“Col
cuore in tempesta e le mani in tasca.”
Fissavi la
televisione senza guardarla davvero. Ti sei lasciato cadere sul divano
svogliatamente – finendo per sederti sulla tua mano ed il
telecomando – e solo dopo aver imprecato a denti stretti,
sulla scarsa utilità di certi gesti, hai iniziato a cercare
il telecomando.
L’hai
trovato poco dopo, accorgendoti solo in quel momento che qualcosa di
estraneo ti premeva contro una natica: la destra, per la precisione.
Hai tenuto gli occhi fissi sullo schermo per cinque minuti buoni, poi,
già stufo, hai iniziato a cambiare canale. Le dita correvano
veloci sul telecomando, tenendo a stento il passo con i tuoi pensieri.
Un pensiero sconnessa, vagamente accennato, non fa neanche in tempo ad
affacciarsi nella tua mente che tu, prontamente, hai già
cambiato canale ed idea. La gamba continua a muoversi in modo ritmato:
il tallone che non tocca terra, ormai stanco, ti duole appena. Hai
iniziato a muovere la gamba con tanta velocità da riuscire a
spostare, di poco, anche il divano.
Lei
è andata via da poco.
Avete
passato un pomeriggio come tanti, impegnati nell’unica
attività che vi siete mai concessi, il tempo è
sembrato volare più del solito. Ha varcato la sogna di casa
tua felice, non l’hai mai vista sorridere in quel modo: il
sorriso le tagliava la faccia in modo delizioso, gli incisivi le
premevano appena sul labbro inferiore e due piccole fossette si erano
fatte spazio sui lati. Le hai sorriso d’istinto, forse
contagiato da quel sorriso genuino o forse, chissà,
semplicemente felice di vederla.
«La
prossima volta che vai in vacanza vengo con te» hai esordito,
scherzando. «In pratica sei sparita».
Lei
ha allargato ancor di più il sorriso, sorprendendoti alla
scoperta di una bellezza nuova, ed ha scosso appena la testa.
«Mi
dispiace» ha iniziato. «Ho avuto un periodo
difficile».
Hai
alzato le mani, come a difenderti da un’arma invisibile, e ti
sei avvicinato a lei.
«Non
importa» hai replicato. «Ora sei qui».
È
scoppiata a ridere poggiando, in quel suo modo delicato, una mano sul
tuo petto.
«L’astinenza
ti ha reso dolce, eh?»
Hai
riso a tua volta, cercando di nascondere quanto in realtà ti
avessero turbato quelle parole, e hai fatto quello che più
ti riesce meglio: offrire tutto te stesso alle sue mani.
Oh,
quelle mani, così dolci e premurose!
Riesci
ancora a sentirle sul tuo corpo che, dopo tanti mesi, ancora vagano
incerte e impaurite sul tuo torace. Hai percepito le sue dita,
così piccole rispetto alle tue, giocherellare con i peli del
petto, indugiandoci forse più del previsto. Scuoti la testa,
in modo violento, cercando di fuggire a quei pensieri. Fissi il
televisore in silenzio, fingendo ancora una volta di guardarlo,
finché finisci col passarti una mano tra i capelli,
stizzito. Quando noti che questo gesto, dettato ormai
dall’abitudine, non basta a calmarti lancia il telecomando
per aria, colpendo la parete di fronte a te.
L’orologio,
che tanto precariamente se ne stava sul muro, è caduto e il
suo specchio si è frantumato in mille pezzi. Hai borbottato
qualcosa di sconnesso sulla precarietà, la scaramanzia e i
sette anni di sfortuna, che ti attendevano da quel momento in poi,
alzandoti dal divano. Per un attimo ti sei sentito sperduto,
guardandoti attorno quasi impaurito, mentre una gelida consapevolezza
ti è piovuta addosso: le sue mani hanno indugiato a lungo su
ogni parte del tuo corpo, quasi studiandolo minuziosamente. Hai sempre
pensato che è proprio così che avresti voluto
dirle addio: studiando ogni lembo della sua pelle, imprimendo sotto i
tuoi polpastrelli ogni piccola reazione che il suo corpo pallido e
delicato ti suscitasse, seguendo con gli occhi le sue curve appena
accennate, ancore acerbe o forse inesistenti del tutto. Un corpo
perfetto, nella sua piccola imperfezione. Non certo come il tuo,
ricoperto di cicatrici un po’ ovunque.
