La nostra nave di marzapane.
E dopo l’archetipo, il *noi* attuale.
Ho notato Veronica non appena ho messo piede sull’autobus, e
una certa concentrazione di non-sentimenti e non-impulsi mi ha bloccata con una
mano fra i capelli, il peso appoggiato trepidante su una gamba sola, la testa
reclinata leggermente su una spalla. Prima che decidessi di scendere
dall’autobus la porta si è chiusa dietro di me, sono rimasta sospesa
nell’aria vicino all’uscita. Una bava di curiosità incosciente si è fatta
spazio nella miriade di non-pensieri, ero assalita da questa non-voglia di
parlarle ma in vece delle non-cose che avrei dovuto fare rimanevo lì in piedi,
aggrappata ad una maniglia, aspettando che mi vedesse. Era più bella di come la
ricordassi, forse. Più sciupata e spigolosa e lucida, e si muoveva decisa nei
suoi jeans troppo larghi, come se fosse dimagrita troppo e troppo rapidamente
per continuare a portarli. Si è portata un’onda castana dietro l’orecchio e mi
ha guardata stancamente.
In quel momento la curiosità è scivolata come una goccia sul
vetro, avrei voluto aggrapparmici per non scendere bruscamente
dall’autobus ma lei scivolava sempre più giù e io la seguivo invano. Quando
Veronica mi ha salutata con un cenno del capo non ero più curiosa di sapere
niente di lei e della sua vita, ero di nuovo nel rifiuto di qualsiasi cosa,
satura di non-sentimenti e non-impulsi, e di nuovo non consideravo le non-cose
che avrei dovuto fare, anche. Sono rimasta lì a guardarla silenziosa,
circondata da quell’aura di sfida indolente e annoiata che ha sempre permeato
l’area intorno a me.
L’ovatta di nulla mi illanguidiva i sensi. Guardavo Veronica
che si avvicinava lenta lenta lenta fra la gente ammassata e guardavo la
città fumosa scivolare oltre il finestrino e ne ero come rapita, dai palazzi
bianco-grigiastri e dai tetti rosso-nerastri e dagli alberi rachitici resi
grigi anch’essi dalle piogge acide e dallo smog e infine passavo con lo sguardo
sulle nuvole pallide che spuntavano sopra a quella turpe cementificazione in
una posa quasi smarrita. Mi sembrava che in quel momento il tempo si
dilatasse, che il tragitto dell’autobus e il viaggio di Veronica verso di me
non dovessero finire mai e che dovessi essere per sempre risucchiata dal
vorticoso insorgere di nuovi non-pensieri.
Poi mi ha appoggiato una mano sul braccio. Quel gesto ha
catalizzato immediatamente la mia tensione, perché inconsciamente ero tornata a
qualche mese prima, quando associavo al suo sfiorarmi un braccio una richiesta
d’attenzione. Ho intuito cosa stava per dire dal tocco, potrei dire. Era urgente
e disperato e pressante e lo avrei giurato anche sulla mia stessa testa,
che saremmo arrivate lì.
Ha guardato lontano fuori dall’autobus, ha detto “Come
stai?”. Non sono riuscita a capire se le interessasse o meno, la risposta a
quel reclamo diversivo, in ogni caso ho aggrottato le sopracciglia: ho sempre
odiato il “Come stai?”, perché non sono mai stata capace di sintetizzare le mie
emozioni troppo esuberanti in una evidente risposta, ma in quel momento ero
talmente fatua che ho risposto “Medio” senza neanche pensarci.
Mi sono chiesta quanti secondi avrebbe impiegato per
pronunciare nome e cognome, o solo cognome o addirittura solo nome, della
ragione per cui avevamo troncato i nostri sporadici rapporti.
Ha squarciato l’aria con una mano in un gesto vago, ha detto
“Ale… sai, Ale va a Milano” evitando il mio sguardo. Ecco appunto. Ho
sentito la prepotente necessità di una sigaretta, ho infilato una mano in tasca
e tastato il pacchetto in cerca di rassicurazione. Ho fatto scivolare lo Zippo
sul palmo e l’ho stretto nel pugno.
