Il
Giardino delle Esperidi
"Questa era mortale, immortali e
di vecchiaia ignare le altre due; ma con essa sola si giacque
l'Azzurrocrinito nel molle prato e tra i fiori di primavera"
(Esiodo, Teogonia.)
Se
mai qualcuno mi domandasse qual sia della mia dimora il luogo che
maggiormente
prediligo, risponderei senza indugio né
perplessità alcuna ch’esso è il
giardino.
La
mia casa ha un giardino bellissimo.
Non
semplice impresa è descriverlo, credete a me, e assai
più per la sottoscritta:
son fanciulla un po’ rozza, a stento so scrivere.
Esso
s’estende per diversi stadi tutt’in torno
all’abitazione, tanto che il
prendermene cura mi risulta a tratti faticoso. Ahimè, le mie
due sorelle stan
sempre in casa, sepolte in quel labirinto di stanze, pozzi, guglie e
corridoi.
Non escono mai. Il sole è fastidioso, lamentano di giorno.
La notte è fatta per
dormire, dicono all’imbrunire. Così mi ritrovo da
sola a curarmi del giardino,
ma non me ne dispiaccio. La solitudine è bella, se te la fai
amica.
Passeggi
lastricati, sentieri in terra battuta si snodano e si districano fra i
piani
del giardino, sorgono scale d’oro come fonti fra i cespugli
di verbena. I
palmizi si piegano ad ogni ingresso in pacifica riverenza ai
visitatori… quelle
rare volte che giungono qui. Vi son rose sanguigne e gonfie, prati di
viole,
nespoli dolci. Il melo sta accanto all’arancio e
l’uva rosseggia in robusti
grappoli. I gigli si levano dal suolo verso il cielo. Le ninfee
popolano gli
stagni e i corsi d’acqua. Non v’è
differenza fra l’interno e l’esterno della
casa. L’esterno è pieno, l’interno
è vuoto. L’Architetto –chiunque egli
fosse-
mise tutta la maestria di cui disponeva nell’erigere questa
dimora degna degli
Olimpi, di Zeus in persona. Forse che Dedalo prese spunto dalla mia
casa per
costruire il suo famoso Labyrinthos
e
Semiramide, ammaliata dal mio giardino, ne volle uno simile per
sé a Babilonia?
Meraviglia fra le meraviglie è il mio giardino. Esso
è tutto per me ed io sono
tutta per lui.
Di
quando in quando mi diletto nel cogliere papaveri. Ne crescono in
abbondanza ovunque
qui. Sono i miei fiori preferiti: con delicatezza separo lo stelo dalla
radice
e fra loro li intreccio a formar ghirlande rosse e gialle.
Così semplici e così
delicati, basta uno scossone leggero per privarli dei petali.
Altre
volte mi metto a discorrere con le statue. Ve ne sono tantissime, ad
ogni
angolo. Non conosco lo scultore, ma l’arte è in
lui come mai in nessun altro.
Di sicuro è figlio di qualche Musa o forse è uno
dei bastardi di Efesto… o
magari –e gli Immortali perdonino la mia sfrontatezza-
è lo stesso Fabbro a
donarcele. Sono così ben fatte da parer vere. Tutte diverse,
non solo di forma,
ma d’aspetto. Indiani, elleni, italici, celti, egizi. Da
tutto il mondo uomini,
donne e qualche bimbo, in pose svariate. La sola cosa che li accomuna
è
l’espressione. Sempre la stessa, un frammisto di stupore e
paura. Non so perché
lo Scultore Ignoto abbia una simile predilezione.
Tal volta, come dicevo, mi diletto a parlar
con loro, fingere che siano ospiti. Li saluto, gli racconto delle mie
giornate,
del mio giardino. Soprattutto del giardino. Loro ascoltano, fanno
domande, si
complimentano e a fine giornata ci salutiamo.
Non
mi serve il paradiso; vi abito già.
Ma
io non sono –e mai lo si dica!- una padrona gelosa.
Il
giardino non ha mura né cinzioni. Nessun cancello, alcun
accesso occluso.
D’ogne dove i viandanti possono penetrarvi e non troverebbero
ostacolo o guardiano
che li respinga. La mia natura è gentile e non arcigna, non
rifiuta
l’ospitalità, invece gradisce la compagnia.
