Allora, ciurma.
Questa è la fic che ho presentato al
concorso SakuSasu/SasuSaku indetto da Kaeru_chan – e giudicato da Rory per
cause di forza maggiore >_<”
La vostra Kodamy è arrivata terza ed è
talmente gioiosa che vorrebbe sprizzare gioiosità da tutti i pori, ma purtroppo
i pori non bastano, ecco.
Ehm… sono un po’ temprata dalla shock,
quindi non ho molto da dire. Tutto qui, ecco.
Bannerino fatto da Rory_chan
Il vento capriccioso di fine marzo sospinse un paio di
quelle ciocche chiare davanti al viso pallido, dove rimasero quasi pigramente
ancorate alla fessura delle labbra.
La donna non ci fece caso; i suoi occhi, appena stretti in due fessure color
verde foglia per ripararsi dal vento, erano fissi su quella piccola croce di
legno piantata nell’erba rada e bagnata di rugiada.
Croce
spezzata, per la terza volta.
Tomba profanata, per la terza volta.
Lasciò cadere i fiori sul terriccio umido, senza un minimo di ritegno.
“Non è
giusto.” Mormorò, stancamente e per mera abitudine, la sua voce. Strinse le
labbra, soffocando quello che qualche anno prima sarebbe stato un singhiozzo,
ma che in quel momento era solamente un suono come altri mille.
“Rinuncio.”
Forse, soltanto un po’ più patetico.
Strinse i pugni, spostando lo sguardo dalla croce spezzata ai fiori modesti,
discreti, fatti di piccole margherite ben poco viziate, selvatiche: fiori che
non si era data la pena di scegliere, dato che lui non li avrebbe apprezzati
comunque.
Non l’aveva mai fatto, dopotutto.
“Rinuncio.”
Ripetè, mordace, affondando il canino nel labbro inferiore. Con la stessa
veemenza con cui avrebbe sputato una maledizione, una bestemmia.“Non ne vale la
pena. Se sono solo io, alla fine, non ne vale la pena. Ne?”
Si voltò
di scatto e quegli occhi, velati da lacrime che non erano davvero lacrime,
(cercò di convincersi)
cercarono istintivamente lo sguardo azzurro dell’uomo che doveva essere alle
sue spalle.
Come ai vecchi tempi.
Come quando erano giovani (piccoli) ed uniti (felici).
L’uomo che avrebbe dovuto essere alle sue spalle, come sempre.
E che, invece, quella mattina di fine marzo non c’era.
“Ne,
Naruto? Rinuncio. Non ne vale la pena.”
Spinse appena, con la punta del piede, il mazzetto di
fiori vicino alla base dell’asta storta di legno. Poi, in un impeto di rabbia,
completò l’atto di vandalismo iniziato da mani ignote: il resto della croce,
quel che ne era sopravissuto, cadde per terra sotto la furia ed il peso dei
sandali scuri.
Dopotutto, non c’era nessun corpo lì sotto a cui dover portare rispetto.
Solo qualche piccola illusione, che andava avanti da quando era poco più di una
bambina.
(che faceva di tutto, pur di sembrare una donna)
Una foto sbiadita e logorata dal tempo e dalle intemperie, sporca di fango e
ridotta a poco più di carta straccia, la guardò indifferentemente dal basso.
Era stata più volte riattaccata alla croce di legno, ed ogni singola volta era
caduta di nuovo. Sospirò.
La se stessa di fin troppi anni prima
sorrideva senza alcuna traccia di rimprovero – ma anche quel sorriso era ormai
sbiadito, tanto che ne rimaneva solo una pallida ombra, un ricordo.
”Non ho mai avuto la tua forza d’animo. Se sono da sola, se sono solo io contro
il mondo, non ne vale la pena. Non devo dimostrare niente a nessuno.”
Ma non avrebbe pianto, perché era stanca di farlo, e non ne valeva davvero
la pena.
“Non ne
posso più, Naruto. Non ne posso più di essere sempre io, quella che deve fare
tutto. Non è affatto giusto, né tantomeno corretto, da parte tua.”
Il vento
– perché se Naruto non era con lei, il vento c’era sempre, c’era sempre, lui –
rubò qualche fiore dal mazzo per terra, spingendolo più in là. Via, sempre più
lontano dalle mura del villaggio.
E’ lì, pensò distrattamente Sakura Haruno, ormai trentenne, guardandoli volare
via.
E’ lì, che Sasuke-kun dovrebbe essere.
La foto
tremò appena, sotto l’impeto del vento primaverile.
Ma la croce spezzata la tenne ferma, ancora una volta, ancorata al suolo.
Rinuncio.
[Non] respirando, aprì gli occhi.
Nulla di interessante si degnò di ricambiare il suo
sguardo – come ogni dannatissima mattina da qualche anno a questa
parte. Rimase lì, distesa - ancora completamente vestita, con tanto di
sandali sporchi di fanghiglia - sulle coperte sotto le quali non si era
premurata di rintanarsi la sera prima: un po’ per il troppo caldo, un po’ per
la troppa stanchezza, un po’ per mancanza di qualcosa che la spingesse a
preoccuparsi davvero per la propria salute.
Le sembrò, per un attimo, di galleggiare ancora in quel lieve torpore indotto
dal sonno; quel torpore innocuo che non sapeva di nulla e che, sicuramente, non
avrebbe mai e poi mai ricordato da sveglia.
Le mani, sottili e quasi nodose, sfiorarono le lenzuola di cotone leggero,
senza sentirne davvero la consistenza.
Il lieve, innocuo torpore di un sonno senza sogni. Ne
aveva a lungo sentito la mancanza.