Le ho sorriso evanescente e ho detto “Immagino che non possa
vivere in un luogo per più di un certo periodo di tempo”. Tutti i non-pensieri
stavano vorticando da qualche parte nella mia testa, non sapevo esattamente
cosa fosse reale e cosa no. Avrei detto di essere in casa a mangiare pane e
burro e marmellata davanti a uno stupido quiz televisivo se me lo avessero
chiesto, e nonostante tutto stavo dando le risposte giuste alle domande
non-espresse di Veronica.
No, non erano fatti suoi se ultimamente avevo o no sentito
Ale.
No, non lo sapevo cosa era successo a me, lei e Ale in quei
sei mesi in cui non mi ero fatta viva.
No, non ci pensavo più ad Ale, e non sapevo cosa sarebbe
successo se avessimo ricominciato a sentirci.
No, non ero più arrabbiata con lei, ma questo non ero certa
se lo chiedesse con poi così tanta premura.
Alla fine mi ha scoccato un’occhiata indagatrice velata da
una certa cortesia, io ho retto lo sguardo senza particolari espressioni. Forse
avevo una piega annoiata sulla fronte, ma non mi è sembrato fondamentale
celarla. Stavo diventando insofferente verso quel non-pensare dettato dal
tentativo di non-ricordare e nello stesso tempo mi autocompiacevo di me stessa,
perché mi sembrava di non riuscire affatto a rammentare il naso e il collo di
Alessandro pur facendo confluire nella memoria tutte le energie mentali di cui
disponevo.
Mi ha detto “Immagino che tu abbia ragione. Comunque va a
Milano per studiare storia”.
Ricordavo che era affascinato da quella materia, sì. Una volta
avevamo anche litigato, perché sostenevo che all’università dovesse prendere
storia invece della più pragmatica ingegneria su cui si era fissato. Ho detto
“Avrebbe dovuto farlo un anno fa”, ho allentato la presa su una maniglia e mi
sono leggermente allontanata da lei, visto che lo spazio recuperato me
lo permetteva.
Lei mi ha guardato di nuovo indagatrice, stavolta senza
nasconderlo. Ho dovuto far scorrere gli occhi sugli altri passeggeri per non
mettermi a ridere.
Ha detto “Lo sapevo che eri dalla sua. Siete sempre stati
troppo simili, due animali della stessa razza”, e io ho preferito non decidere
se prendere il riferimento agli animali come un’offesa o no. Ha detto ancora
“Non ci posso credere, non conto proprio più un cazzo”.
Fossi stata cosciente della situazione avrei fatto
spallucce, certa che non erano più da tempo affari miei. Ma ero ancora convinta
di essere in una specie di realtà parallela, per cui ho detto “Mi dispiace”.
Forse mi dispiaceva davvero che si fosse resa conto di cosa aveva preteso da me
e da Ale, e di cosa non aveva ottenuto. Del resto mi sembrava fosse passato
tanto tempo che sarebbe stato assurdo serbarle rancore per averci tenuti
lontani.
Ho sospirato, le ho detto “La prossima fermata è la mia”. Ho
suonato, sono rimasta ferma e silenziosa finchè non sono dovuta
scendere.
Da terra ho realizzato che quella era proprio la mia realtà
e non una parallela, ho lanciato uno sguardo sull’autobus e ho visto Veronica
che veniva trascinata via dietro il finestrino, con una mano fra i capelli e
un’espressione ormai spenta nonostante non avesse perso la sua solita
bellezza.
“Pronto?”
“Ciao, Ale”
“Fata! Quanto tem-”
“Già. Millenni, praticamente. Dove sei?”
“Uh, in Corso Nazionale. Perché?”
“Ti va di vederci? Ti rubo solo un’oretta”
“Certo, certo. Dove vuoi che venga?”