Aveva
baciato ogni tua cicatrice, quel pomeriggio.
Quelle
piccole e tonde, sparse qua e là sulla tua schiena, e le tre
cicatrici sul petto - molto più appariscenti – che
gonfio d’orgoglio le avevi mostrato la prima volta:
orgoglioso di una vita che hai preso un po’ come veniva,
vivendola come meglio ti riusciva. Senza mai tirarti indietro hai
combattuto le tue battaglie sperando, un giorno, di poter trasformare
ogni rissa in un racconto entusiastico ed ogni arrancare in un trionfo
dell’anima.
Col
cuore in tempesta e le mani in tasca hai affrontato questa vita, da
solo ti sei costruito.
E
lei è piombata una sera di Maggio tra i tuoi piedi, seduta
al bordo di un marciapiede, ed illuminata da un unico lampione, ti
è sembrata un miraggio. Rideva a crepapelle di una battuta
che, lo sapevi, esisteva solo nella sua mente. Muoveva le mani come se
danzasse, o almeno ci provasse, ed avvicinandoti di più ti
sei reso conto che quel ridere non era altro che un canto. Sconnesso e
ineducato in un inglese da far sanguinare le orecchie, ma con una
mimica facciale da far scompisciare. Sei rimasto lì, un
sopracciglio alzato, e con le braccia incrociate al petto –
appoggiato a quell’unico lampione – l’hai
osservata arrancare tra le proprie parole. Hai riconosciuto la canzone
in un attimo, più dei tuoi tempi che dei suoi, ed hai scosso
la testa sorridendo.
Sweet
Dreams.¹
Mai,
ma proprio mai, la notte ti aveva offerto uno spettacolo tanto
idilliaco.
Quando
ha riaperto gli occhi e le sue guancie si sono istantaneamente tinte di
rosso, imbarazzata, si è morsa un labbro senza mai,
però, staccare gli occhi dai tuoi. Tu, dal canto tuo, sei
riuscito a fuggire ai suoi occhi solo dopo un po’. Ti sei
piegato sulle ginocchia con naturalezza – quassi passasi le
notti a disturbare piccole fanciulle canterine – e afferrando
il cellulare che aveva poggiato sulle cosce hai cambiato canzone. Lei
ti ha guardato in silenzio, ancora titubante, ha lasciato che le
proprie labbra si stendessero in un sorriso incerto mentre lentamente
andava a scuotere la testa.
«Questa
la canto in modo penoso» ti ha detto.
«Non
importa» hai replicato. «Cantavi in modo penoso
anche l’altra».
Hai
adorato subito la piccola smorfia comparsa sul suo viso. Ti sei chiesto
distrattamente se fosse davvero così pallida, o forse era il
lampione – che emanava una luce troppo fiocca per poter
davvero essere considerata un’illuminazione – ad
impallidirla in quel modo quasi malato.
L’hai
accompagnata a casa quella sera, prendendola un po’ in giro
sulla velocità con la quale aveva accettato il passaggio.
«Per
stasera» aveva detto. «Non ho nulla da
perdere».
Non
hai chiesto, non hai indugiato sul suo tono né, in seguito,
hai cercato di far chiarezza su quella sua affermazione. In fondo era
solo una sconosciuta che aveva rallegrato per un breve momento la tua
serata. Il giorno dopo l’avevi ritrovata nel bar di fronte
all’università – lo stesso locale in cui
avevi lavorato per due anni – e lei era diventata la
sconosciuta che, dopo aver rallegrato per un breve momento la tua
serata, aveva deciso di rallegrare anche la tua collazione. Si era
presentata ai tuoi amici senza indugi, stringendo diverse mani sporche
d’inchiostro – le tue più di tutte le
altre – ricordandosi le buone maniere. Tu, sorpreso di
rivederla lì, sei rimasto a fissarla per un po’
inclinando la testa di lato.
