raccontando una lunga serie di storie sulla sua vita nel
monastero. Le sembrava quasi di conoscere il posto, e tutti i vari personaggi
che vivevano, lavoravano e meditavano lì, allo stesso modo in cui conosceva il
quieto, raccolto mondo dei servitori dei kami a Ise. Era stato solo verso la
fine del viaggio che si era accorta di come Sorata fosse riuscito a tirare fuori
anche a lei qualche piccolo aneddoto, ma, ad ogni modo, non riusciva proprio a
pentirsene. Quello che era iniziato come un monologo si era trasformato in una
conversazione. E quel cambiamento non le era riuscito sgradito.
E più si avvicinavano al Koyasan, più diventava facile stare con Sorata, perché
l’oggetto della sua attenzione si era spostato da lei. Prima ad Osaka, poi
durante il secondo tratto in treno su per le montagne, e soprattutto quando
avevano raggiunto il tempio, i pensieri del ragazzo si erano rivolti su quello
che lo circondava, invece che su qualunque cosa fosse quell’attrazione che
provava per lei. Non aveva esagerato quando aveva detto di conoscere ogni angolo
di quel posto, e nella sua euforia di ritornare a casa era tutto un traboccare
di commenti da acuto osservatore interno su ogni sito che visitavano, una guida
turistica sorprendentemente istruttiva e coinvolgente. Le sembrava di aver
imparato davvero tante cose, anche se erano di fretta. A ripensarci, il
pomeriggio era stato una girandola di vedute e di suoni, impressioni di una vita
–il pianoro a forma di coppa circondato da otto cime, simili a petali di un
fiore dischiuso; il rosso rubino della pagoda di Konpon Daito che fiammeggiava
contro l’azzurro del cielo, quei due colori riconciliati dai tetti d’ardesia
incurvati in armoniose parabole, mentre un inatteso soffio di brezza estiva
carpiva un tremolio di musica dalle campane del vento appese ai pinnacoli; la
rassegna degli incredibilmente complessi stili di ikebana del Koyasan al Museo
Reihoukuran; il lento, sonoro rintocco della Campana delle Sei –e attraverso
tutte queste cose passava il filo della voce di Sorata, che sottolineava certi
punti, spiegava, regalava un aneddoto, un segreto, una risata. E anche il
silenzio, si era resa conto, l’eclissarsi di quella voce quando ce n’era
bisogno: un silenzio che, in quei sacri recinti, immersi nella reverenza e nella
bellezza, spesso bastava.
Non si era mai accorta che Sorata avesse un dono per il silenzio.
Verso la fine della giornata l’aveva visto esitare un po’, era scivolato per
qualche minuto in una quiete diversa, e poi aveva suggerito che forse le sarebbe
potuto piacere farsi una passeggiata da sola lungo il fiume. Le aveva parlato di
un particolare masso che si affacciava su un bacino piccolo ma sorprendentemente
profondo, e infatti era proprio là che la ragazza aveva concluso la sua
camminata, all’ombra del verde scuro dei rododendri, ad ascoltare il fiume che
mormorava contro i sassi prima di indugiare in un’immobile superficie d’argento,
uno specchio per la contemplazione. Anche per essere sul Monte Koya, la calura
estiva era considerevole, ma in quell’angolo esisteva solo il fresco dell’ombra
e dell’acqua. Il suono delle voci dei turisti era stato remoto e saltuario,
riguardava quasi solo loro, come i richiami che si lanciavano gli uccelli.
Arashi si era chiesta se anche Sorata considerasse quel luogo un rifugio, anche
se, dal modo in cui gli altri monaci che avevano incontrato l’avevano
punzecchiato sulla sua infanzia da combinaguai, sospettava che il suo intento
fosse stato più di nascondersi che di stare in solitudine. Ma aveva scelto bene
per lei –il dispiegarsi di un silenzio di cui non si era accorta di aver bisogno
finché non era arrivata là, la pace di respirare nel profumo del bosco, in
un’aria densa ma dolce, imperturbata. Chissà se era stato per la capacità del
ragazzo di scovare bei posti, o per quella di guardare dentro alle persone;
chissà se l’aveva fatto per lei, o per svolgere quella missione, qualunque
fosse, che li aveva portati fin lì.
Forse, concluse, era stato un po’ per tutte quelle cose insieme.
