Capitolo Roby Bleach
Due ben',
caro amor mio,
concesse a noi la
sorte;
un bacio ed un addio,
un talamo e una fossa,
amore e morte;
I tuoi baci, Mario
Rapisardi
CAPITOLO I
L’abbagliante luce di un raggio di sole
che le sfiorava
il viso riuscì a destarla dal torpore in cui si trovava.
Aprì i grandi occhi blu scuro trovandosi sotto un cielo
color
cobalto e privo di nuvole. Era sdraiata su quello che evidentemente era
il tetto di un edificio. Si mise in piedi, confusa, e senza avere la
benché minima idea di dove si trovava. Non era il Seireitei.
Era
il mondo degli umani e in breve riconobbe il panorama che aveva di
fronte. Conosceva quella città, in fondo ci aveva vissuto.
Un
senso di nostalgia l’avvolse e la tristezza si
impossessò
di lei al solo ricordo di quei giorni passati e che non sarebbero
più tornati, ma… perché era
lì? D’un
tratto, percepì qualcosa. Un brivido corse lungo la sua
schiena
e l’istinto la costrinse a voltarsi. Su, nel cielo che tanto
sereno era stato fino a qualche istante prima, era apparso uno
squarcio. Da quella nera fenditura, orde di Hollow avevano preso a
venir fuori. Stavano attaccando la città. Era atterrita, mai
nella sua vita ne aveva visti così tanti. Immediatamente
portò la mano al fianco sinistro, pronta ad afferrare la
spada e
a far del suo meglio per difendere la città. Le sue dita,
però, non sfiorarono affatto l’impugnatura della
zanpakuto. Girò il capo corvino di scatto e incredula
dovette
constatare che non aveva con sé la sua spada. Le urla
strazianti
degli abitanti invasero le sue orecchie. Il cielo e le strade si
tinsero di rosso e il suo cuore smise quasi di battere quando in
quell’inferno riconobbe lui. Privo di sensi e con una ferita
che
gli squarciava una spalla, se ne stava in completa balia di un Hollow.
Era disarmata, era sola… le lacrime le riempirono gli occhi
e la
sua voce che nominava il suo nome sembrò perforarle i
timpani.
L’Hollow stava per infliggergli il colpo mortale e lei si era
mossa senza più il completo controllo del suo corpo, senza
speranza, ma senza la forza di lasciarlo morire:
“ICHIIIGOOOOO!!!!”
“Rukia-san, Rukia-san”
La porta della stanza di Rukia si aprì
di scatto.
Kuchiki Rukia era seduta sul suo futon a guardare un punto impreciso
della stanza, madida di sudore, con il fiato corto e con un nome sulle
labbra: “Ichigo”. Era un sogno, pensò
Rukia mentre
riprendeva coscienza di se stessa. Portò una mano alla
testa,
dolente e ancora confusa. Che brutti scherzi le giocava ancora il suo
cuore.
“Rukia-san, state bene?”
Una giovane donna si era avvicinata a Rukia con
la preoccupazione dipinta sul viso e con gli occhi verdi colmi
d’ansia.
“Va tutto bene, Misaki, era solo un
sogno”
rispose Rukia abbozzando con difficoltà un sorriso che mal
celava il suo stato d’animo. Misaki parve accorgersene e,
solo
dopo le continue rassicurazioni di Rukia, la donna lasciò la
stanza. Rimasta sola, Rukia non aveva proprio voglia di tornare a
dormire, non se dormire significava rivivere per l’ennesima
volta
quel sogno. Levò via le coperte e fece scorrere la porta che
dava in uno dei giardini interni della villa di famiglia. Si sedette
osservando con poca attenzione la luna che si specchiava nel piccolo
cerchio d’acqua del laghetto di carpe koi. Poi chiuse gli
occhi
e, stringendo le ginocchia al petto, iniziò a piangere e se
mai
qualcuno fosse stato lì a vegliare su di lei avrebbe potuto
confermare che ella pianse per tutta la notte.
Quando il mattino giunse, Rukia indossava
già la sua
fascia da tenente e una maschera di finta indifferenza con cui ormai
aveva imparato a mostrarsi. Che le credessero o meno, questo inganno
era riuscito a mettere fine agli sguardi di compassione con cui in
molti, conoscenti e non, avevano preso a guardarla. Non riusciva a
tollerarli, era come se tutti nel Seireitei fossero spinti da buone
intenzioni e la invitassero ad andare avanti. Ma come poteva andare
avanti se tutto quello che il suo cuore desiderava era rimasto
indietro? Persino dopo tutto quel tempo, persino con quella maschera,
Rukia non riusciva a vivere un singolo giorno. Meccanicamente,
esattamente come faceva a fine di ogni giornata, si recava nello studio
di suo fratello per fare rapporto. Lo aggiornava sui pattugliamenti,
sulle missioni svolte, sui problemi presenti e gli consegnava le
scartoffie che la burocrazia della soul society pretendeva che
venissero viste e firmate dal capitano della VI divisione. Finito
ciò, meccanicamente, come ogni giorno, Rukia si sarebbe
ritirata
nella sua stanza e si sarebbe lasciata andare ad un sogno ce non
sarebbe stato di certo ristoratore.
“Manca solo il rapporto della squadra
di Saito-san. Non
sono ancora rientrati. Ho già inviato una squadra di
supporto
nel caso fosse accaduto qualcosa o ci fossero delle
difficoltà” disse Rukia finendo così i
propri
doveri per quella giornata. Byakuya stava seduto alla sua scrivania,
impegnato in chissà quale documento, e non la
guardò
nemmeno.
“E’ tutto. Con permesso,
capitano” disse e fece per andarsene.
“Aspetta”
Rukia dovette ritirare la mano che già
stava spingendo
la porta e si volse. Byakuya la stava fissando. La luce delle candele
rendeva profondi e impenetrabili quegli occhi scuri dai riflessi color
malva che da sempre riuscivano a metterla in suggestione.
“Forse dovresti prenderti qualche
giorno di permesso” le disse.
Rukia sembrò confusa “Non
capisco”
“Non servi a niente se prima non ti
prendi cura di te stessa”
“Io sto benissimo”
ribatté lei, ma quello
sguardo screziato d’ametista si fece più severo,
rimproverandola per quelle parole.
“Menti pure a chi vuoi, ma non osare
prenderti gioco di
me. Come puoi dire di stare bene se la notte non riesci nemmeno a
dormire?”
Rukia era stizzita “E’ stata
Misaki a dirtelo, vero?”
“E’ solo preoccupata per
te”
“Smettetela di essere tutti preoccupati
per me!!!”
Aveva urlato invasa dalla rabbia e dalla
frustrazione che
generalmente riusciva a controllare. Byakuya continuò a
scrutarla. Rukia sapeva fino a dove quegli occhi potevano arrivare e
non voleva che lo facessero. Stava per andarsene, ma suo fratello
parlò ancora:
“Non è stata colpa
tua”
Rukia strinse i pugni. Quelle erano le parole che
odiava,
quelle che non tollerava che le venissero rivolte, quelle che secondo
alcuni potevano farla sentire meglio.
“Ora sei tu che ti prendi gioco di me,
nii-sama”
disse e pretendendo di essere lasciata in pace, andò via
portando con sé il suo dolore, unico abitante del suo cuore
spezzato.
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