Ma non stava dormendo: quegli occhi arrossati, un tempo così limpidi,
riflettevano ancora il soffitto e le travi di legno, intarsiate con quei
piccoli fiori che portavano il suo stesso nome. Quei fiori che Naruto, con un
sorriso ampio quanto quello della volpe dipinta sulla sua maschera da ANBU,
aveva inciso con il coltellino multiuso che Sakura gli aveva regalato per il
suo ventesimo compleanno.
Deglutì una, due volte, poi tornò a cercare di respirare. Ma l’aria era ferma
ed immobile, quella mattina, e sembrò non raggiungere i polmoni. Sakura pensò
che le prime vaghe luci dell’alba la rendevano quasi fin troppo surreale e, in
qualche modo, morta.
Eppure, la mancanza d'aria vera ai polmoni non le dette
più fastidio del solito. Mise quella strana sensazione da parte, catalogandola
come paranoia mattutina, senza ombra di dubbio pre-mestruale. Battendo ciglio,
si alzò a sedere, lasciando scorrere lo sguardo sul piccolo monolocale – così
vicino all’ospedale, così pratico, così dannatamente opprimente.
L’aria che non c’era, rosata e filtrata da un velo di nebbia mattutina, rendeva
tutto più immobile ed onirico del solito. Non era una brutta atmosfera,
sembrava quasi quella di una fiaba. Decise che, nonostante la strana sensazione
all’altezza dello stomaco, le piaceva. Sbirciando dalla finestra, allungando
appena il collo, vide che per la strada non c’era nessuno.
L’orologio segnava le quattro, sette minuti e ventuno secondi del mattino.
D’un tratto, si accorse di non sentirsi neppure veramente stanca,
nonostante l’ora: tuttavia, una lieve sensazione di disagio, di timore, si era
insidiata in un angolino del suo cuore e la faceva sentire fin troppo scossa,
quasi si fosse appena svegliata da un incubo particolarmente vivido.
Schioccò la lingua, spingendosi sul bordo del letto e poggiando
i piedi nudi sul pavimento freddo.
Non sentì freddo.
L’inquietudine, in quell’angolino ritagliato nel petto, cominciò a fermentare.
Ma la ignorò. Si alzò in piedi, arrancando qualche passo – insensibile – verso
la porta lasciata, stranamente, aperta.
Era stata così… ubriaca la sera prima? Non ricordava.
Non guardò neppure con la coda dell’occhio il cucinino perché, in quel momento,
la fame era l’ultimo dei suoi pensieri.
Crucciando appena le sopracciglia e mordicchiando distrattamente il labbro inferiore,
si fermò sull’uscio, frugando nella mente sopita. Ma non riuscì a concentrarsi
adeguatamente.
Non sentiva neppure il proprio respiro, i battiti del suo
cuore.
Uscì senza premurarsi di chiudere la porta alle sue
spalle.
Fu il vento della finestra aperta a farlo per lei, piuttosto fragorosamente.
Ma nel suo silenzio d'ovatta, la donna non se ne accorse.
Ed il vento non la sfiorò neppure. Aria morta.
Il liquido verde chiaro nel bicchiere poggiato sul
comodino ondeggiò appena all’impatto della porta contro lo stipite, in un mondo
lontano in cui i suoni e gli odori e le sensazioni erano ancora al loro posto.
Distrattamente, la tenda oscillò.
Il sole stava sorgendo, e la vita continuava a scorrere dall’altra parte del
velo di pizzo.
Konoha, a quell’ora del mattino, era ridotta a poco più di
una città fantasma.
Non un rumore riecheggiava per le stradine del centro, neppure quello dei passi
che la donna, come ogni giorno, muoveva sull’asfalto. Nella mente, una vaga
idea di sistemare le cartelle cliniche dei pazienti dell’ultimo mese, di
portarsi avanti con il lavoro “burocratico”, di approfittare per una volta
dell’essersi alzata prima. Cercando distrattamente di sistemarsi i capelli – soltanto
adesso si era resa conto di essere uscita senza neppure guardarsi allo
specchio, con i vestiti sicuramente aggrinziti per averci passato dentro la
notte – Sakura Haruno sollevò lo sguardo stanco.
L’edificio dell’ospedale troneggiava sulla piccola piazza su cui si affacciava
il suo appartamento, ma aveva un che di tetro a quell’ora, in quell’atmosfera.
Senza vita, non sembrava potesse donarla ancora a qualcuno. Un luogo di morte,
a conti fatti, suggerì una vocina nella sua mente. Sakura si fermò
distrattamente nel centro della stradina, naso all’insù.
L’aria rosata era immobile e stantia.
Priva di suoni, di odori, di sensazioni. Priva di routine quotidiana, priva di
vita.
Neppure un cinguettio dagli alberi vicino all’edificio.
Dov’erano le allodole? Le sentiva ogni mattina.
Non riusciva a dar un nome, a quella sensazione.
( timore )
Un brivido alieno le percorse la schiena, e la donna
scosse il capo e le lunghe ciocche chiare.
In quel momento tornavano in mente solo i pochi – ma sempre dannatamente troppi
– fallimenti legati a quel luogo: a partire dal primo, colossale ed
indimenticabilmente più grande fallimento della sua vita, per finire con la
serie di fallimenti, di cui non ricordava affatto i nomi, ma i volti e le
sensazioni associate ad essi.
Era una lunga lista, quella dei suoi fallimenti medici.
Una lunga lista, alla cima della quale c’era il suo nome.
Sempre il suo nome.
Sempre.
