Note
dell’autrice:
non
li possiedo, ahimé, e non ci guadagno un bel niente.
Dedicata
a tutte le ragazze che volevano vedere Sherlock saccagnato di botte in
versione
sexy-sanguinolenta. <3
Warning
per descrizioni non dettagliatissime, ma molto frequenti, di violenza
fisica e
psicologica.
I.
Sherlock
ha la bocca chiusa dallo scotch e non può rispondergli, ma
John gli sussurra lo
stesso, frenetico e sincero, mentre lo trascinano via:
“Sherlock. Sherlock,
andrà tutto bene. Alla fine. Andrà tutto bene.
Sherlock, te lo prometto.”
*
Sherlock
mangia quanto lui – poco, e male – ma assume un
aspetto malsano molto prima.
Basta a malapena una settimana.
E’
sempre stato così magro. Troppo.
Perché,
pensa disperato John, dibattendosi nei suoi legacci, perché
non l’ha mai
ascoltato quando gli diceva di mangiare di più?
*
Le
percosse cominciano sin dal primo giorno di prigionia. A John sembra di
trovarsi in un incubo.
Quella
violenza, quell’accanimento insensato gli paiono irreali.
Ogni calcio nel suo
stomaco è una cosa sbagliata perché
non può essere vera.
Non
possono massacrarlo così. Non avrebbero il diritto neanche
di sfiorarlo, non è
questo il modo in cui le cose dovrebbero andare. Sherlock nella sua
mente è
sempre stato altero e bianco e irraggiungibile; così
intoccabile, così lontano dall’idea
che John ha della “gente”, di tutte le altre
persone.
Ma
quegli schiaffi, quei pugni e quelle risate di scherno ora lo rendono
terribilmente umano, in un modo che John non avrebbe voluto vedere mai.
John
si agita sul pavimento e urla loro di smettere, vedendo i suoi occhi
riempirsi
di lacrime furiose e la sua pelle di lividi.
Nemmeno
allora è capace di crederci.
*
Dopo
averlo costretto a guardare, lo slegano sempre in modo che possa
correre da
lui.
John
conosce bene il meccanismo della tortura psicologica. Ogni giorno
Sherlock
viene riempito di botte e ogni giorno loro lasciano che John gli
pulisca i
tagli, gli mormori parole di conforto, gli passi dita inorridite su
ematomi e sangue e
sudore, lo abbracci
cercando di non fargli altro male.
Loro
stanno sulla porta a guardarli. Sorridono.
Il
giorno dopo succederà esattamente lo stesso.
*
Sherlock
riesce a malapena a formare parole di senso compiuto, tanto
è gonfia la sua
faccia.
“Il…
‘ane…”
John
gli sostiene il viso con una mano ed emette piccoli versi affettuosi
che di norma
rivolgerebbe agli animali impauriti, “ssh ssh ssh”,
i lineamenti contratti
dall’angoscia.
“Non
affaticarti, Sherlock. Cosa c’è?”
sussurra scostandogli dalla fronte i capelli
incrostati.
Sherlock
deglutisce e sorride tremulo. I suoi denti sono sporchi di sangue.
“Il…
pane, John. E’ di ieri. Ci danno pane vecchio.”
Batte piano le ciglia e
rabbrividisce. Quello splendido, famigliare, sfacciato sorriso
però resta al
suo posto. “Im… perdonabile, non trovi?”
John
emette una risata gracchiante, vagamente isterica, e lo stringe forte.
Sherlock
perde i sensi poco dopo.
*
La
loro cella è minuscola ma pulita, con una piccola finestra
in alto e un anello
di ferro ad ogni lato dove occasionalmente li legano per non farli
stare
vicini.
Percosse
a parte, vengono trattati sufficientemente bene: mangiano a intervalli
regolari, viene dato loro modo di pulirsi ogni due giorni, non sono
tenuti
svegli contro la loro volontà, e John viene fornito di ogni
materiale medico
possibile in modo da riuscire a tenere Sherlock in vita.