Mi
incuriosiscono le altre persone e trovo possano dar adito a notevoli
è assai
profonde riflessioni. Credo che siano simili a degli specchi sulla cui
superficie possiamo cogliere il riflesso delle nostre
qualità ovvero delle
nostre mancanze. E qual migliore specchio degli occhi? Adoro
contemplarli,
colorati, lucenti, sfuggevoli, contornati dalle ciglia. Amo vedere il
mio
riflesso nei loro sguardi e fissare la mia reale beltà.
Ed
ora, mio buon Testimone, che tanto solertemente raccogli la mia storia,
ascrivi
col solco della penna nel libro granitico della memoria queste parole,
falle
tue, recitale al mattino appena sveglio ed alla sera prima di stenderti
per il
riposo: nei tuoi occhi, o uomo, io scorgo l’Altra me stessa,
non celata dietro
idoli o maschere gorgonee; quella che ero, che sono e che poi
sarò. Io sono in
te e tu in me, tu ed io siamo uguali. La Bellezza ci unisce.
Ti
prego, non ridere di me e non prendermi per sciocca. Non sono filosofa
e so che
non posso competere con siffatti uomini illustri. Ma non si
può evitare di
pensare quando si è soli…
Sebbene
non ponga ostacoli e l’accesso alla casa sia libero, son rade
le visite. Poche anime
disgraziate bussano al mio uscio. La mia tavola non ha mai accolto
più di tre
persone: me e le mie due sorelle. Loro non sembrano crucciarsene. Amano
questo
eremitaggio cui il Fato ci ha costrette. Non io però. Ho
tanto desiderio di
chiacchierare con qualcuno, rivelare tutti i miei pensieri ad una
persona. Ne
basterebbe una per colmare i miei vuoti.
Ti
confesserò un segreto, un sogno che il mio cuore custodisce,
col rischio di
passar per fanciulla scioccherella e pretenziosa, ma non resisto. Sei
il primo
con cui parlo dopo molto tempo. L’Amore è il mio
desiderio. Oh Dio solo sa
quanto brami l’esser amata da un uomo, sentirne
l’abbraccio cintarmi i fianchi,
le labbra morbide schiudersi alla più alta delle dolcezze.
La peggiore delle
droghe è l’amore per un uomo: una volta provato,
non puoi più farne a meno.
Eppur
non sono estranea a questo mondo di delizie. Una sola volta lo saggiai,
non
ricordo quanti anni or sono trascorsi da allora.
Sorgeva
dal mare, Lui. Bello come il riflesso del sole sull’onda,
rifulgeva di quegli
stessi bagliori. Corpo possente e flessuoso al tempo, sguardo rapace
simile a quello
di certe aquile marine, riccioli stillanti la sua chioma.
Il
corpo nudo mi si accostò ardente più che il
fuoco. Vibrava come corda tesa di
lira, ed io con lui.
Il
timore che provai più non lo rammento, ma fu molto. Ed altro
mi sorse in petto
gonfiando i miei seni in accese palpitazioni.
Egli
mi prese per un braccio; e che forza v’era in quella stretta,
quanto ardore e
quanta urgenza!
Corremmo
sulla spiaggia mentre i flutti quasi si ritraevano al nostro passaggio
e non mi
bagnarono le vesti. Un prodigio!
Nel
Tempio mi fece sua sposa.
Fu
come fare l’amore col mare, l’oceano in persona mi
sovrastava in terribili
cavalloni. La furia del maremoto avea in corpo il Giovane. Mi
sconvolse. I suoi
baci bruciavano laddove si posavano. Provai la violenza dei marosi
contro lo
scoglio, la dolcezza spumeggiante delle onde che cullano. Fu piovra, fu
gabbiano. Fu tutte le cose che il mare popolano, sopra e sotto quella
superficie specchiante. Ed io vi annegai alla fine.
Con
impeto principiò, ma tutto divenne cheto. La quiete dopo la
tempesta.
Mi
abbracciò con parole affettuose e vezzose promesse
d’amore. «Bellissima»
mi diceva. «Ammaliatrice.