( paura )
Avvertì per un attimo l’impulso di fuggire, sebbene non sapesse esattamente da
cosa o dove. Deglutì silenziosamente, e voltò le spalle alla piazzetta dipinta
di rosa e di verde, scotendo il capo. Non era una buona idea.
Dormire poco le faceva venire in mente cose brutte, cose strane, cose da folle.
Depressa.
Shizune le aveva confessato di essere preoccupata per lei, perché si stava
ammalando di solitudine.
Folle, depressa, sempre troppo nervosa.
Sola.
( panico )
Cercando di estraniarsi da quei pensieri – si sentiva sempre troppo in
colpa, ogni volta che Shizune si preoccupava per lei - si lasciò guidare
distrattamente dai piedi attraverso le stradine secondarie. Provò a trarre
conforto da quel terreno battuto, da quelle palazzine più anonime e meno
significative, meno legate affettivamente al suo cuore che sembrava star per
implodere a causa di tutto quel silenzio, dannatamente insopportabile.
In poche parole, cercò di mantenere la sua mente ferma e razionale.
Come quella di un medico vero.
Un medico che non perde i propri pazienti.
Soprattutto quelli più importanti.
Non quando può salvarli.
Gli occhi compassionevoli di Tsunade-hime sul letto di morte
affiorarono nitidamente dalla marea informe di ricordi, seguiti da quelle
parole stanche, ma vissute. “Non fartene una colpa.”
Non fartene una colpa, le aveva detto, con la passione di
chi ha vissuto quello stesso dolore sulle proprie spalle. Non fartene una
colpa perché non è colpa tua.
Lo aveva detto con trasporto, quasi la stesse supplicando
di capire quella semplice e lineare verità che lei, da persona anziana, voleva
trasmettere alla nuova generazione.
Sakura scosse il capo, sorriso amaro stampato sulle
labbra.
Non è mai colpa di nessuno, pensò, tranne quando è colpa di qualcuno.
Come sempre.
Arrestò i passi, lasciandosi cadere contro l’intonaco scrostato del muro più
vicino. La stanchezza che avrebbe dovuto coglierla appena sveglia sembrò arrivare
solo in quel momento. Tuttavia non si trattava di una stanchezza fisica, ma
piuttosto una stanchezza a livello del cuore.
Il muro avrebbe dovuto essere freddo contro le sue spalle nude, ma non lo era.
Non sopportava più di non sentire nulla. Aveva voglia di gridare – funzionava
bene, di solito, per scaricare la tensione – ma non lo fece, premendo
strenuamente il pugno chiuso contro le labbra.
Si sentiva soffocare a livello puramente emotivo, e temeva sarebbe scoppiata in
singhiozzi da un momento all’altro, proprio come quando era una bambina.
Quell’atmosfera la uccideva, le punzecchiava il cuore con mille aghi fatti di
senso di colpa.
Un pensiero, stanco e folle anche lui, cominciò a maturare
all’interno del suo animo.
Ghignava, quel pensiero, con una leggera nota di estasiato sadismo.
Era la sua vendetta?
Anche dopo la morte, era l’unica cosa che lo ossessionava? Vendetta?
Sakura ricordò vagamente l’immagine della croce distrutta
sul terriccio umido, dei fiori sparsi nella fanghiglia, della foto piena di
ricordi gettata via.
Quanti mesi prima aveva rinunciato? Forse, pensandoci, era
già passato un anno.
Un anno è un periodo troppo lungo.
Era andata avanti, perché non aveva avuto senso rintanarsi nel passato.
Si era ammalata di solitudine, ma era andata avanti.
Eppure, poteva il suo fantasma portare ancora risentimento
nei suoi confronti?
Doveva essere l’anniversario della sua Rinuncia, concluse
con un nodo alla gola.
Era quello, il motivo per cui non si sentiva bene, quella mattina.
Non avresti dovuto vedere, pensò, piena di rancore. Non ci sei tu
sotto quella fanghiglia. Non c’è nessuno! Solo ricordi, ricordi e legami.
Legami che tu hai sempre giudicato inutili.
(Anche Naruto è andato avanti. Perché non te la prendi con lui?)
Questa volta, un singhiozzo privo di lacrime e di suono si
fece strada tra le sue labbra, e la donna si detestò con ogni singola fibra del
suo animo. Non era più una bambina.
Si costrinse a smetterla con quei pensieri di ripicca
infantile, e si prese il capo fra le mani. Respirò, ancora una volta, senza far
alcun rumore. Attorno a lei tutto era ancora immobile, quasi si trovasse
all’interno di una cartolina stampata.
All’interno di una foto dalla colorazione chimicamente alterata.
Neppure un filo di vento, neppure quello ad offrirle conforto, quella mattina
di marzo.
Sollevò lo sguardo, solo per vedere davanti a sé le porte
del villaggio.
Quell’inquietudine simile a senso di colpa, a rimorso, a nostalgia venata di
desiderio per qualcosa che avrebbe potuto essere, in un tempo lontano, tornò
moltiplicata e le tolse quasi del tutto il respiro che non aveva.
Nessuno la fermò, quando varcò i cancelli rosso porpora
con passo contenuto.
La sentinella, che sembrava avere lo sguardo fisso a mondi
di distanza, non si voltò neppure a seguirla con lo sguardo.
Non ci fece caso.
Tutti sapevano chi fosse, Sakura Haruno.
(e per questo, ormai, tutti la evitavano.)
Sasuke-kun era inginocchiato davanti alla sua tomba – quel che ne rimaneva
- e le dava le spalle.
Sporco di sangue – come quel giorno – pallido – come quel giorno
– spettinato – come quel giorno.
Morto. Come quel
giorno.
