Che festa stupida, San
Valentino… Crudele, soprattutto. Specie per chi ci crede fermamente.
Un pensiero di questo
genere non è di certo comune, pertanto non ci stupirà di sapere che la
persona convinta di tale verità sia una delle più enigmatiche dell’intera
scuola media annessa al Fuuka Gakuen: il bel viso imbronciato, lo sguardo
sicuro ed inquietante, i modi di fare tipici di chi non vuole avere contatti
umani. Non a caso, non aveva mai avuto amici, prima d’ora, ma non certo
perché non ne volesse. Semplicemente, si trattava di un’imposizione paterna.
Anzi, faremmo meglio a precisare che l’imposizione paterna non implicava il
non stringere amicizia con qualcuno, quanto il non rivelare un dato segreto
che Okuzaki Akira portava nel cuore da quasi quattordici anni: sebbene
avesse passato l’intera vita ad indossare abiti maschili e a comportarsi
come si conviene ad un bambino, nessuno doveva sapere che in realtà Akira
era una ragazza. Il perché non le era stato spiegato, ma intanto doveva
obbedire agli ordini del genitore che, per quanto crudele potesse sembrare
a prima impressione, in realtà aveva come unica preoccupazione quella di
proteggere sua figlia dal destino spietato che l’attendeva. Questo,
tuttavia, solamente chi è a conoscenza della leggenda delle HiME può
comprenderlo.
E perciò, dicevamo, Akira
non aveva mai avuto la possibilità di farsi degli amici veri; e come poteva,
se da un lato non faceva altro che bisticciare con i suoi compagni di classe
e dall’altro guardava, ammirava, invidiava le bambine della sua scuola? Loro
potevano vestirsi come volevano, loro potevano comportarsi spontaneamente,
loro potevano essere se stesse in tutto e per tutto. Lei no. E, di
conseguenza, finiva immancabilmente per rimanere da sola.
Per quanto la situazione
le pesasse, Akira era riuscita a reggere abbastanza bene l’imposizione di
suo padre; dopotutto, da bambina, aveva avuto ben poco di che camuffare il suo
aspetto che, tutt’al più, l'aveva fatta apparire come il più bel ragazzino della
scuola per via dei lineamenti delicati. I problemi, però, erano iniziati una
volta raggiunta la pubertà, cosa che, ahilei, l’aveva coinvolta nell’ultimo
semestre delle scuole elementari e, soprattutto, dopo il suo ingresso alle
medie.
Il menarca l’aveva colta
alla sprovvista proprio pochi giorni prima dell’inizio del nuovo anno
scolastico, come se il fatto che il suo seno avesse cominciato a crescere
già da un po’ non fosse stato sufficiente. E benché non fosse
particolarmente formosa – non ancora, per lo meno – le era stato imposto
anche di fasciarsi il petto per nascondere anche la minima rotondità sotto
gli abiti, ancora rigorosamente di foggia maschile. Ma a rendere davvero
complicata la situazione era stata la consapevolezza che, con il suo
ingresso al Fuuka Gakuen, avrebbe dovuto abbandonare la casa paterna per
trasferirsi nel dormitorio maschile della scuola, arrivando così a
condividere la camera con un altro studente. Con un ragazzo. Maschio.
Adolescente. Altresì chiamato “guaio”.
Il “guaio” di Akira,
nello specifico, si chiamava Tokiha Takumi. Nella sfortuna era stata
fortunata: mai aveva conosciuto ragazzo più buono, dolce e gentile di lui.
Senza contare che, soprattutto, Takumi era così ingenuo da non fargli
minimamente sospettare la verità sulla sua vera natura. E nonostante Akira
avesse accomodato una tenda tutt’attorno al suo letto, alla sua scrivania e
al suo armadio, in quelle parti di stanza, insomma, che aveva
precedentemente marcato come suo territorio grazie anche all’ausilio di
nastro adesivo per rendere visibile il confine fra le due metà del pavimento
della camera quando la tenda non era tirata, Takumi non aveva assolutamente
avuto nulla da ridire in merito né tanto meno lo aveva considerato un
comportamento bizzarro da parte del proprio coinquilino. Eppure, Akira non aveva
osato abbassare la guardia, rimanendo perennemente sul chivalà. Aveva
provato a ricorrere alla sua solita aggressività per metterlo alla prova, a
trattarlo male per prendere le distanze e per scoraggiare ogni suo tentativo
di fare amicizia. Tutto inutile. Ogni volta che Akira gli mostrava il
grugno, Takumi le sorrideva. Ogni volta che lei gli dava dello stupido, lui
si scusava e tornava a sorriderle di nuovo. Ogni volta era una battaglia.