Raggiunse il Kongobuji appena prima che facesse davvero buio. Il tetto ricurvo
del tempio si distingueva ancora dal cielo quasi notturno. Si stava avviando
verso il portico illuminato dalle lanterne, quando si bloccò, perché seduto lì
c’era un vecchio, tutto coperto di vesti e mantelli nonostante il tepore della
sera, una persona che le era stata presentata all’inizio della giornata
–l’astrologo e veggente, l’Indovino Chuu. Il nonno, come lo chiamava
Sorata. Arashi esitò, perché nonostante la disinvolta familiarità che Sorata
aveva con lui, l’Indovino era un uomo di eccezionale fama e potere spirituale, e
lei solo un’ospite che forse era rimasta un po’ troppo a lungo dove non doveva.
Ma il volto barbuto del vecchio si distese tra le rughe in un sorriso gentile,
anzi, accogliente. La ragazza gli si avvicinò, nella luce soffusa delle lanterne
appese al tetto, e s’inchinò.
“State continuando a trarre beneficio dalla vostra visita, carissima?” le
chiese, la voce debole e un po’ tremante per via dell’età. “Il nostro Sorata non
vi starà facendo stancare troppo?”
“No, signore. Grazie. Questo viaggio è stato davvero piacevole.” Tutte le
meraviglie dei duecento anni di storia di quel luogo sacro le balenarono ancora
una volta nelle mente, e lei arrossì appena, cercò di tirar fuori qualcosa di
più generoso. “Anche tra il resto dei tesori nazionali del Giappone, Koyasan è
un vero e proprio gioiello che spicca per il suo splendore.”
“Quel che si innalza spesso viene abbattuto.” ammonì lui, ma gli occhi gli
brillavano. “Anche se bisogna ammettere che il nostro stimato fondatore non era
noto per essere molto dimesso.” Le dita della mano che emergeva dalle stoffe per
tener chiusa la veste si mossero, in un gesto vago, generico. “Sapete, i fulmini
e quant’altro.” Arashi annuì. Aveva letto la leggenda di come Kukai avesse
scoperto il sito dove fondare il suo centro religioso scagliando un fulmine a
forma di tridente dalla Cina, e quando era finalmente arrivato nel punto in cui
la folgore aveva colpito, i kami della montagna gli avessero fatto dono di quel
luogo. “Quanto a noi, siamo onorati di essere semplici guardiani, custodi di
queste meraviglie che il passato ha lasciato al nostro paese.”
Arashi fece un altro inchino, in segno di consenso e rispetto, e poi chiese,
incerta: “Scusatemi, signore, ma Sorata-san si trova qui?”
“Sorata è… dentro.” L’anziano uomo si mosse appena, quindi si risistemò. “Volete
che uno dei monaci vi riaccompagni alla foresteria?”
Ah.
“Non preoccupatevi, vi ringrazio, posso trovare la strada da sola.” Ne sapeva
abbastanza di misteri religiosi da poter leggere dietro quelle parole oblique:
Sorata era rientrato nell’ambito del tempio, al momento non era disponibile per
gli esterni. Si trattava dell’incarico per cui erano venuti, che ancora, a
quanto ne sapeva, non era stato neppure menzionato? (Infatti, aveva cominciato a
sospettare che il Direttore dell’Istituto CLAMP avesse fatto da Cupido. Forse
avrebbe dovuto scambiare due parole con il suo segretario una volta a casa,
giusto per star sicuri.) Affari interni, o magari l’adempimento di qualche rito
privato? Non aveva intenzione di chiedere. Ma il cuore le risuonò, come un gong,
di un’improvvisa nostalgia per Ise, per Kaede, per la sua camera nella
successione degli ordinati spazi del santuario, un senso di solitudine
inaspettato, dai mille echi. Rimase perplessa, chiedendosi se le parole
dell’Indovino fossero un congedo.
Il vecchio sospirò.
“Qualche volta mi interrogo” mormorò “su quello che facciamo ai giovani. Il peso
dei voti presi da bambini. Di vivere le conseguenze di decisioni prese da altri,
le circostanze che le scelte di altri hanno costruito.”
“Per tutti i bambini ci sono cose decise dai genitori.” replicò Arashi, un po’
rigida, cercando di dare un parere diverso ma senza offendere, specialmente se,
come sembrava, l’Indovino stava parlando quasi solo a se stesso. “Io non mi sono
mai pentita dei miei voti.”