Se Sakura avesse avuto ancora un cuore sano, da qualche
parte, probabilmente si sarebbe fermato in quel momento. Soltanto nel guardare
quelle spalle che si erano congelate all’età di sedici anni, senza poter mai
diventare ampie quanto avrebbero dovuto. Nel guardare quella nuca, e quelle
piccole virgole nere che erano state la causa di tutta la loro vita andata a
puttane.
Sasuke era lì davanti a lei. Qualche metro più avanti.
Poteva sentirla? Non poteva sentirla, non con quel silenzio così assordante,
non con…
Aveva voglia di gridare.
Lo fece, silenziosamente.
E, ricevendo in risposta solo silenzio, si portò ancora una volta le mani alle
tempie, e chiuse gli occhi, sentendosi improvvisamente molto più umana e molto
meno medico.
Un gemito sfuggì dalle sue labbra socchiuse, ma lei non lo sentì.
Sto impazzendo, ripetè fra sé e sé, sto impazzendo.
Rinuncio.
Ho rinunciato, non hai più nessun diritto di essere qui.
Non è giusto.
I ricordi scompaiono, se non c’è più nessuno a ricordarli. No?
Naruto? Naruto, fa qualcosa.
Metti tutto a posto.
… Naruto, ti prego...
Solo il silenzio, il silenzio soffocante, e le dita che
affondavano nella pelle e la totale immancabile assenza di dolore. Riaffiorò, e
riaprì gli occhi.
Sasuke era ancora lì. E quell’occhio nero – era stato
davvero così giovane, quando l’aveva lasciata indietro? Era stato davvero poco
più di un ragazzino? – ricambiò il
suo sguardo..
Il sangue, vecchio di troppi anni per poter essere davvero
ancora così rosso, ricopriva metà del suo volto e proveniva quasi tutto dalla
cavità oculare sinistra, vuota come le finestre di una casa abbandonata. Lui
batté pigramente ciglio sull’occhio buono, quasi fosse in preda dello stesso
torpore che aveva colto lei.
Lei lo imitò, labbra strette in una linea sottile; sbirciò, con timidezza quasi
virginale, tra le fessure fra un dito e l’altro delle mani dietro le quali
aveva cercato ingenuamente di nascondersi. Si accorse di star tremando.
“… sei qui.” Osservò l’ombra di Sasuke, con una vena di
disappunto. E Sakura lo sentì. Sentì quelle due parole riecheggiarle
distintamente nell’anima, scuoterla come l’acqua di un piccolo pozzo in cui una
mano magnanima ha gettato la sua moneta e il suo desiderio. Vittima dei cerchi
che, lentamente, si dilagavano. Riverberavano.
Rabbrividì, pervasa dalla sua voce.
Attese, con le lacrime agli occhi, mentre la tensione dovuta a quel silenzio
innaturale veniva infranta senza troppe pretese. Quasi le mancò, a quel punto,
la forza nelle gambe che la tenevano ancora in piedi per pura inerzia. Non
c’era nessun altro rumore, accanto a quella voce, ma non importava. Sakura
attese, con una morsa al cuore, come spesso si era sorpresa ad attendere quando
aveva tredici anni e credeva ancora nelle favole. Ma il suo primo amore non si
lasciò sfuggire una sola parola.
Le voltò le spalle, riportando la sua attenzione su ciò
che l’aveva intrattenuta fino a qualche attimo prima. Dopo qualche minuto di
silenzio – insopportabile silenzio, odioso silenzio, fottutissimo silenzio –
Sakura decise che doveva trattarsi necessariamente di un sogno.
Un sogno crudele, a cui avrebbe reagito i maniera
infantile e ben poco consona ai suoi trent’anni suonati. Si sarebbe svegliata
piangendo, avrebbe cercato Naruto…
… E Naruto non avrebbe avuto tempo per lei. Come sempre.
Scosse il capo, arretrando di qualche passo. Dopodiché
cambiò idea, avvicinandosi di nuovo.
“… cosa ci fai qui?” esordì, ma la sua voce non smosse
affatto l’aria stantia. Non la sentì aleggiare nell’aria, come quella di Sasuke
aveva fatto poco prima.
Aveva sempre avuto una bella voce, lui.
Profonda.
Ricca di sfumature che mancavano ai suoi occhi e al suo volto, che apparivano
sempre così vuoti.
La voce di lei, invece, era banale; lo era sempre stata.
Forse non aveva il diritto di infrangere quel silenzio, lei? Con quella sua
voce uguale a mille altre voci? Con il suo nome che sarebbe andato perso tra
mille altri nomi, senza mai passare alla storia come quello di Naruto Uzumaki e
di Sasuke Uchiha?
La voce di una persona così anonima evidentemente non
aveva il diritto di farsi sentire.
Che cosa disdicevole.
“Guardo i miei sogni che appartengono al passato.” Rispose
tuttavia lui, dopo qualche attimo di indecisione, quasi quella voce banale
l’avesse raggiunto, cristallina e limpida, con la sua domanda. Rispose
lentamente, con un borbottio, quasi non avesse avuto veramente voglia di
soddisfare la curiosità di lei. Forse si era aspettato parole più pregnanti,
più significative?
Cosa si dice al fantasma del tuo primo amore, in questi
casi?
Si consolò pensando che era un sogno, e che i sogni non dovevano avere per
forza un senso.
La donna allungò appena il collo a quella risposta, per
sbirciare al di là di quelle spalle macchiate di sangue, graffi e lividi.
La stretta nell’anima tornò, prepotente.
Oh, in che condizioni si era ridotta quella foto, in quell’anno abbandonata a
sé stessa!
Ed esisteva, eppure esisteva ancora!
