Presentazione
Gabriele
Mi chiamo Gabriele Giuliani, ho
diciassette anni, e vivo in uno dei tanti paesini del cazzo che fanno da
intermedio tra Terni e Perugia. Frequento il Liceo Artistico, sono al quarto
anno della sezione di arte e composizione visiva, altresì detta grafica pubblicitaria.
Mi guardo allo specchio e vedo una checca isterica, come direbbero i miei
amici. Sono emo, ma non vuole necessariamente dire che mi taglio le vene: solo
che preferisco un certo tipo di musica rispetto ad altre. E si, sono un fan dei
Bullet From My Valentine e dei My Chemical Romance, ma non disdegno gli altri
gruppi, anzi! Sono un fanatico della musica anni ’70-’80, nonché ossessionato
dai The Cure. Ho i capelli neri con la classica frangetta, e sono un tantino
troppo alto, forse: sfioro il metro e novanta, anche se peso solo
sessantaquattro chili. Eh, bè, si, sono smilzo, modestamente ho un bel
figurino, nonostante Jill mi ripeta in continuazione che il mio sedere è
inesistente. Oggi è un sabato mattina, uno qualunque. Nella mia casa disastrata,
sono il primo a svegliarmi. Mia madre aspetterà ancora cinque minuti, come
sempre, per svegliare se stessa e poi quella dormigliona di mia sorella. Non è
un segreto che sia Martina la preferita in famiglia: è la più piccola, nonché
straviziata e coccolata da tutti. Lei ha due anni meno di me, ed è una piattola
immensa. E’ quella tutta ordinata e precisa, che fa il liceo classico, studia
con passione e dedizione, ama ballare e suonare il pianoforte, non fuma nemmeno
mezza sigaretta, lei e i suoi boccoli scuri, lei e i suoi grandi occhi castani
che attirano dietro sè uno stormo di poveri deficienti. Secondo me, uno dei due
è stato adottato: non ci assomigliamo in niente. Mio papà come al solito invece
russa profondamente. Il sabato per lui vuol dire giorno di risposo. Nella casa
ancora addormentata, si sente il suo russare energico. Non c’è ancora luce,
siamo a novembre, è il sole a sorgere ci metterà ancora un bel po’. Fa un freddo cane, i riscaldamenti
non sono stati ancora accesi. Mi stringo nel pigiama e tiro dritto verso il
bagno. A ogni passo mi viene in mente “dead souls” dei Joy Division. Mi sento
anche io così: un’anima morta, svuotata di tutto, priva di sentimenti, atona,
apatica, immersa fino al collo nella solita routine quotidiana. Mi lavo, mi vesto,
faccio la borsa, e nel frattempo intorno a me la piccola porzione di mondo che
mi riguarda comincia a vivere. Mia madre si è già vestita, Martina sorseggia il
latte. Le trovo tutte e due davanti allo specchio quando vado a pettinarmi.
Le donne allo specchio la mattina
sono una cosa letteralmente assurda.
Mia madre e Martina hanno tra di
loro una trentina di anni di differenza, eppure sono unite in quel misterioso
rito mattutino. La mamma passa la matita sulle labbra, tracciando una righina
color carne. Martina tiene sollevate le ciglia, mentre si passa il mascara.
Profumano tutte e due di fard, hanno addosso l’odore della cipria. Non sembrano
nemmeno le figure fantasmagoriche che si aggirano per casa la sera prima di
andare a dormire.
“Io allora vado!” dico,
appoggiando la spazzola. Persino la posizione della spazzola non cambia: sempre
sul lato sinistro della mensola sopra la vasca. Mia madre biascica un “Buona
giornata tesoro” Martina dice qualcosa a metà tra un ciao e una blasfemia. E
dopo qualche minuto, sono giù per le scale. Non ho bisogno di prendere il
pullman la mattina, la scuola e ha cinque minuti da qui. Infilo il compact disc
e la prima canzone che mi capita è “I Dont Wanna Miss A Thing” degli Aerosmith.