“Mmm. Ma un voto significa poco finché non viene messo alla prova. Finché non se
ne sperimenta e comprende pienamente il costo.” L’anziano monaco fece una
risatina. “A differenza della maggior parte dei genitori, almeno io posso dire
che le stelle mi hanno mostrato quel che doveva essere. Passo dopo passo, esse
disegnano il corso di tutto ciò che è stato, che è, che sarà. Ma questo sapere…
non giustifica le azioni che si compiono. Ognuno dovrebbe farsi un esame di
coscienza, perché, dopotutto, nessuna forza estranea ha la responsabilità di
quello che fanno gli esseri umani. Ma bisogna stare attenti a scegliere tra il
far soffrire e il compiere la cosa giusta. Soprattutto quando anche quest’ultima
può essere ugualmente dolorosa…” La sua voce si spense, l’uomo aveva lo sguardo
rivolto oltre il cortile del tempio, verso la distesa di oscurità, e il bosco
che era adesso solo una nuvola nera, più scura del cielo notturno contro cui si
stagliava. Ma dopo un attimo si voltò di nuovo verso Arashi, e le sorrise.
“Stanno spuntando le stelle.” disse. “I miei assistenti saranno qui a momenti
per spegnere tutte le lampade.”
Questo sì che era un congedo –Arashi fece un ultimo inchino, più profondo
dei precedenti, e poi si allontanò, dirigendosi verso la parte anteriore del tempio
e la strada principale che scendeva giù per la montagna fino all’alloggio per i
visitatori. La ghiaia del cortile scricchiolava sotto i suoi passi. Laggiù, la
cicala solitaria di prima era stata raggiunta dalle compagne, a giudicare
dall’aumento del volume del suono; e in lontananza le sembrò di avvertire, quasi
coperto dal frinire, il canto basso di voci maschili. Con il cadere della notte,
l’aria si era fatta piacevolissima, fresca e sottile, e in alto già si poteva
scorgere lo scintillio di una o due stelle, nonostante l’illuminazione del
portico del tempio. Arrivata al margine del bosco, si fermò, alzando di nuovo lo
sguardo verso il cielo non ancora coperto dai rami –e fu una lunga pausa, prima
che si decidesse a riprendere la strada. Quel cielo notturno parlava di potere,
di enigmi, di una conoscenza inesplicabile, ma le stelle non avevano nessun
messaggio per lei.
* * * * *
Quando uscirono dalla metropolitana, Arashi fece uno sforzo e smise di stringere
i denti. Ora che erano arrivati alla stazione di Shin-Osaka, dopo due ore e
mezzo di viaggio, erano esattamente a metà strada per il ritorno. Di sicuro a
Sorata si sarebbero scaricate le batterie entro breve.
Perché Sorata era in uno stato di… iper-agitazione, persino per lui. Non
c’era altro modo di descriverlo. Fin dalla loro partenza al mattino dal Koyasan,
corredata da schiamazzi e battutine di saluto ai monaci, per tutto il viaggio
era stato un ciclone: un continuo di chiacchiere e barzellette anche peggio del
solito. Della calma del giorno prima non c’era più traccia; Arashi si chiedeva
se si trattasse di una sorta di reazione uguale e contraria, come un pendolo
che, arrivato a fine corsa, oscilla di nuovo verso l’estremo opposto, oppure se
fosse solo Sorata che stava cercando di scrollarsi di dosso le restrizioni del
monastero. Alla Namba Station, l’aveva assillata per fermarsi a mangiare
hamburger (“Il cibo Shojin-ryori non è male, però non ti riempie… Bellezza, vuoi
un po’ di patatine?”), e in un negozio di souvenir aveva cercato di comprarle la
versione gigante del peluche mascotte di Osaka, e lei era stata costretta ad una
strenua lotta per rifiutare. Per non parlare di tutti i suoi vani tentativi di
offrirle dolci e snack di ogni sorta. Il risultato era che stavano quasi per
perdere la coincidenza per lo Shinkansen. Ma potevano ancora farcela, a patto di
evitare altri ritardi.
“Oooh, uffa, non abbiamo avuto il tempo di vedere proprio niente” si
lamentava Sorata, mentre cominciavano ad attraversare la stazione tutta
illuminata dal sole. “Avremmo dovuto restare almeno un altro giorno! Ci sono un
sacco di cose che non ce l’ho fatta a farti vedere. Il Nyonindou è bello.