“A un bar, così faccio colazione. Al Backstage fra un quarto
d’ora?”
“Va bene. Arrivo”
Sono arrivata al Backstage che stava piovicchiando. Non
avevo ombrello, ho sempre odiato quei catafalchi inutili e ingombranti, mi ero limitata
a nascondere i capelli insofferenti all’umido sotto una coppola. Nonostante
questo e il fatto che fossi imbaccuccata per bene con la sciarpa e un giubbotto
di pelle più grande della mia taglia che copriva qualsivoglia forma femminile
potessi avere, non appena sono entrata nel bar Alessandro mi ha fatto un grosso
sorriso sincero che ha scatenato la mia risposta cordiale prima che potessi accorgermene.
Lo ricordavo più basso e più biondo e adesso che vedevo
collo e naso mi chiedevo come avessi potuto dimenticare la piccola cicatrice su
un lato della giugulare e il lungo scivolo del setto nasale che gli conferiva
il famoso profilo greco.
Mi sono tolta cappello, sciarpa e giacca e mi sono seduta
davanti a lui. Ha detto “Hai il naso rosso… due cioccolate?”. Ho annuito grata,
mentre le mani ghiacciate riprendevano il loro colore consueto mi sono accesa
una sigaretta. La radio passava Latin Lover. Ale aveva una specie di
viscerale ostilità per Cremonini, se non ricordavo male. Mi è venuto da
sorridere.
Ha sorriso anche lui, ed ero certa che lo facesse per il mio
stesso motivo. Ha detto “Allora, fata? Non dovresti essere a scuola?”, mi ha
guardata in tralice.
Ho fatto spallucce, detto “Effettivamente sì. Ma alla prima
ora c’era latino e non ho fatto la versione”, condito il tutto con
un’espressione schifata. Latino è sempre stata una di quelle materie in cui ho
fatto il minimo indispensabile per avere una media decente, e niente di più.
Lui ha annuito.
Ci hanno subito portato le cioccolate con due brioche, la mia
colazione ideale.
Ale ha detto “Crema, vero?”, io ho sorriso e preso il
cornetto che rimaneva sul piattino. Mi sembrava di essere di nuovo in quella
dimensione strana, non controllavo le espressioni della faccia e i pensieri che
si accoccolavano sul mio stomaco, al calduccio della colazione.
A metà brioche ho detto “Ho visto la Veronica, prima”. Mi è
sembrato normale rompere l’ecloga del momento, senza volerlo o forse volendolo
intensamente cominciavo a portare un po’ della mia realtà in quel mondo parallelo
in cui mi ero svegliata quella mattina.
Ale ha detto “Ti avrà già detto disperata che me ne vado a
Milano, la settimana prossima” con un certo sarcasmo nella voce e una certa
severità nello sguardo che nel complesso stonavano proprio con il suo carattere.
Ho bevuto un sorso di cioccolata e finito in un boccone la brioche, infine
cercato un sorriso che è uscito come una smorfia.
Ha continuato “Ci siamo lasciati due settimane fa”, mi ha
scroccato una sigaretta e ha cercato di accenderla con lo Zippo. Dopo qualche
tentativo è sbottato “Che cavolo d’affare, non funziona”. Ha notato subito la
dedica incisa sull’acciaio zigrinato, siglata “G”, ha commentato “Giuseppe?
Giorgio? O Giovanni?”.
Ho ghignato, preso una sigaretta anch’io. Gli ho tolto dalle
mani l’accendino, l’ho innescato con un gesto deciso, ho acceso la sigaretta,
ho risposto “Giulia”.
Ha ghignato anche lui. Quando è tornato serio mi ha guardata
fissa per qualche secondo. Uno dei suoi sguardi insostenibilmente dolci, per
una come me, credo di essere leggermente arrossita, mentre distoglievo
gli occhi e guardavo con attenzione le decorazioni cinesi sulla mia tazza.