Hai capelli di seta. Il tuo profumo inebria come il vino.»
A
fatica recuperai la voce e un po’ d’ardimento. Gli
chiesi cosa gli piacesse di
me. «I
tuoi occhi. Mi pietrificano»
rispose.
Così
cullata m’addormentai. Non lo rividi più.
«La troppa bellezza induce al
peccato. L’amore illecito
reclama castigo. Nessun uomo mai più s’accosti a
te illeso. Tanto affascina il tuo
sguardo da lasciare gelati.»
Una
ragazza un po’ gelosa mi prese in odio. A me non
importò. La perdonai.
Scelsi
la solitudine. La solitudine mi fu imposta. Eppur quanto mi pesa. Son
sempre
una donna e temo a star sola, senza protezione alcuna.
Te
lo dico in un bisbiglio poiché non voglio che qualche
orecchio inopportuno
possa udirmi: questa casa è strana e più volte
m’è parso d’essere osservata da
qualcuno. Non vi sono specchi né vetri né
argenteria. Tutto è in pietra o
legno; par quasi di vivere in un vasto mausoleo. La casa dei
morti… per questo
m’è in odio trascorrervi del tempo. Quivi, lo
dirò francamente, non mancano i
misteri e gli orridi segreti, come quello che sto per raccontarti.
Nel
mio giardino c’è un posto dove non vado mai, ho
paura a mettervi piedi.
È
accaduto tutto un giorno. Sul lato est si trova una fonte dalla quale
si
diparte un ruscelletto che serpeggia lungo metà del giardino
e alimenta quasi
tutte le fontane. Quel dì faceva molto caldo e colta da sete
improvvisa m’ero
chinata alla sorgente per bere un po’ d’acqua
quando lo vidi… un mostro
terribile. Cielo, tremo al solo ricordo. I miei incubi mai prima furono
popolati da creature sì tanto immonde.
Aveva
due grandi occhi a mandorla e la pelle scura, come le genti che
popolano la
Libia e l’Egitto pietroso. Una bocca larga e ghignante da cui
sporgevano
ritorte zanne di cinghiale e una grassa lingua rossa penzolava floscia.
I
capelli poi… o Dio salvami! Chiome brulicanti di viscidi
serpenti. Bestie
orribili che fra tutte più aborro.
Se
ne stava lì, immobile nell’acqua a fissarmi,
faccia a faccia. E mi guardava la
creatura, sebbene dapprima sorridente e quasi felice
all’apparenza –forse
gioiva ella della sua stessa mostruosità?- , nello scorgermi
sembrò stupirsi.
Io, intimorita, non osai guardare oltre. Fuggii urlando e piangendo. Le
mie
sorelle mi consolarono; Euriale dice che non devo preoccuparmi, che non
avrebbe
mai potuto farmi del male. Steno dice che sono pazza. Steno ed io non
siamo mai
andate molto d’accordo, è sempre così
rude e volgare!
Prego
tutti i giorni gli Olimpi perché non abbia mai
più a rivedere quella spaventosa
figura. Alla sera, quando m’addormento e sogno di lei, mi
sveglio ansimante e
madida di sudore. Subito in ginocchio rivolgo preci accorate ai Numi
perché il
male allontanino da me. Fin’oggi mai nulla
m’è accaduto; gli Dèi mi ascoltano.
Ecco,
il sole sta calando. È meglio che vada.
Grazie
per avermi ascoltata con sì fatta attenzione. In eterno te
ne sarò grata.
Adesso
il giaciglio e il sonno mi attendono… e chissà,
magari sognerò del più bel
giovane del mondo, un nobile guerriero, alto e vigoroso che
verrà a salvarmi da
questa solitudine. Brandirà la spada lucente e in un sol
colpo ucciderà il
mostro del giardino. Egli sarà il mio liberatore.
Vieni,
ti aspetto con impazienza, in cambio il mio cuore ed il mio sguardo
saranno
tuoi… per sempre.
E Perseo, figlio di Zeus, armato di spada,
dal collo recise la testa della gorgone Medusa che gli uomini
agghiaccia con lo
sguardo, mentr’ella dormiva nel suo profumato Giardino delle
Esperidi.
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