Quasi del tutto sbiadita, sporca di fango ed invasa dalle formiche, della
stessa consistenza di carta straccia bagnata ed asciugata al sole troppe volte,
strappata ai bordi, bucata dai chiodi che avevano tentato di tenerla ancorata
alla croce di legno…
… eppure, anche in quello stato pateticamente pietoso, lei esisteva ancora!
I loro volti di bambini erano lì, e guardavano proprio lei!
E quella croce di legno, spezzata, era ancora lì! Aveva
tenuto ferma quella foto per così tanto tempo, fedele al suo scopo di essere
testimone e ricordo di qualcosa che ormai apparteneva ad un passato troppo
lontano, che tutti desideravano ardentemente lasciarsi alle spalle!
Non poteva sopportarlo.
Nel vedere la fedeltà di quella singola foto e di quel
singolo pezzo di legno, Sakura Haruno si sentì in colpa come mai prima in vita
sua. E, pur essendosi ripromessa di non farlo mai più, scoppiò a piangere.
“Oh, siamo ancora lì, Sasuke-kun. Vedi? Vedi come
sembriamo piccoli? Felici? Quanti anni avremmo potuto avere, lì?” eppure sulle
sue labbra, annegata tra le gocce di pianto, affiorava di tanto in tanto
l’ombra lontana di quel sorriso radioso.
“Non hai ancora finito le lacrime.”
Non era una domanda, tuttavia lei rispose comunque.
“Credevo di sì.” Mormorò lei, tra un singhiozzo e l’altro,
tentando di contenerli con il dorso della mano, di asciugare tutto quello
spreco d'acqua salata. “Credevo di sì.”
Le sue mani insensibili non catturarono nulla, ma
l’insensibilità le impedì di accorgersene.
Pazientemente, il ragazzo attese che la donna si
ricomponesse e calmasse il respiro irregolare. Questo accadde dopo qualche
minuto buono, ma Sasuke non sembrò affatto fare caso al tempo che continuava
inesorabilmente a scorrere. Guardava anche lui la foto, e Sakura si ritrovò a
guardare lui.
“E’ la tua punizione, Sasuke?” domandò lei, una volta più
tranquilla, con un filo di voce. Lui ricambiò distrattamente il suo sguardo
verde foglia con quello color pece del suo occhio scuro.
Batté ciglio, prima di tornare a posare lo sguardo sulla
foto.
Non disse nulla.
“Un anno fa. Un anno fa ho deciso di dimenticarti. Ho rinunciato.
Deliberatamente. Lo sai, non è vero?”
Nessuna risposta.
“Non è per questo che sei venuto a trovarmi nei sogni,
oggi? Per vendicarti?”
“Sakura, non stai sognando.” Schioccò la lingua lui, volto
adombrato dalle spettinate ciocche scure. Sembrò essere risentito dalla
particolare scelta di vocabolario della ragazza, dall’allusione alla stessa
vendetta che l’aveva condotto sottoterra troppo tempo prima del dovuto. Quel
risentimento trasparì dalla voce vivida e ricca di sfumature, in quel momento
appena crucciata.
“Certo che sto sognando.” Ragionò lei, accovacciata
accanto a quell’ombra di fantasma. “Tu non puoi essere vivo, Sasuke. Ti ho
visto morire. Non ho potuto salvarti, lo sai. Sono arrivata troppo tardi.
Perché mi devi far ammettere certe cose?”
Lui rimase in silenzio, scrutandola con quell’unico occhio
scuro.
Lei rimase in silenzio, ma si nascose al suo sguardo.
Con uno schiocco della lingua, carico di stizza, il
ragazzo si tirò su: senza sforzo, titubanza o dolore, nonostante le ferite,
nonostante l’equilibrio distorto dal punto cieco e la perduta percezione della
profondità. La donna lo seguì, vagamente accusatoria, con gli occhi verde
foglia finchè lui non si allontanò troppo; dopodiché, rinunciò.
Il silenzio, minaccioso, tornò in tutta la sua imponenza.
Lei deglutì, una, due volte, sicura di essere stata ormai lasciata sola, sicura
che di lì a qualche momento si sarebbe sicuramente svegliata.
Passarono molti minuti. Ore, forse: il tempo, nei sogni, è
così distorto…
“… cosa ci fai tu qui, Sakura?” riprese la voce, e
per lei fu come se avesse passato quel silenzio troppo lungo ad attendere
quella domanda, allo stesso modo in cui si attende il tuono che segue
immancabilmente un fulmine a ciel sereno: fu come se il ragazzo non avesse mai
smesso di parlare, come se il tempo di quel silenzio fosse stato annullato.
L’aria era ancora immobile, ma stava perdendo il suo
filtro rosato.
Quando si voltò, l’espressione di Sasuke era più morta del
suo corpo sepolto in tanti piccoli pezzi sparsi chissà dove. Il fuoco che
ardeva dietro la singola pupilla, tuttavia, era furioso. Infuriavano, quelle
fiamme, più accusatorie di quando non fosse stata lei nei suoi atteggiamenti di
qualche minuto/eternità prima.
Si guardarono, con fin troppa veemenza. Lei era confusa – con
un pizzico di disperazione buttato in un angolino per condire il tutto – ed
il ragazzo sembrava sospeso in uno stato a metà fra la delusione e la rabbia
freddamente controllata.
Fu Sakura, ancora una volta, a perdere la tacita battaglia scostando lo
sguardo.
“… dov’è qui?” domandò, con ripicca, sforzandosi di fomentare quel lieve
senso d'irritazione: tutto, pur di evitare il panico che sapeva
( perché, in fondo, lo sapeva )
avrebbe seguito la risposta a quell’innocente domanda.