Una guerra interiore per Akira, si intende, perché alla fine aveva iniziato
ad affezionarsi a quel ragazzo, arrivando lì dove non avrebbe dovuto:
diventare sua amica. E, peggio ancora, ad innamorarsene.
Tokiha Takumi, insomma,
era il suo “guaio” per eccellenza.
San Valentino era alle
porte, e con esso l’umore di Akira aveva iniziato a tornare oscuro come i
primi tempi, cosa che balzò subito agli occhi del suo amico: benché Akira
non fosse, almeno in apparenza, propensa a distribuire sorrisi a destra e a
manca, Takumi aveva imparato a comprenderne gli stati d’animo basandosi
unicamente sull’inclinazione della sua arcata sopraccigliare. Si era
arrangiato a capirla così, insomma, e bisogna riconoscere che era diventato
davvero bravo in questo: per lo meno, non litigavano più come prima. O per
meglio dire, Akira non gli sbraitava più contro come faceva all’inizio. Ora
capitava soltanto una volta al mese, all’incirca, e senza apparente
motivazione, per di più; ma Takumi ancora non era riuscito a realizzare il
perché questo accadesse con una tale sistematica periodicità, e pertanto si
limitava a far finta di nulla.
Tuttavia questa volta era
sicuro che mancassero almeno due settimane a tale manifestazione di
“affetto” ed “amicizia” da parte del suo compagno di stanza, eppure… Eppure
Akira era di cattivo umore. Era prudente chiederle il perché? No, non lo
era. Takumi, però, pareva amare il rischio.
«Akira-kun, come mai sei
arrabbiato, in questi giorni?» si decise a chiederle proprio la mattina del
fatidico 14 febbraio, dopo che, per tutta la durata della colazione, lei gli
aveva dato dello “stupido” tre volte più del solito.
Gli occhi dal taglio
sottile della ragazza lo passarono da parte a parte, scocciati, indignati.
«Io non sono arrabbiato» sbuffò, issandosi la borsa con i libri sulla
spalla. «E non farmi più domande così stupide.»
«Scusa…» bofonchiò lui,
mentre uscivano insieme dalla camera per recarsi a scuola. Rimasero in
silenzio per un po’, l’una che procedeva con passo deciso, le mani in tasca
ed il viso corrucciato, l’altro che la seguiva in silenzio, il capo basso,
gli occhi incollati alla sua schiena. Chiunque avrebbe creduto che Okuzaki
Akira fosse un tipo strano, irritante per certi versi; ma non Takumi, il
quale, non si sa bene il perché, le si era affezionato più che a chiunque
altro – eccetto sua sorella maggiore. Nonostante il carattere a volte
scontroso di Akira, in effetti, Takumi aveva scoperto in lei una persona dal
cuore puro e gentile quasi quanto il suo, capace di generosità e di
comprensione verso i suoi sentimenti ed i suoi stati d’animo. Insomma, in
quello che credeva essere il suo compagno di stanza, Takumi aveva trovato un
amico vero; e malgrado Akira provasse le medesime sensazioni ed avesse
voluto essere sincera fino in fondo, con lui, non le riusciva di mettere in
pratica questo suo proposito per via di quel maledetto ordine paterno: mai
rivelare ad anima viva che sei una ragazza.
E così il povero Takumi
restava ignaro dell’identità della sua migliore amica, nonché dei sentimenti
che ormai lei provava nei suoi confronti già da un po’ di tempo e che non
aveva la possibilità di esprimere in nessun modo. Se fosse stata una ragazza
come tutte le altre, Akira avrebbe potuto prendersi la libertà di dargli
almeno un indizio, al riguardo, magari proprio quel giorno, quello in cui
tutte le donne giapponesi dichiarano i propri sentimenti alla persona amata
con un semplice gesto: donare del cioccolato.
Ma non era questo il
motivo che l’aveva spinta ad odiare la festa degli innamorati, quanto il
fatto che, tutti gli anni, il 14 febbraio si dimostrava un vero e proprio
incubo per il suo povero stomaco. Fin dai tempi delle elementari, infatti,
decine di bambine non avevano fatto altro che perseguitarla con i loro
regali, e dal momento che ad Akira piacevano i dolci e che all’epoca non
aveva ancora ben chiara la concezione dell’amore, accettava quella
cioccolata senza lamentarsi, salvo farlo il giorno dopo, quando,
sistematicamente, era costretta a letto a causa di una brutta indigestione.