«Che
fai qui?»
Le
hai chiesto cercando di apparire disinvolto. La tua mente, in quel
momento, si stava semplicemente chiedendo se non ti fossi imbattuta in
una psicopatica che da quel momento, o dalla sera prima, o da
chissà quanto tempo, avrebbe sprecato la sua vita
perseguitandoti.
«Sto
aspettando mio padre» aveva risposto, stringendosi nelle
spalle. «Insegna filosofia
all’università».
Hai
alzato un sopracciglio divertito, notando solo in quel momento la vaga
somiglianza con uno degli insegnanti che tanto spesso avevi visto
vagare per i corridoi dell’università.
«De
Angelis» hai replicato, con un mezzo sorriso.
«È un po’ fissato con gli ideali, lo
sai? Un po’ troppo».
Lei
era scoppiata a ridere, portandosi una mano alla bocca –
gesto che, a dirla tutta, era riuscito a farti rimanere proprio secco
– e scuotendo la testa aveva recuperato con una mano i fogli
sparsi per il tavolino d’alluminio. Una volta calmatasi,
aveva depositato i fogli nella propria tracolla, ed alzandosi aveva
sollevato un angolo della bocca.
«Lui
mi nutre d’idealismo».
Sono
state le sue uniche parole. Un attimo dopo era già fuori,
abbracciata all’uomo che, a quanto parava, l’aveva
fatta venir su a pane ed ideali.
Ancora
oggi, a distanza di mesi, non riesci a spiegarti come tutto sia
iniziato. Qualche giorno dopo avevi visto il padre appendere alla
bacheca degli annunci un foglio: uno di quei tipici fogli
d’annuncio, con tanto di numero annesso.
Cercava
qualcuno che potesse dare ripetizioni d’inglese alla figlia.
La
cosa non ti aveva stupito per nulla, l’avevi già
sentita cantare in inglese ed era palese che, alla fine, con un
po’ di buon senso chiedesse aiuto. E perché
rischiare che uno qualsiasi sporcasse il suo viso pallido? Quello era
compito tuo. Era uno sporco compito, ma qualcuno avrebbe pur dovuto
svolgerlo.
La
prima volta l’avevi accolta in casa tua con calma, senza
negarla quella gentilezza che traspariva da ogni suo gesto, che
sembrava metterla in pace col resto del mondo, quasi fosse la sua
protezione alla vita. Una settimana dopo vi eravate spostati in
soggiorno, quella dopo avevate già occupato il
letto. Avevi riso – oh, come avevi riso!
– quando, quasi per sbaglio, la consapevolezza che la ragazza
che ti ansimava sul petto, ormai sfinita, era una ragazzina che era
capita per sbaglio sulla tua strada solo alcune notti prima.
L’hai
sentita irrigidirsi alla tua risata, e tu lentamente hai lasciato
vagare una mano su e giù per la sua schiena ancora nuda
– gesto che sarebbe diventato l’equivalente alla
tanto abusata sigaretta - fino a rilassarla di nuovo.
«Non
mi era mai successo nulla del genere».
Avevi
ammesso quasi colpevole, scuotendo appena la testa. Lei ha alzato la
testa, ti ha sorriso in un modo tutto suo e tu per un attimo ti sei
sentito orgoglioso di te stesso, di cosa, poi, non lo sai neanche tu.
Stava
scivolando via dalle tue mani.
Lo
avevi capito in quel momento, sentendoti sperduto in un sentimento che
non credevi di star provato. La stavi perdendo e tu, che di legarti non
ne avevi mica sentito il bisogno, non eri pronta a lasciarla andare.
Non avrebbe retto, lo sapevi fin dall’inizio… in
fondo neanche tu eri, poi, tanto sicuro di tutto ciò. Tu che
avevi avuto nel tuo letto, tra le tue lenzuola, solo due donne
– e mai solo per una notte! – ti eri ritrovato in
qualcosa d’inspiegabile, che agli occhi tuoi appariva giusta.