Tuttavia, lui non rispose.
Tipico di Sasuke-kun, non renderle mai le cose più facili. Lasciarla in balia
dei suoi problemi, costringerla ad affrontare ogni volta la realtà – quella
stessa realtà che ogni fottutissima volta la schiacciava sotto il suo
peso.
Voleva che fosse lei, a rispondere?
A rendere vera quella ineluttabile verità, dandole voce?
Non aveva il coraggio di fare qualcosa del genere, di ammettere la sua
codardia, la sua condizione.
Conosceva già la risposta a quell’innocente domanda, lei. Ma si rifiutò
ugualmente di pronunciarla. Strinse le labbra, serrò i pugni. “Mi dispiace.”
Sasuke scosse il capo, in un gesto tremendamente umano – quasi
infantile – di chi non vuole sentire né scuse, né lo stridio di unghie
troppo lunghe che si arrampicano disperatamente sulle lucide superfici degli
specchi, quasi ne valesse della loro vita. “Non è vero, Sakura.” Asserì,
laconicamente. “Non ti dispiace affatto.”
“Vero.” Rimbeccò lei, sollevando lo sguardo. “A voi
dovrebbe dispiacere, piuttosto. A tutti voi. E’ stata colpa vostra, sempre. Non
sapete cosa vi siete persi.” affermò, travolta nel tumulto dei ricordi della
sera prima. Le lacrime. Naruto con lei, quella lei che non
sarebbe mai stata lei. Ridevano. Le sue colleghe che bisbigliavano verità
troppo crudeli alle sue spalle. Lo sguardo pietoso di Shizune. L’incubo di
quell’unico occhio che la osservava dal basso, chiedendole per l’unica ed
ultima volta di capire. Supplicandola di capire senza aver bisogno delle
parole, perché le parole lo avevano ormai abbandonato da tempo. Il risveglio
nel bagno di sudore.
L’ennesima rinuncia di una vita fatta di rinunce.
L’ultima.
La rinuncia alla battaglia persa in partenza e tuttavia
ostinatamente combattuta.
( perché non è altro, la vita )
Sasuke-kun, nella sua rabbia dignitosamente contenuta, la
squadrava dall’alto. Non disse nulla, condannandola ancora una volta a quel
silenzio surreale che le faceva perdere di vista sé stessa.
Si costrinse ad un approccio più razionale, più calmo, più
scientifico.
“Avevo sperato nel nulla, io. E’ l’unico motivo dietro il
mio gesto. Pensavo non ci sarebbe stato più nulla, che avrei potuto… non lo so,
smettere di esistere.” Ammise, alla fine, con un filo di voce. Con un gesto di
stizza, Sasuke scostò lo sguardo altrove, verso le porte del villaggio: e
Sakura intuì che anche lui ci aveva sperato, un tempo.
“Era quello di cui avevo bisogno. Smettere di esistere. E’
così stancante, a volte. Ti logora dentro, ed arriva il momento in cui non ce
la fai più. Ne, Sasuke-kun? Capisco
cosa provavi, ora. Lo sapevo che mi sarei sentita davvero sola, senza di te.
Non scherzavo. Ho gettato al vento la mia vita, dopo.”
Il silenzio, immobile. Distrattamente, la donna si alzò in
piedi battendo sui vestiti stropicciati per scrollarsi di dosso della polvere
sicuramente immaginaria.
“Anche io.” Mormorò il ragazzo, amaramente. Lei si voltò e
provò una strana sensazione, nel riscoprirsi ormai più alta di lui, che non
aveva mai avuto l’occasione di diventare un uomo. Sembrò notare anche lui
quella differenza d’altezza, tanto che scostò subito l’attenzione sul terreno
smesso, quasi fosse d’un tratto divenuto terribilmente interessante.
Possono i morti avere ancora orgoglio?
Rimorso, per ciò che avrebbe potuto essere?
Per il futuro mai arrivato.
“Si, anche tu. Sei stato fra noi quello che l’ha gettata
via più volentieri, tu. Hai innescato una reazione a catena che ci ha distrutti
tutti e…” qui si bloccò, mordicchiando il labbro. “… e mentre Naruto è riuscito
ad alzarsi, io vivevo sulle spalle di Naruto, cercando di rubargli un po’ di
quella forza, di quella luce, ma… Ma lui ha il suo sogno ora, e ha il suo
amore. I miei sogni, invece, appartenevano al passato, proprio come i tuoi.”
C’era empatia, in quell’occhio scuro. Comprensione. Per un
attimo, alla pozza di pece, affiorò persino un bagliore di senso di colpa. “Mi
dispiace” disse, con un filo di voce, e con il tono di una maledizione.
“Non è vero. Non ti dispiace affatto.” Rimbeccò Sakura,
acidamente, rivolgendo contro di lui la stessa accusa. Ma lui scosse il capo,
con rassegnazione.
“No, Sakura. Mi dispiace davvero.”
Il sole era ormai alto, nel cielo, ma non li riscaldava
affatto. La donna lasciò cadere il discorso in quell’onnipresente silenzio che
la metteva a disagio. Avrebbe voluto ridere, forse, all’ironia del tutto.
Cosa l’aspettava, ora? L’eternità?
Sasuke-kun aveva lo sguardo perso sull’orizzonte dietro le
montagne scolpite con i volti degli Hokage.
Con il volto di Naruto.
C’era qualcosa di simile ad un accenno di un sorriso, un ombra sulle sue
labbra, ma non si trattava di un’ombra felice.
Le ricordò, per un attimo, quei finti sorrisi che Naruto aveva tentato di
propinarle, una volta che il loro compagno di squadra li aveva abbandonati.