Quell’anno, però, le cose
sarebbero andate diversamente, e questo perché adesso Akira sapeva cosa
volesse dire amare.
«Di’, Takumi» iniziò di
punto in bianco quando l’edificio scolastico era ormai prossimo. «Nel caso
qualche ragazza oggi ti avvicinasse per regalarti della cioccolata, hai
intenzione di accettarla?»
Colto alla sprovvista, il
ragazzo rimase un attimo immerso nei suoi pensieri. «Di solito lo faccio, ma
perché me lo chiedi?» e nel momento in cui formulò quella domanda, si
accorse che una delle sopracciglia di Akira si era aggrottata ulteriormente.
«Qualcosa non va?»
«La tua insensibilità»
annuì lei, diretta come sempre. «Se accetti i loro regali, darai
l’impressione di accettare anche tutto il resto.»
Takumi la fissò confuso.
«Tutto il resto?»
La ragazza sospirò,
demoralizzata. «Tu sei davvero…» ma non finì la frase e tagliò corto con la
spiegazione. «Hai idea di che cosa significhi la cioccolata che le ragazze
regalano ai ragazzi nel giorno di San Valentino? E’ chiaro che se accetti
quei regali, darai loro false speranze riguardo i tuoi sentimenti nei loro
confronti. Ti è chiaro, ora, il concetto?»
Lui rimase nuovamente
pensieroso per un attimo, gli occhi azzurri incollati alla strada. «Non
l’avevo mai preso in considerazione da questo punto di vista…» dovette
infine confessare. «Sei davvero in gamba, Akira-kun» si profuse quindi nella
solita ammirazione per la compagna, un sorriso sulle labbra.
Akira grugnì qualcosa di
non meglio specificato, ed insieme varcarono la soglia dell’edificio prima,
e quella dell’aula dopo, dove furono quasi assaliti dall’intera componente
femminile della classe: dotati entrambi di lineamenti delicati, ma di una
bellezza e di un temperamento in totale opposizione, Okuzaki Akira e Tokiha
Takumi erano considerati i due ragazzi più belli delle medie. Ed il fatto
che fossero compagni di stanza e per di più amici inseparabili, aveva
alimentato a non finire una lunga catena di pettegolezzi circa il loro
rapporto, visto in chiave prettamente omosessuale da buona parte delle
studentesse dell’intero Fuuka Gakuen, le quali, evidentemente, avevano letto
troppi shonen-ai e, non riuscendo più a distinguere realtà e fantasia,
osservavano sempre con fervente immaginazione ogni singola mossa ed
espressione dei due poveri ragazzi, vittime del loro morboso, perverso mondo
di sogni e fantasticherie a luci rosse. Se solo avessero saputo che Akira in
realtà era una ragazza…
Trovatasi davanti ai
primi regali della giornata, Akira protese le mani in avanti, ma non per
accettare quei doni, quanto per respingerli. E benché i volti affranti delle
fanciulle mossero a pietà il buon Takumi, quasi disposto ad accettare la
cioccolata al posto di lei, lo sguardo feroce che Akira gli scoccò fu
abbastanza eloquente da farlo desistere e fargli tornare alla mente il
discorso fatto pochi minuti prima.
«Mi dispiace, ma non
posso accettarli nemmeno io» fu costretto a spiegare alle sue compagne.
«Perché, c’è già qualcuno
che ti piace?» volle sapere qualcuna di queste.
Lui scosse il capo. «Oh,
non si tratta di questo, è solo che…» I suoi occhi cercarono la figura di
Akira, forse per trarne forza. Peccato solo che le suddette compagne
travisarono completamente il significato di quello sguardo, e pertanto
subito di convinsero che il cuore di Takumi appartenesse già al suo migliore
amico. Se però il lettore crede che ciò fosse bastato a deprimerle,
certamente si sbaglia: questa loro convinzione non fece altro che aumentare
la loro curiosità, e, di conseguenza, il loro interesse verso i due ragazzi.
«Il fatto è che…»
«Non preoccuparti!»
interruppero infatti Takumi, il sorriso dipinto sul volto, la gioia negli
occhi. «Abbiamo capito perfettamente quel che vuoi dire!»