Antico. Sai, fino all’era Meiji le donne non potevano entrare al Kongobuji
–dovevano stare lì, nel tempio per le donne. Sono proprio contento di essere un
ragazzo di oggi! Ahahahaa!” Arashi strinse più forte la tracolla della borsa nel pugno,
cercando di far finta che nessuno li stesse guardando. “Anche se, a crescere nei
quartieri dei monaci, in realtà non c’erano lo stesso donne in giro. Le turiste
e le ragazze in gita visitavano il posto, ma non c’era nessuna a viverci tutti i
giorni. Ehi! Lo sai cosa stavo pensando? Il fatto che prima solo gli uomini
potessero diventare monaci buddisti, e che lo shintoismo sia partito con quasi
tutte donne come sensitive e sciamane… è proprio come se fossero la mano destra
e la mano sinistra. Sono fatti l’uno per l’altra…”
“Non ti allargare troppo.” Ma perchè tutto doveva sempre finire lì, si
chiedeva. La sua replica fu seguita dal silenzio. Sbatté le palpebre –possibile
che fosse riuscita sul serio a zittire Sorata?- ma poi si accorse che si era
fermato qualche metro più indietro. Voltandosi, vide che era rimasto impietrito
a metà di un passo, con lo sguardo rivolto lontano, verso un punto della
stazione, e un’espressione particolare, quasi sconcertata sul viso. E poi, con
uno scatto, si riscosse e passò all’azione: in un balzo raggiunse Arashi e la
agguantò per il polso.
“Vieni, vieni, vieni!” La trascinò quasi correndo nel suo slancio, ad una
velocità troppo alta perché lei potesse puntare i piedi e liberarsi dalla sua
presa. Si ritrovò senza fiato e si lasciò scappare un gridolino di spavento,
tutta rossa in viso. Oh, questa volta l’avrebbe ammazzato davvero. “Signora!
Ehi, signora!” Sorata si tirò dietro Arashi mentre correva dalla parte
opposta della stazione, dove c’era una donna che se ne stava vicino al banco
delle informazioni, probabilmente in attesa di qualcuno. La signora alzò lo
sguardo piuttosto stupita quando la corsa dei due si arrestò davanti a lei.
Sorata tirò fuori da una tasca dello zaino una macchina fotografica usa e getta
e cominciò a gesticolare. “Mi farebbe il favore più grande del mondo,
scatterebbe una foto a me e alla mia ragazza?”
“Ma
che…!”
“Basta che prema quel tasto grosso nero.” spiegò il ragazzo, indicando
prontamente. L’altra mano era rimasta chiusa attorno al polso di Arashi. Lei
cercò di divincolarsi dalla stretta, ma Sorata la tirò, riuscì, chissà come, a
farla voltare e, quando se la trovò vicina, la schiena contro il suo petto, se
la strinse circondandole spalle e petto col braccio. Arashi s’irrigidì, sentendo
la gola strozzata e gli occhi che si spalancavano. Sorata era riuscito a tirar
fuori la mano libera, due dita distese nel segno della vittoria; c'era soltanto
da immaginarsi il sorriso idiota che doveva esserglisi stampato in faccia.
“CHEEEEEESE –ough!” E mentre lui si piegava in due per la gomitata, la
ragazza si liberò e si allontanò furiosa di qualche passo, fuori portata, a
distanza di sicurezza.
“Oh” fece la donna, abbassando la macchina fotografica. “Non sono sicura che sia
venuta molto bene.”
“Va benissimo” rispose Sorata boccheggiando. “Sono… sono sicuro che sarà
perfetta.” Cercò di raddrizzarsi. “Aaah –grazie mille, signora.” Arashi rivolse
uno sguardo obliquo ai due, e vide la donna restituire la macchina a Sorata.
Doveva avere probabilmente meno di quarant’anni, era snella e vestiva un abito
leggero a fiori, smanicato; i capelli castani, di media lunghezza, li portava
legati, a parte due ciuffi che le arrivavano al mento, incorniciandole il viso.
Aveva gli occhi grigi. Stava sorridendo appena, un’espressione che si trasformò
in sorpresa quando Sorata, insieme alla macchina fotografica, le prese anche le
mani.
“Signora, lei ha appena fatto la mia felicità.” disse il giovane, a voce bassa e
con un sorriso d’insolita intensità. “Assolutamente.”
“Oh, ma non è stato niente di che, in realtà…”
“Niente di che? Signora, lei è troppo modesta! Ahahaha!” Sorata staccò il
bocciolo di un geranio da una fioriera che era lì vicino e piegò un ginocchio a
terra per presentarlo alla donna –ignorando l’uomo in uniforme che aveva aperto
la porta del banco informazioni e aveva cominciato a urlargli contro. “Davvero!