“Se potessi tornare indietro, Sasuke-kun, lo faresti
ancora?” esordì lei, riportando gli occhi verde foglia su di lui.
“Cosa?”
“Gettare via la tua vita.”
Il suo volto si adombrò appena, una piccola ruga tra le
sopracciglia appena corrucciate. Ci pensò a lungo, prima di degnarla di una
risposta. “Si. Solo, penso che lo farei meglio. Molto meglio.” commentò, piano.
“La pratica rende perfetti.”
Una morsa strinse il cuore fermo della donna, la quale
scosse appassionatamente il capo, stringendo i pugni e schioccando la lingua.
“Se pensi che te lo lascerei fare di nuovo, ti sbagli. Io… io ti fermerei.”
Ribattè, poco più d’un sussurro. “Questa volta, ti fermerei. Chiamerei
Kakashi-sensei e Naruto, e saremmo stati in tre ad aspettarti. A fermarti. Ad
impedirti di andare via.”
Il viso di Sasuke-kun sembrò contrarsi più del necessario sotto il peso di
quelle parole, ed ancora una volta sembrò indeciso sul rispondere o meno, quasi
il convogliare i pensieri in parole di senso compiuto fosse una fatica troppo
grande. Quasi non ne valesse la pena.
“Ci sareste riusciti.” Commentò, infine, con un filo di
rimorso.
Sakura si maledì, dieci, cento, mille volte, per non aver
agito a quel modo nella prima occasione, pur sapendo che non ce ne sarebbe mai
stata una seconda. Era stata infantilmente convinta che da sola ci sarebbe
riuscita comunque, perché, cazzo, l’amore vince ogni cosa e non è questo
che ti insegnano le favole che ti raccontano da bambina?
Non è per questo, che te le raccontano?
Apparentemente no.
“Sono stata una stupida.”
”No, non stupida.” Sbottò il ragazzo, il cui sguardo era ancora una volta perso
in quel ritratto del passato “Ingenua. Mai stupida.” Silenzio, ancora una
volta. Poi, un tono stranamente nostalgico, estraneo su quelle labbra pallide.
“Salvo i primi tempi. Con quelle risatine isteriche e la testa fra le nuvole e
i romanzi rosa che portavi dietro ad ogni missione.”
“Oh, quelli erano i residui dell’influenza di Ino.” Si
giustificò la donna, rammentando con velata malinconia quei tempi in cui
nessuna missione di classe D avrebbe mai potuto essere letale, per loro. Si
stupì nel ritrovarsi ormai abituata a quella calma piatta, ed il pensiero di
aver raggiunto Sasuke-kun dall’altra parte le sembrò stranamente surreale. Non
poteva essere vero.
“Non ti sopportavo.” Stava mormorando lui, stancamente.
E’ la solitudine.
No, stai solo negando l’evidenza, Sakura.
Non è vero.
E’ solo che…
“Non immagini mai come sarebbe stata la nostra vita, se
non te ne fossi andato? Non ti capita, qualche volta?” domandò la donna,
piccolo sorriso sulle labbra. “Anche se non sei il tipo da fantasticare, tu.”
Soggiunse, quasi un piccolo ripensamento. Come prevedibile, Sasuke sospirò –
piano, quasi solennemente, quasi stesse davvero cercando in quel momento, di
immaginare – ma, alla fine, non rispose. Come sempre.
”Se fossi rimasto a casa… se fossi rimasto a casa, tu, sarei diventata tua
moglie.” Continuò lei, dopo qualche attimo di silenzio, sorriso distante sulle
labbra. “Sicuramente.”
Quel commento buttato lì sembrò coglierlo di sprovvista,
ma da morto Sasuke-kun non aveva perso l’innata abilità di mantenere sempre una
perfetta faccia da poker, in qualsiasi situazione.
Sembrò riflettere sull’affermazione, a lungo.
“… Non ne dubito.”
“Neanche io.” Mormorò lei, sospirando. “Sarei stata una
moglie perfetta, sai? Una madre perfetta.”
“Lo so, Sakura.” La interruppe il ragazzo, lasciandosi
cadere seduto davanti ai resti della tomba, nella fanghiglia. Non fece rumore e
– notò lei – neppure il terriccio fangoso sembrò risentire del suo peso.
Sasuke-kun non è davvero qui.
“Lo so.” Stava ripetendo lui, ed era ancora una volta
talmente distante che, per un attimo, Sakura temette di vederlo scomparire così
com’era apparso. All’improvviso, come un fulmine a ciel sereno.
Tuttavia, prima che potesse aggiungere qualcosa – rimproverarlo,
sfogarsi, rinfacciargli che era stato lui, lui, a volersene andare, e
che invece così faceva sembrare che la colpa fosse stata solo di lei
quando non era affatto vero – i suoi occhi verde foglia scorsero da
lontano, vicino alle porte del villaggio, una figura dalla chioma color del
grano.
E, per quanto volesse negarlo, meno passi la separavano da
loro e più quella figura assomigliava a lui.
Naruto.
“… cosa ci fa lui qui?” mormorò la donna, un po’
curva su sé stessa sotto quell’altro pezzo del peso del mondo che le crollava
sulle spalle. “Dopo tutto questo tempo, cosa ci fa lui…?”
Il ragazzo la interruppe, piuttosto bruscamente, con tono
irritato. “Viene qui ogni mattina. Molto presto, un po’ dopo l’alba. Fa così da
anni, ormai. E’ l’unico momento libero che ha.”