«Secondo me, non hanno
capito un accidenti…» ringhiò invece fra i denti Akira, mentre prendeva
posto al suo banco, in fondo all’aula, il viso arrossato per l’imbarazzo. Se
anche Takumi ignorava tutte le voci che circolavano per la scuola, la sua
amica, di gran lunga più sveglia, aveva ben chiaro il quadro della
situazione; e nonostante la cosa non la toccasse più di tanto, in quanto
donna, non le andava granché giù che, agli occhi degli altri, il suo
compagno di stanza venisse etichettato come omosessuale. D’accordo, Takumi
non era certo la personificazione della virilità, ma da qui ad asserire che
non fosse maschio, ne correva, per la miseria!
«Potevi almeno accettarne
uno!» lo rimbrottò infatti al termine delle lezioni, mentre facevano ritorno
al dormitorio.
Takumi la fissò
accigliato. «Ma stamattina mi avevi detto che…»
«Sì, però così penseranno
che…!»
«Cosa?» domandò quando
lei lasciò la frase a metà. «E comunque sono d’accordo: illudere il cuore di
una ragazza, è una cosa riprovevole» stabilì, forte di questa sua nuova
convinzione.
Akira sospirò, a metà fra
la rassegnazione ed il sollievo; dopotutto, non aveva accettato il
cioccolato di nessuna delle loro compagne, e questo non poteva che
significare una cosa soltanto: a Takumi non piaceva nessuna di loro. Ottima
notizia. Sia ben chiaro, a scanso di equivoci, che il consiglio di Akira
circa il non accettare la cioccolata da parte di chi non ha il nostro amore,
non era minimamente dettato dalla gelosia, quanto più semplicemente
dall’immedesimarsi nelle altre ragazze: se Takumi avesse accettato la sua
cioccolata, di certo l’avrebbe resa felice; ma se contemporaneamente avesse
accettato anche quella delle altre ragazze, ecco, questo l’avrebbe avvilita,
perché avrebbe voluto dire che lui non prendeva sul serio i suoi sentimenti.
Erano ormai rientrati in
camera quando Takumi tornò nuovamente sul discorso precedentemente caduto
nel vuoto. «Però… alla fine…» iniziò, sedendo a gambe incrociate sotto la
coperta del kotatsu accanto al quale aveva lasciato cadere la borsa con i
libri, le braccia sul ripiano, lo sguardo afflitto, «con tutta quella
cioccolata che mi è passata sotto al naso oggi, mi è venuta voglia di
mangiarne un po’…»
Akira lo fissò di sbieco
per via di quella che le parve un’inconscia provocazione. Quel viso da
bambino, però, non le riuscì di farle mantenere l’aria imbronciata. «Ti va
qualcosa di caldo? Fuori fa molto freddo, oggi.»
«Sì, grazie, mi ci vuole
proprio» sbadigliò il ragazzo, scivolando con la testa sul tavolo,
crogiolandosi nel calore della coperta. Socchiuse gli occhi e rimase in
attesa che Akira gli portasse del tè. Ma quel che lei gli mise davanti una
manciata di minuti dopo fu ben altro: già l’odore lo aveva indotto ad alzare
lo sguardo, e quando si era reso conto che l’amica aveva preparato della
cioccolata calda per entrambi, rimase per un attimo a fissarla con aria
inebetita.
Impacciata, nonché rea di
giocare sporco, arrivando a regalargli furtivamente del cioccolato per vie
traverse, Akira ebbe l’impressione che Takumi avesse finalmente capito
qualcosa che già da tempo avrebbe dovuto intendere: che fosse il fatto che
lei era una ragazza e che era innamorata di lui, o, peggio, che si fosse
infine accorto delle voci che giravano per la scuola e che pertanto
reputasse sconvenienti i sentimenti di quello che credeva un suo amico,
questo la giovane kunoichi non poteva stabilirlo. Tuttavia, incrociando gli
occhi chiari di lui, il sangue freddo le venne meno e fu costretta a chinare
il capo sulla propria tazza, cercando così di nascondere in qualche modo la
propria colpevolezza e la propria vergogna.
«Grazie, Akira-kun»
furono invece le gentili parole che arrivarono alle sue orecchie, mentre il
giovane prendeva la cioccolata fra le mani e la portava alle labbra per
sorseggiarla.
Se Takumi avesse davvero
capito o meno, Akira non seppe dirlo. E sebbene il tarlo del dubbio –
insieme ai sensi di colpa – rimase nel suo petto per diverso tempo, non le
riuscì di non essere felice almeno per quel San Valentino.