Lei è la migliore!”
La donna si portò una mano alla guancia mentre le veniva offerto il fiore. “Oh,
cielo…”
Arashi non poteva sopportare oltre. Girò le spalle ai due e riattraversò a passo
di marcia la stazione in direzione del binario dello Shinkansen, ignorando le
suppliche stupite di Sorata che la pregava di aspettare. “Grazie ancora,
signora!” lo sentì sgolarsi mentre ancora si attardava dietro di lei, cercando
di indugiare un altro po’. “Buona giornata!”
“Anche a te” rispose la signora, il divertimento affiorava chiaro dalla sua voce
ora che la stava alzando per raggiungere il ragazzo. “Sono sicura che le cose
andranno al meglio per voi due!” E poi Arashi credette di aver sentito la donna
ridere, un breve, allegro tintinnio, prima che i rumori della folla
inghiottissero tutto.
“Bellezza –aspettami- sto arrivando…!”
A passare tanto tempo con Sorata, era diventata una professionista dei
cento metri. Si lanciò su per le scale e arrivò al binario esattamente mentre le
porte del treno si aprivano con uno sbuffo. Infilandosi nella più vicina,
attraversò le carrozze, anche se non abbastanza velocemente da seminare del
tutto il suo inseguitore. Lo sentì scusarsi perché si era scontrato con un
impiegato da qualche parte dietro di lei. Raggiunti i loro sedili, si lasciò
cadere su quello accanto al finestrino e tenne lo sguardo ostinatamente rivolto
verso i binari lì fuori. Il tentativo di sfuggirgli era stato ovviamente
inutile, visto che avevano i posti assegnati l’uno accanto all’altra, ma sperava
di avergli almeno mandato un messaggio.
Sorata arrivò proprio quando il treno aveva appena ripreso a camminare. Si
sprofondò nel sedile dal lato corridoio con tale tatto che la sua compagna pensò
di essere finalmente riuscita a fargli capire quanto fosse irritata. Nella fila
c’erano tre posti, ma nessuno venne a reclamare il terzo. Bene –voleva dire che
potevano tenere il sedile vuoto in mezzo a loro, almeno fino alla prossima
fermata. Quel silenzio inconsueto continuò mentre il treno attraversava la
città. Alla fine, Sorata si schiarì la gola. “Ah… immagino che adesso tu ce
l’abbia un po’ con me.”
“Non riesco a credere a quanto sei stato sfacciato con quella donna!” Seppure
con uno sforzo, Arashi dominò la rabbia, che si era smorzata ma senza diminuire
davvero –era rimasta come un’irregolare massa di piombo a opprimerle il petto.
“Una perfetta estranea!” lo accusò, tenendo la voce bassa ma lasciando sferzante
il tono. “E poi, se era sposata?”
“Ah, ma non lo era. Un’estranea, voglio dire. Almeno, direi di no, non in
teoria. Però, sì, era sposata.” Sorpresa, Arashi si girò a guardare
Sorata. Si era lasciato scivolare nel sedile, coi gomiti sui braccioli e le dita
intrecciate in grembo. Gli occhi, persi a fissare il retro del sedile di fronte,
gli brillavano. “Quella donna… era mia madre.”
La rabbia si dissolse un soffio d’aria nel cuore di Arashi, e la ragazza prese
un lungo respiro, lentamente. “Credevo… credevo che tu fossi stato portato via
dai monaci quando eri molto piccolo. Che non ricordassi nemmeno il viso di tua
madre.” Nei mesi passati, briciole e brandelli delle loro storie personali erano
venuti fuori, e Sorata le aveva parlato della sua infanzia anche prima del loro
viaggio a Koyasan.
“E’ vero. Ma questa volta, quando sono stato a trovarlo, ho chiesto al nonno
Chuu di aiutarmi a vedere dove potevo incontrarla. Perché forse non avrò
un’altra possibilità. Volevo ricordarla meglio.” Sorata chiuse gli occhi. “L’ho
fatta ridere –hai visto?” mormorò in un piccolo sorriso estatico che lo faceva
assomigliare ad un qualche improbabile Buddha. “Sono riuscito a vedere il suo
viso che rideva.”
“Ma…” Arashi era un po’ incerta, non sapeva quanto poteva intromettersi, quanto
dolore poteva nascondersi dietro quell’apparente calma. Pensò alle parole
dell’Indovino, sui voti e le scelte. “Non le hai detto chi eri tu.”
