Tra le mura della mente

di Destrudo
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Avevano in pugno il tribunale, l’avvocato e il suo cliente. Il primo, abile retore e censuratore, soggiogava la sala con i suoi inganni, viluppi di credenze e di verità distorte animate dalla sofferenza del suo finanziatore, un paziente di quel rinomato istituto psichiatrico affetto dalla malattia della ragione. Lo avevano in pugno: scivoli di parole dolci e calcolate, appetibili alle orecchie della giuria, attenta e interessata allo sviluppo del processo. Anziani signori i cui morbosi desideri di pace non ottemperavano ai loro animi sensibili. Quando si esaurirono le domande incalzanti, gli interrogatori cannibali e le precisazioni apodittiche, tutti rimasero in attesa dell’echeggiante colpo di martelletto del giudice, in quella che si tradusse in una esasperante ansia dei commensali, avidi divoratori di menzogne. Quella volta il martelletto non rimbombò sul tavolo, quella volta non si stapparono bottiglie di vino antiche quanto represse e non si mangiò il dolce scisso in due gusti. Non vi fu festa. Il giudice non credette alle proposte dell’avvocato, facili vie di espiazione. Scavò nei documenti del caso, anche quelli archiviati, in cerca di una soluzione. Scoprì che tutti i partecipanti di quella sala, lui compreso, erano colpevoli e corrotti di un crimine che non lasciava spazio ad obiezioni. Il martelletto frustrò il pavimento di quella stanza: un unico gesto che tentava invano di ricolmare la coscienza, partecipe di tutte le altre assoluzioni ingiuste. A fine giornata, il giudice non poté che scusarsi col malato di raziocinio ed accompagnarlo in cura.




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