Ti eri chiesto più volte se forse, in preda ad un capriccio
stupidamente infantile, non ti fossi spinto troppo in là.
Avevi provato più volte, con una determinazione non da poco,
a porre fine a tutto ciò, ma lei arrivava ogni volta con una
luce diversa negli occhi, un entusiasmo sempre nuovo animava i suoi
gesti. E tu dicevi che era tutto lì, solo sesso. Che era
tutto lì e non importava, se ogni sorriso era un battito in
meno, ed ogni carezza un brivido in più. Perché
era solo sesso e a quello si può sempre metter fine.
Col
cuore in tempesta e le mani in tasca, te lo ripetevi ogni volta come un
mantra… e ci credevi.
Richiudevi
la porta alle sue spalle, soddisfatto di te stesso, oscillando tra le
pieghe di una felicità riscoperta da poco fino a quando i
dubbi, e i tormenti, e le domande ed i perché non tornavano
a galla.
E
lei tornava ogni volta, e ti sorrideva chiedendoti come stavi e tutto
tornava come prima.
“Poi mi chiedi come
sto e il tuo sorriso spegne i tormenti e le domande:
a stare bene, a stare
male, a torturarmi, a chiedermi perché.”
Hai
afferrato le chiavi di casa di corsa, prima ancora di comprendere il
tuo gesto eri già in strada: a passo spedito hai camminato
per le vie di una città che avevi imparato ad amare,
così come ad odiare. Hai schivato pedoni, biciclette, alcune
motociclette ed anche una macchina – posteggiata in secondo
fila in malo modo – prima di giungere a destinazione: il
lampione del vostro incontro era ancora là, ora solo
più affollato.
Hai
scoperto essere una fermata dell’autobus solo alcuni mesi
prima, quando in ritardo t’aveva pregato di darle uno strappo
col motorino fino a casa.
«Non
te lo chiederei, lo sai» aveva esordito. «Solo
che… ho perso l’autobus!»
«Certo
che ti do un passaggio» avevi ribattuto, confuso.
«C’è una fermata dell’autobus
da queste parti?» Avevi chiesto stupito.
Lei
si era limitata ad annuire, con quel suo modo speciale di sorridere,
stringendosi nelle spalle.
«Il
lampione funge anche da fermata».
Era
stata la seconda ed ultima volta che l’avevi accompagnata a
casa, rendendoti stranamente contro che sì, il lampione era
proprio di strada. Anche se da quella volta non eri capitato
più, neanche per sbaglio, da quelle parti, ricordavi
perfettamente dov’è fosse situato. E come poter
dimenticare una cosa tanto importante? Agli occhi della gente
è un lampione come un altro, ma tu lì per la
prima volta ti sei sentito vivo guardando divertito una ragazzina
arrancare nel proprio inglese.
La cerchi
con lo sguardo, impaziente di leggere nei suoi occhi
l’entusiasmo che tanto ami, la leggerezza e la dolcezza che
tanto brami. La cerchi con lo sguardo, impaziente di cogliere nei suoi
gesti quella gentilezza che tanto ti fa sentire amato e protetto. La
cerchi con lo sguardo e non la trovi e quasi geli pensando che forse
– dannazione! – l’hai davvero persa.
Col
cuore in tempesta e le mani in tasca, sei pronto ad andar
via… quando voltandoti la vedi.
Ti
sta osservano con occhi critici, un sopracciglio leggermente sollevato
e la testa inclinata di lato.
Probabilmente,
pensi, si starà chiedendo cosa ci fai lì. E noti
con tristezza che il suo sorriso è ormai spento: ha gli
occhi lucidi e deglutisce più volte, senza osare avvicinarsi
a te. Ignori la supplica che leggi a ogni sua movimento esitante, e i
suoi passi indietro ti stanno chiedendo di lasciarla andare,
abbandonarla lì dove l’hai incontrata e lasciarla
affogare nei propri sentimenti distrutti. E come puoi tu, con questo
cuore in tempesta che ti ritrovi, darle ascolto? Come puoi non sentire
male, non sentirti sporco, per quegli occhi dolci?