“Sì. Lo so.” Gli occhi di lui si dischiusero –lo stesso grigio di quelli
della signora, notò Arashi. Il ragazzo voltò la testa dall’altra parte, lasciando
scivolare lo sguardo lungo il corridoio. “Non volevo vederla piangere di
nuovo.”
Arashi restò ad osservare il suo viso, che si era fatto più serio, una lieve
tensione attorno ai sopraccigli, lo sguardo concentrato su qualcosa di più
lontano della carrozza del treno. Ma all’improvviso, lui sbatté le palpebre, si
raddrizzò nel sedile, e quell’istante era già passato. “Oh, ecco che arriva la
ragazza col carrello degli snack. Bellezza, sei sicura di non volere niente? Un
panino, o magari delle patatine, o una Coca?”
Quell’istante era già passato, ma non era svanito, come non era svanita Osaka,
anche se persino i suoi sobborghi erano ormai lontani, come non lo era il
Koyasan, il loto dagli otto petali adesso richiuso nel suo rifugio sulla
montagna: entrambi avevano lasciato la loro impronta nella mente e nel cuore.
Allo stesso modo in cui le scelte fatte e le loro conseguenze sono le fondamenta
su cui ognuno costruisce la propria vita. Con aria composta, Arashi si lisciò
la gonna e poi si posò le mani in grembo. “Vorrei un pacchetto di Pocky alle
mandorle, per favore.”
“Davvero?” Sorata la guardò con una faccia stralunata. Inarcò un sopracciglio,
poi subito schizzò in piedi, una mano dietro la nuca. “Perfetto! Ogni tuo
desiderio è un ordine, mia bella! Muhahahaa!” Le regalò un sorriso abbagliante
prima di girarsi a chiamare a gesti la cameriera, e, d’istinto, Arashi ripose
quel ricordo nel posto più profondo, dentro di sé: il fermo immagine del suo
volto che sorrideva, e rideva.
Note
dell’autrice:
Il
monte Koyasan, il Loto dagli Otto Petali, situato a poco più di due ore di
viaggio da Osaka, nella prefettura di Wakayama, è il sito di quello che è il
quartier generale del credo Shingon del buddismo esoterico. Ha quel soprannome
perché il pianoro sulla cima della montagna è a forma di coppa ed è circondato
da otto piccole creste. La costruzione del tempio Shingon principale, Kongobuji,
fu iniziata dal fondatore della setta, Kukai (noto anche col nome di Kobodaishi)
nell’819, anche se il complesso che si vede oggi e l’uso del nome “Kongobuji”
per indicarlo risalgono al diciannovesimo secolo. Ci sono più di 120 templi
disseminati nella zona, che è anche parco nazionale.
Potete
dare un’occhiata al sito
http://www.koya.org/eng/index.html per vedere le foto della maggior parte
dei posti a cui si è accennato in questa storia, e anche per avere una
descrizione dello stile di ikebana del Koyasan.
La leggenda
della fondazione del monte Koya che ho messo in bocca ad Arashi è un bell’esempio
classico di sincretismo tra buddismo e shintoismo; potete leggerla su
www.asunam.com/koyasan_page.htm.
Shojin-ryori
è una speciale dieta vegetariana servita al tempio, che consiste in verdure,
cereali e alghe marine. Oltre che ai monaci, viene data anche ai visitatori che
alloggiano alla foresteria.
E per
finire, il pezzo che riferisce che le donne non erano ammesse all’interno
del Kongobuji e che dovevano invece stare al tempio
Nyonindou è una notizia
autentica. Su un sito di turismo giapponese ho trovato le parole che potete
leggere più in basso –questo sito fornisce anche un po’ di contesto per le
religioni misteriche citate nel manga delle CLAMP, e mi ha dato l’opportunità di
riflettere anche con una punta d'ironia sulla vita del Giappone moderno:
“L’isolamento dal resto del mondo era un addestramento comune per i giovani
monaci buddisti in passato. E, sebbene l’accesso alle donne fosse stato vietato
alle donne fino all’era Meiji, adesso chiunque può visitare il posto grazie alla
funivia.”
I
ringraziamenti vanno ai Char per il supporto, e in particolar modo a K-chan,
perché le sue domande sui genitori di Sorata sono state la scintilla iniziale
che ha messo in moto questa storia; e poi a Mel, per avermi indicato come si
scrive Koyasan. ^^
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