Mi rilassa la voce di Stevie la mattina mentre, passo dopo passo, mi avvio
verso la mia camera di tortura a fuoco lento. Ed eccomi davanti al liceo.
Saranno passati cinque minuti, ma a me sembrano cinque secondi. Stamani sono
all’aula 20, devo farmi quattro rampe di scale di prima mattina, e sinceramente
l’idea non mi attrae nemmeno un po’. La bidella sbraita che sono in ritardo, ma
non l’ascolto nemmeno. E’ la grassona brutta, quella con la voce da rospo e
l’orrenda tinta rossa. L’abbiamo ribattezzata la Umbridge, vista la sua
somiglianza grosso modo inquietante con la professoressa di Harry Potter.
Insomma, gracida qualcosa, ma nemmeno la sto a sentire. La canzone nell Mp3 si
spegne. Una ragazza mi oltrepassa, saltellando. Credo stia contando gli
scalini, apre la bocca a tempo. Ha una buffa codina che rimbalza ad ogni passo,
saltella su un paio di All Star piuttosto consunte. La rampa dopo è sparita,
chissà che fine ha fatto. Sarà persa nei meandri di questa gigantesca scuola.
Mi infilo in classe. Eccola qua, la 4°A. All’ultimo banco, la cresta rossa di
Marco, che stamani ha la felpa dei sex pistols sotto il giacchetto di pelle.
C’è quella zecca di Stella, una delle mie migliori amiche, coi capelli tinti di
rosso e i calzoni praticamente per terra. Giacomo non è meglio di lei. Ma
Giacomo è un bastardo, lo odio con tutto me stesso. Giacomo non è capace ad
affrontare la realtà, si ferma davanti alla possibilità di affezionarsi alle
persone. Giacomo che non è disposto ad ammettere a se stesso che almeno un po’
gli piaccio. Per ironia della sorte, è il miglior amico delle due dark
lesbiche, Sara e Miriam. Loro si tengono per mano, anche stamattina, e si
guardano sorridendo. C’è poi Raffaele, il nostro illustre rappresentante di
istituto, con la kefia attorno al collo e i capelli biondi legati, pacifista
che non è altro. Le tre sgallettate occupano il banco centrale, tutte e tre
biondissime e con gli occhiali da sole grandi di Armani, anche se di fuori il
cielo minaccia di spaccarsi da quanto è bianco. Poi ci stanno quei tre o
quattro pariolini di qui non cito il nemmeno il nome, in quattro anni ci avrò
parlato una volta. Non vedo la testolina blu di Jill fare capolino tra le
altre: con ogni probabilità, stamani si è sentita poco bene.
“Oh, Giuliani, buongiorno!”
Riconoscerei la sua voce in culo
alla luna con tutte le sue stelle. Ma non positivamente, illudiamoci. Io quella
donna la odio. La mia prof di matematica è la cosa più insulsa del mondo: una
sfigata fallita che ha fatto dell’insegnamento il suo unico scopo di vita,
senza risultati. E’ bruttissima, porta calze velate su due gambe simili a
stecchini, maglioni a collo alto sul suo busto rinsecchito. Ha un naso troppo
grande, i capelli rigidi come fossero parte di uno scopettone, tinti di rosso
scuro, ma che è sbiadito sulle radici, e ora stanno diventando arancioni. Io la
odio e lei mi odia.
Ha fatto di tutto per rovinarmi
le superiori. Mi ha sempre messo quattro nonostante l’impegno. Non so perché ce
l’abbia così tanto per me. Mi ha sempre guardato con quella sua aria di netta
superiorità, con quel suo viso preciso e odioso. Puttana degenerata. Simpatica
quanto un gatto attaccato ai coglioni. E mi tocca pure sorriderle. Fa parte
della mia recita quotidiana. Ecco, per l’appunto, sorrido. E c’è proprio tutto,
nella mia personale routine. Persino il solito “Buongiorno a lei, professoressa
Sappada!”.
Più falsi di così non si può.