“(…)
e tanto ti amo,
che per quegli occhi dolci
posso solo stare male
e quelle labbra prenderle
e poi baciarle al solo,
perché… so quanto fa male
la mancanza di un sorriso
quando allontanandoci, sparisce
dal tuo viso e fa paura,
tanta paura.”
Ti
avvicini a passo deciso, con due lunghe falcate sei già
davanti a lei e sorridi: perché stavolta tocca a te essere
gentile e prendenti cura di lei, in ogni tuo gesto.
E
forse per questo poggi la tua mano, nel modo più delicato
possibile, sulla sua guancia ormai rigata dalle lacrime. E forse per
questo, ti ritrovi a baciar via ogni lacrima senza alcuna esitazione. E
forse per questo imbarazzato t’infili le mani in tasca e la
osservi, con un mezzo sorriso a ornarti le labbra, e lei si avvicina,
infila le mani nelle tue tasche, intrecciando le proprie dita con le
tue, e se ne sta lì: a guardarti negli occhi.
«Ho
rotto l’orologio» esordisci.
«Prima… a casa».
Temporeggi,
perché le parole d’amore che tanto vorresti
affidarle faticano ad uscire dalle tue labbra.
Lei
si acciglia, aggrondando la fronte, ti guarda confusa fino a scuotere
lentamente la testa.
«Oh…»
dice, e le sue labbra si muovono appena. «Mi piaceva molto
quell’orologio».
Lasci
che un sorriso t’increspi appena le labbra, consapevole. Era
una frase che ripeteva spesso, quella. Entrava in casa, sorridendoti ti
chiedeva come stavi e poi i suoi occhi si perdevano per la stanza
– che mai mutava dalla sua ultima visita – e
soddisfatta ti ripeteva ogni volta che quell’orologio era
davvero bello.
«Potremo
provare ad aggiustarlo…» proponi, titubante.
«Credo di avere ancora qualche residuo di conoscenza
falegnameristica¹, affogato sotto chissà
cos’altro».
Ti
stringi nelle spalle vedendola sorridere. Forse
c’è davvero speranza nei suoi occhi, o forse
semplicemente hai deciso di giocarti un brutto scherzo…
vedendo cose che non ci sono, ma sai che non importa: qualsiasi sia la
sua risposta tu non mollerai, perché hai deciso che la vita,
ogni tanto, è più bella se in due.
«Sì…»
sussurra lei, dopo un po’. «Possiamo provare ad
aggiustarlo».
Aggiunge
con voce sicura. Le sorridi, perché lei – diamine!
– ha ripreso a sorriderti in quel suo modo tanto speciale.
«Ti
accompagno io più tardi a casa».
E
la tua non è una richiesta, né una supplica.
È una semplice costatazione, dovuta da una piacevole
consapevolezza e dalla voglia, quel malsano desiderio, di voler
aggiungere finalmente un’abitudine in più alle tue
giornate. E lei annuisce, avvicinando il suo viso al tuo, e lentamente,
con quei gesti che sono solo suoi e di nessun’altra, strofina
il suo naso freddo sulla tua guancia.
Col
cuore in tempesta e le mani in tasca siete lì e vi
baciate… sentendovi eterni.
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1. Non sono
sicura che il termine esista davvero. In tal caso
bene, se no consideriamola una “licenza poetica” xD
Le
canzoni sono, in ordine d’apparizione, queste:
1. Sweet
Dreams – La Bouche.
2. La
differenza tra me e te – Tiziano Ferro.
3. E fuori
è buio – Tiziano Ferro.
Banner carinissimo creato dalla
giudiciA del Contes “(Multifandom
e originali) L'inizio della fine?” nel
quale
sono arrivata quinta,
vincendo il premio miglior titolo.
La
storia è arrivata PRIMA al
contest “Il
contest dei temi. [Multifandom e Originali]”
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