Gli
sono toccati rapitori educatamente crudeli, seviziatori a loro modo
premurosi.
*
Non
l’ha mai toccato così tanto come in queste
orribili circostanze.
John
sa che è un pensiero stupido, ma prima del rapimento non
credeva possibile che
Sherlock avesse un corpo come tutti gli altri. E’ difficile,
pensando a
Sherlock, costruire con l’immaginazione qualcosa che integri
quegli occhi
glaciali, quelle mani affusolate e capaci, quei capelli in disordine, o
quel
poco che il lenzuolo o la vestaglia gli mostrano di tanto in tanto.
Sherlock
trascura con ostinazione il suo fisico e così facendo sembra
annullarlo,
renderlo quasi impalpabile, totalmente accessorio. Non gli interessa.
Non se ne
cura. Forse nemmeno gli piace - forse, semplicemente, lo annoia
perché necessita di cibo e acqua e di riposo e, a
volte,
dell’odiato contatto umano.
Come
adesso, in cui è costretto a farsi maneggiare ogni giorno da
John per non
morire dissanguato.
Sherlock
ha mantenuto il proprio usuale, sprezzante atteggiamento sia con lui
che con i
rapitori, ma ormai John lo conosce, riesce a vedere oltre, riesce a sentire l’umiliazione sotto le
dita
quando gli pulisce le ferite e le benda con delicatezza.
*
Dopo,
a volte, Sherlock lo scosta d’istinto, bruscamente, e si
raggomitola su un
fianco rifiutando di farsi toccare, tremando e sibilando per il dolore.
John
sa che a Sherlock non importa nulla degli altri. E’ una
persona egoista, egocentrica,
egotica, egoriferita e tutti gli altri possibili aggettivi con il
prefisso
“ego”. John questo lo sa.
John
però sa anche che, incredibilmente, Sherlock ha sempre
tenuto a impressionarlo,
a fare bella figura con lui, a essere perfetto e geniale e invincibile
attorno
a lui, per lui, solo per lui, per
guadagnarsi il suo esclusivo apprezzamento; e intuisce quanto Sherlock
allo
stesso tempo ringrazi e maledica il fatto che in questo casino ci sono
dentro
insieme.
Il
solo pensiero che Sherlock possa provare vergogna in sua presenza e
sentirsi
immeritevole delle sue cure, perché ora non riesce ad essere
né perfetto né
geniale né invincibile, gli fa venire la pelle
d’oca.
*
John
urla spesso di picchiare lui al suo posto.
Non
ha mai detto nulla di più vero nella sua vita, ma la sua
sincerità non viene
mai premiata.
*
Quando
sente di stare per impazzire, e la paura di morire là dentro
lo invade, John
pensa a piccoli dettagli. Sono stupidi e irrinunciabili allo stesso
tempo,
tanto da fargli chiedere a sé stesso come abbia mai potuto
vivere senza.
I
nei sul suo collo.
Il
fascio di luce che il microscopio gli proietta sugli occhi.
Il
tremito euforico nella sua voce ogni volta che dice: “Un
caso, John!”
Capisce
che quei minuscoli, insignificanti particolari sono tutto quello che
più conta
nella sua esistenza, e che finché riuscirà a
tenere Sherlock in vita, non
impazzirà davvero, e la voglia di riprendere a vivere con
lui sarà sempre più
forte della paura di morire.
*
Sherlock
ha bisogno di energie per guarire e per questo motivo dorme molto
più di quanto
si permetterebbe di solito.
John
gli dorme di fianco, vicino quanto più può,
perché ha paura che si senta male
nel sonno. Sherlock non obietta; è l’unica cosa
logica da fare per evitare che
si strozzi con il suo vomito, come ha già rischiato di fare
una volta, dopo
aver ricevuto troppi calci nello stomaco.