Alla fine ha chiesto “Allora non c’è nessuno?”, l’ha fatto
in un sussurro che mi è sembrato più insostenibile dello sguardo insostenibilmente
dolce.
Mi è balenata davanti agli occhi l’immagine di un ragazzo dallo
sguardo accigliato, il cui viso si faceva affascinante ad una minima
curvatura delle labbra.
Ho sospirato, ho detto “Ale, la nostra nave di marzapane
è partita…”. Non avevo i battiti accelerati come quando me l’aveva chiesto la
prima volta, ero stranamente calma. Non capivo se era per la convinzione
di essere prigioniera di una specie di situazione confusa da miraggio o per il
fatto che il momento mio e di Ale per me era già passato. Di nuovo, non ero
sicura di pensare tutte le cose che dicevo, semplicemente mi uscivano di bocca
e arrivavo a pensare che erano giuste soltanto dopo averle sentite pronunciare
dalla mia bocca.
Lui ha detto “Ma questo non è lo stesso”.
Gli ho risposto “Neanch’io sono la stessa. Nel frattempo mi
sono innamorata, credo”. Mi sono sentita le parole rotolare in bocca, e
quando le ho sputate mi è sembrato di essere luminosa. È stato lì che ho
cominciato a pensare che l’innamoramento è uno stato di grazia quanto quello
interessante. Mi sentivo infinitamente imperfetta e mi vedevo nella vetrina del
bar questo collo troppo lungo e queste mani troppo grandi e questi zigomi
troppo marcati e nonostante questo mi sembravo degna di un tappeto di petali di
rosa su cui camminare. Mi mancava Lorenzo, anche, adesso.
Alessandro ha fatto una faccia assurda, che poi si è sciolta
in un sorriso triste. Ha detto “Sì, immaginavo una cosa del genere, ma sentirtelo
dire è… beh, è…”.
Ho sorriso anch’io, con cautela. Sì, sentirmi dire una cosa
del genere doveva essere come aver visto un elefante passare per la cruna di un
ago. Ho detto “Mi dispiace che non sia mai andata, Ale… in un mondo parallelo
sono sicura che stiamo addirittura organizzando la nostra vita insieme. Io… non
so perché alla fine ti ho chiamato, forse volevo soltanto chiudere questa cosa
che non si è mai aperta, salutarti, augurarti buonqualcosa, non so
davvero…”, la mia realtà stava di nuovo coincidendo con quella che stavo
momentaneamente vivendo. Non trovavo le parole perché non mi venivano più
automatiche, dovevo pensare e comporle come avrebbe fatto un pittore con i
colori sulla tavolozza per imbrattare la tela bianca incastrata sul
cavalletto. Mi sembravo molto più in linea con me stessa, adesso, mi sentivo liscia
e rock nella mia consapevolezza di essere avversa anche al colore del cielo,
inquieta, satura di percezioni e reazioni ed emozioni e imperfetta, anche, ma
innamorata e per questo irraggiungibile se non dal ragazzo dallo sguardo accigliato.
Ale ha detto “Credo di averlo saputo, sì. Hai presente quel
sesto senso che a volte ti avverte di cosa succede anche se non lo vedi?”.
Ho sorriso senza filtri. Poi mi è squillato il
cellulare.
[1 Nuovo messaggio]
Ma dove sei finita?
Ti sto pensando da un’ora…
Mittente:
Lory
Inviato:
08:52:33
13-10-2004
“Ale, sei in macchina, vero?”
“Certo fata. Vuoi uno strappo?”
“Magari… credo di dover andare a scuola”
“Va bene, va bene. Senti… mi ha fatto piacere rivederti”
“Anche a me, Ale. Verrò a trovarti a Milano”
“Ho paura che tu sia seria”
“La sono, piccolo stronzetto!”
[1 Nuovo messaggio]
A fare colazione ^_^
Ti amo, scemo…
Mittente:
Fata
Inviato:
08:55:13
13-10-2004