La
mattina, quando apre gli occhi, John spesso si accorge di averlo
abbracciato
durante la notte.
Si
scosta sempre prima che Sherlock si svegli, ma ha il dubbio che lui
sappia
comunque cosa sia successo, e che non sia mai davvero incosciente.
II.
“Sta
guardando, dottor Watson?”
John
si sentì tirare per i capelli. Davanti a lui, Sherlock era
nella sua stessa
posizione: in ginocchio con le mani legate e la testa tenuta
forzatamente su
per i ricci.
Un
uomo che reggeva una pistola in mano fece un passo avanti.
“No”
disse John, scuotendo disperato la testa, un panico mai avvertito prima
che gli
faceva venir voglia di vomitare. Sherlock aveva
un’espressione di spento
stoicismo in volto. “No-”
Luomo
alzò il braccio fin quasi sopra la testa, poi lo fece
ricaredere e colpì
Sherlock in pieno volto con uno schiocco simile a quello di una frusta.
“Figlio
di puttana” ringhiò John. “Brutto figlio
di puttana.”
Sherlock
sputò sangue e quello che sembrava un dente a terra. Non
aveva emesso nemmeno
un gemito, o almeno, non un gemito udibile. Rialzò lo
sguardo sul proprio
aggressore con un tale disgusto, con un tale spocchioso disdegno
dipinto in
faccia che John ebbe voglia di baciarlo sul viso insanguinato. Se prima
aveva sospettato
di avere il complesso dell’eroe nei suoi confronti, beh, ora
ne era
assolutamente sicuro.
L’uomo
rialzò il braccio. Il calcio della pistola era sporco di
sangue.
“Basta”
mormorò John, frenetico.
Le
spalle di Sherlock si irrigidirono ma a parte questo non diede nessun
altro
segno di tensione. L’uomo alle sue spalle lo tirò
per i capelli per fargli
esporre completamente il viso alle percosse.
Il
braccio si riabbassò.
“Quanta
soddisfazione vi da picchiare un ferito? Eh?”
sibilò John disgustato guardando
il pasticcio di sangue che era diventato il naso di Sherlock, piegato
ad un
angolo innaturale. “Picchiare un ferito in ginocchio con le
mani legate?”
Uno
degli uomini alzò un sopracciglio.
“Crede
che trarremmo più soddisfazione nel picchiare un uomo sano
inginocchiato e con
le mani legate?” chiese con un ghigno. John rise.
“Poco
cambia. Rimarreste degli schifosi codardi, ma almeno variereste un
po’.”
“Da
quando i prigionieri si preoccupano del divertimento dei loro aguzzini,
dottor
Watson?” proseguì l’uomo con
un’espressione di educato interesse sul volto.
A
John quella leggerezza superficiale che sotto covava la peggiore delle
crudeltà
ricordò qualcuno.
“Aguzzini?
Ma per favore. Siete soltanto dei galoppini di mezza tacca che eseguono
goffamente
degli ordini. Non fareste paura a un bambino.”
“John,
smettila” sbottò Sherlock lanciandogli
un’occhiata furente.
“Mmmh.
Sì, il mio capo mi aveva parlato di questa sua…
verve, capitano Watson” disse
l’uomo con un sorriso. “Purtroppo per
lei so dove mira. Gli ordini che noi eseguiamo – goffamente,
a suo parere, e la
prego di scusarmi: cercheremo di migliorare – riguardano
solamente il suo
amico. Non lei.”
“Si
fottano i vostri ordini” disse John.
“Sta’
zitto!” urlò Sherlock, che sembrava aver
genuinamente perso il controllo per la
prima volta dall’inizio della loro prigionia.
“Smetti di provocarli, razza di
imbecille!”
“Commovente”
disse l’uomo in tono morbido. “La vostra
volontà di sacrificio per l’altro è
semplicemente commovente.”
Fece
un gesto col mento. L’uomo alle spalle di Sherlock gli
slegò le mani e lasciò
la presa sui suoi capelli: Sherlock cadde in avanti come una bambola di
pezza.
Senza nemmeno accorgersi di essere stato liberato a propria volta John
si
slanciò in avanti e in un attimo gli fu al fianco.
“Ora
vi lasciamo un po’ di… intimità.
Dopotutto” sentì dire, prima che la porta
della cella si chiudesse alle loro spalle, “quello che avete
appena fatto è
stato molto romantico.”
*
“Sono
uomini di Moriarty” disse John passando in un gesto delicato
indice e medio sul
suo naso. Sherlock fece una smorfia. “Male?”
“No”
fu la secca risposta. “Sì alla tua affermazione su
Moriarty.”
“Il
naso è rotto” disse John voce grave. Sherlock
deglutì e guardò fisso davanti a
sé, nel vuoto.
“Provvedi.”
John
spalancò gli occhi.
“Sherlock-”
“Non
riesco nemmeno a pensare all’espressione soddisfatta di
Mycroft quando vedrà
che il mio naso è diventato persino più brutto
del suo. Rimettilo a posto.”
John
sospirò.
“Farà
un male atroce.”
Sherlock
sollevò un angolo delle labbra in un ghigno.
“Per
essere belli bisogna soffrire.”
John
ridacchiò.
“Come?”
“E’
una frase che diceva sempre mia madre quando la cameriera le conficcava
delle
forcine nel cranio, in occasioni di avvenimenti importanti che
richiedevano
acconciature elaborate.”
John
gioì dentro di sé davanti all’eloquio
coerente e fluido di Sherlock. Significava
che non aveva subito traumi cranici particolarmente forti.
“Tu
non hai bisogno di soffrire” mormorò.
Sentì il peso dello sguardo intenso e
penetrante di Sherlock ma non ebbe il coraggio di guardarlo a sua
volta. “Non
dovresti mai soffrire.” Si schiarì la voce,
imbarazzato. Che cosa stava
dicendo? “Non ti facevo così vanitoso,
comunque.”
“Lo
sono immensamente” fu la quieta e divertita risposta di
Sherlock.
“Non
credevo.”
“E’
perché sorvoli su troppi dei miei difetti.”
John
deglutì e si alzò per inginocchiarsi davanti a
Sherlock. Il suo volto ora era
pulito; solo i lividi spiccavano sulla sua pelle pallida, non
più il sangue. I
suoi occhi erano incredibilmente azzurri, limpidi, onesti.
“Fallo”
sussurrò. Vedendo che John esitava, disse: “Ero
serio riguardo a Mycroft. Non
potrei davvero sopportarlo.”
John
gli raccolse le guance nei palmi delle mani. Istintivamente, i suoi
pollici si
mossero ad accarezzargli gli zigomi.
“Non
c’è modo che il tuo naso possa essere
brutto” disse. Avrebbe voluto usare un
tono scherzoso per alleggerire in qualche modo la sua affermazione, ma
stava
parlando con un genio – era semplicemente impossibile che
Sherlock non capisse.
Sherlock che lo stava fissando senza dire una parola, silenzioso,
così
silenzioso. “Non c’è modo che tu possa
essere brutto.”
Non
c’è modo che
io non ti voglia,
avrebbe voluto aggiungere poi, ma invece disse:
“Perdonami” e diede un colpo
secco.
*
“Sappi,
John, che qualsiasi altro tentativo di interferire con quello che sta
succendo
non sarà gradito.”
Mezzo
addormentato, John si rovesciò sulla schiena e gli
lanciò uno sguardo confuso.
Sherlock aveva le mani incrociate dietro la testa e stava guardando il
soffitto
con aria indecifrabile.
“Eh?”
biascicò.
“E’
me che vogliono. Quindi non sprecarti a ripetere i tuoi slanci eroici.
Non
avranno effetto.”
John
si sentì invadere dalla rabbia.
“Scusami
se mi importa” disse, sforzandosi di non mostrare quanto le
sue parole l’avessero
offeso e ferito. Si rigirò su un fianco con un movimento
brusco e chiuse gli
occhi.
Non
lo sentì alzarsi, non lo sentì avvicinarsi
– forse si era assopito di nuovo –
sentì solo le sue parole all’orecchio e il suo
fiato caldo sul collo.
“Posso
sopportare di essere picchiato fino a essere ridotto in fin di
vita” disse
Sherlock, e John voleva disperatamente vederlo in faccia, ma era notte,
la
cella era buia, e c’era qualcosa di vulnerabile e urgente nel
suo tono di voce
che lo spaventava, “ma non posso sopportare che tu venga
coinvolto in tutto
questo.” Lo sentì deglutire. “Mi servi
sano e salvo, senza un solo graffio. Ho bisogno
che tu ne rimanga fuori” scandì.
“Ne ho bisogno per riuscire a pensare e trovare un modo per
uscire da questa
situazione.”
Non
parlò né si mosse per quella che a John
sembrò un’eternità. Percepiva la sua
figura chinata su di sé, il respiro leggermente veloce e
irregolare per la foga
delle sue parole. Un brivido che lo riempì di vergogna lo
percorse da capo a
piedi e si concentrò in mezzo alle sue gambe.
“Confido
che tu abbia capito. Ora puoi tornare a fingere di dormire.”
John
non riuscì più a chiudere occhio per il resto
della notte.
*
Il
giorno dopo li legarono agli anelli ai lati opposti della cella e
fecero partire
un registratore, che appoggiarono sul pavimento in mezzo a loro.
“Buonasera,
pic-piccioncini” disse
la voce tremante di una donna sull’orlo del pianto, “vi… vi state
divertendo?”
Si
lanciarono un’occhiata tesa e ripresero ad ascoltare.
“Ho
pensato di
offrirvi questa romantica vacanza via dal solito tran-tran quotidiano
prima
dell’atto finale. Non sono f-forse premuroso? Spero che gli
animatori siano
stati all’altezza del compito.”
“Bastardo”
sibilò John.
“Zitto”
disse Sherlock. La registrazione non era finita.
“Ma
forse avrete
trovato le attività ricreative un po’ troppo
insistenti. Non vi preoccupate, ho
pensato a tutto. Presto verrete lasciati soli. Confido che il tuo
spassoso
fratello ti abbia quasi localizzato, Sherlock. Dovrebbero venire a
prendervi
nel giro di pochi giorni – forse a malapena di ore.
Vi
starete forse
chiedendo perché io mi sia tanto prodigato in questo, alla
fin fine, inutile
gioco di potere. Avrei potuto facilmente farvi mutilare, stuprare,
uccidere,
entrambi, ma il mio obiettivo non è mai stato questo. No,
Sherlock: io ti
brucerò il cuore. Ma prima era mia intenzione scoprire dove
sei disposto a spingerti
pur di mantenere il tuo cuore in salvo. Inutile dire che non mi hai
deluso.
Nemmeno stavolta.”
John
guardò Sherlock: la sua mascella era tesa, il suo sguardo
duro.
“Per
quanto la
tua sentimentale testardaggine mi diverta, te lo dirò una
volta per tutte:
rinuncia al tuo cuore. Non c’è modo di salvarlo e
di salvare anche te stesso.
Non sei nato per queste melensaggini, Sherlock. Vedila come una terapia
d’urto.
Spero capirai presto che la stupida infatuazione che un povero vecchio
infermo
prova per te non ti renderà migliore: non farà
altro che appesantirti,
rallentarti, istupidirti.
Riguardo
a te,
Johnny-boy… Come ci si sente ad aver ridotto una delle
menti più brillanti
del pianeta a un patetico corpo sanguinolento e tumefatto? Quanto lo
ami ora, senza
risorse, senza colpi di genio, umiliato e sconfitto e in silenzio?
E’ per colpa
tua se adesso non ti guarda negli occhi, sai.”
John
si voltò verso Sherlock. Stava guardando a terra.
“Sherlock”
disse, furioso. “Sherlock, non ascoltare una sola
parola di quello che-”
“Ma
ho parlato anche
troppo. Vi lascio soli. A presto, piccioncini.”
John
si accorse a malapena che lo stavano slegando. Tutto quello a cui
riusciva a
pensare era la testa china di Sherlock, i suoi ricci davanti al viso,
le sue
spalle flosce.
Non
appena gli uomini di Moriarty furono usciti si alzò in piedi
e fece un passo
nella sua direzione.
“No!”
urlò Sherlock. John si immobilizzò, esterrefatto.
“Non osare avvicinarti.”
“Sherlock,
ti supplico, ascoltami”
disse John in
tono disperato, alzando le mani per calmarlo. “Fa parte del
suo piano per
indebolirci, tutte queste calunnie, queste… queste bugie, vuole solo-”
“Non
sono bugie” lo sentì mormorare, sottovoce e
tremante di rabbia.
“Sì
che lo sono” ribatté deciso John. Tentò
un altro passo in avanti. “Se solo mi
lasciassi-”
“Resta
dove sei” sibilò Sherlock. Aveva sollevato il capo
e i suoi occhi erano enormi,
spalancati, da pazzo. “Non osare muoverti. Devo pensare e non
ho bisogno delle
tue stupide rassicurazioni, delle tue stupide… moine.”
John
si sentì improvvisamente vuoto e molto, molto stanco, come
se il peso emotivo e
fisico di quelle settimane di prigionia si fosse fatto sentire proprio
in quel
momento.
“Le
stupide moine di uno stupido vecchio infermo con una stupida
infatuazione per
te” disse in tono piatto.
“Ti
ho detto di stare zitto – perché non stai
zitto?!”
“Dovrei
ignorare tutto quello che quel bastardo ha detto, allora?”
sbottò John in tono esasperato.
“Non dire nulla? Fare come se niente fosse? Non pensarci
più?”
“Sì”
disse gelido Sherlock, gli occhi lampeggianti,
“sì, ignora, dimentica, non
pensarci più. Sono tutte bugie, no? L’hai detto tu
stesso. E allora non
crederci. Lascia perdere – cancella dal tuo piccolo
cervellino lento e
difettoso tutto quello che è successo fra queste
pareti.”
John
chiuse gli occhi. Avvertiva un forte dolore al cuore e la testa gli
stava
scoppiando. Prese un lungo respiro e rialzò le palpebre.
“Non
vuoi la verità?” disse infine, guardandolo con un
sorriso triste. “Non vuoi la
mia versione di quello che Moriarty ha detto?”
Sherlock
gli rivolse un’occhiata indecifrabile.
“No”
disse freddamente, senza emozione. “Non mi è di
nessuna utilità.”
John
si sforzò di non sentirsi deluso, rifiutato, allontanato. Di
dimenticare. Di
non appesantirlo. Di non rallentarlo. Di non renderlo stupido.
“Come
desideri” disse, tornando a sedersi con la schiena contro il
muro.
Vennero
a prenderli quella sera stessa. Non fecero parola della registrazione
di
Moriarty con anima viva e non ne parlarono mai più.
Il
naso di Sherlock tornò perfetto.
III.
“Addio, John.”
“No, no- SHERLOCK!”
Note
dell’autrice:
cominciata
mesi fa e ripresa in mano dopo aver visto il trailer di Little Favour.
Spero
che si capisca che il Reichenbach è, in questa storia, la
versione di Sherlock
di quello che Moriarty ha detto, e che Sherlock non vuole sentire la
versione
di John perché sa già quanto sarà
doloroso rinunciare a lui e alla possibilità di
stare insieme.
Un
bacio grande, spero vi sia piaciuta :*
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