Sakura rimase in silenzio, occhi incollati sulla figura
del giovane Hokage dall’aria scarmigliata ed assonnata, dal tradizionale
copriveste rosso e bianco, dal pendente al collo che catturava la luce del sole
ormai sorto.
“Per tutto questo tempo, lui…?” mormorò, con un filo di
voce.
“Inizia a parlare.” Commentò il fantasma di Sasuke, senza
guardarla: il suo sguardo sembrava, in quel momento, distratto dalla luce
riflessa dal ciondolo. “Ogni giorno comincia con ‘sai, ieri…’, e non fa che
raccontare quello che ha fatto.”
Ancora una volta, silenzio.
Ancora una volta, Sakura stava rischiando di rimaner soffocata dal senso di
colpa.
“E’ irritante.” Aggiunse il ragazzo, quasi dopo un piccolo
ripensamento. Tuttavia, non appena la donna schiuse le labbra per dire
qualcosa, per mormorare una scusa, per giustificarsi in qualunque maniera, fu
interrotta di nuovo.
Non dalla voce profonda e calda di Sasuke.
No.
Da un’altra voce più adulta, che sembrava riecheggiare come se non appartenesse
davvero al loro mondo.
E che non poteva, d’altronde, appartenervi.
“Ohi, teme.” Aveva esordito Naruto, in quel momento, e la
sua voce un po’ roca e selvatica - la sua voce di sempre - aveva
infranto il silenzio come se fosse stato fatto di vetro.
Sakura trasalì. “E’ lui.”
Un cenno di assenso.
“Lo sento. Perché…?”
“I morti sentono i vivi solo quando i vivi si rivolgono a
loro.” Commentò il ragazzo, voltando verso di lei la cavità oculare sporca di
sangue.
“Quando pregano?”
“Preferirei non sentirli proprio.” Mormorò stancamente
l’ombra di Sasuke, scotendo il capo. Fu la seconda – terza? quarta? -
stretta al non-cuore per lei, perché ricordava di aver sempre detto cose
orribili, su quella tomba. Aveva avuto troppo rancore per non farlo.
“Quello che ho detto, Sasuke-kun, io…”
“Sai, ieri…” cominciò il sesto Hokage, piccolo sorriso – genuino
ma un po’ amaro – dipinto sulle labbra. “… Hinata ha cominciato ad avere
quei capricci da donna incinta. Sai, quelli assurdi. Credo li chiamino voglie.
Di punto in bianco ha detto che sarebbe stato davvero carino da parte
mia comprarle delle fragole con la panna.” Qui l’uomo si interruppe appena,
grattandosi la nuca. “Ma se riuscivo a sopportare te, teme, che eri in costante
crisi premestruale, riuscirò a sopravvivere anche a questo. Mi hai
temprato la pellaccia, tu… Ah, non ho un attimo di tempo libero. Tutta colpa di
quel disastro diplomatico con quel cavolo di paese della nuvola. E’ fatto di
teste di cazzo quel paese, te lo dico io.” L’ultima frase venne fuori come un
borbottio, ed in un’altra situazione Sakura avrebbe riso. Tuttavia in quel
momento non ne ebbe la forza, e non potè fare altro che guardare l’accenno di
divertimento sul volto del fantasma bruno al suo fianco.
“… ho visto Sakura, ieri.”
E Sakura deglutì.
“All’ospedale. Era con un gruppo di infermiere, sembrava
stanca. Si è fatta crescere i capelli, sai. Se non sembrasse così triste e
stufa e… non so, così depressa, sarebbe bellissima. Saresti tu a caderle
ai piedi, credimi.” Il sorriso sulle labbra di Naruto, tuttavia, era tenuto su
da pura inerzia. “Non sono riuscito ad avvicinarmi, però. Non ne ho avuto il
coraggio. So che è stata colpa mia, in un certo senso, che si è ridotta così… e
non ho avuto il coraggio di parlarle. Neanche ieri. Era il suo compleanno, sai?
Il 28 marzo, ricordi? … certo che no, bastardo. Non le hai mai fatto un regalo
in vita tua, tu. Era il suo compleanno, e non sono riuscito neppure a dirle ‘auguri’.
… L’ho pagato caro il mio sogno, io.”
“Come tutti noi, del resto.” Commentò spassionatamente
Sasuke-kun, rivolto a nessuno in particolare. Ma a quel punto Sakura soffocò un
singhiozzo, nascondendo il viso fra le mani.
Vergogna.
Non vedevo niente, io.
Solo me stessa.
Miserabile me stessa.
“Oggi la vado a trovare, però. Tra poco. Lo so che è
presto, ma la sveglierò io. Sì. E sarà talmente commossa che non riuscirà
neppure a gridarmi contro. O a picchiarmi. La sveglierò e le dirò ‘buon
compleanno’. E lei mi lancerà addosso il cuscino e dirà ‘guarda che era ieri,
stupido!’. Sì. Tu sta’ a vedere, Sas’ke. Domani avrò sicuramente qualcosa da
raccontarti.”
Piccola pausa, piccolo sospiro. I piccoli segni sulle
guance di Naruto erano ancora stirati nell’impalcatura di quel sorriso.
“… certo che se non vuoi che continuo a scassarti le palle
anche nell’aldilà, ecco, è un altro discorso. … fammi un segno? … nulla? Ok.
Allora a domani, ne. Cercherò di convincerla a venire. Può portare dei fiori,
sai, quelli che ci portava sempre all’ospedale. So che ti piacevano, li
guardavi sempre con un sorriso quando pensavi che non ti stesse a guardare
nessuno. Perlomeno apprezzavi il pensiero, ne, teme. Avresti potuto farglielo
sapere, qualche volta. Ero io che dovevo sorbirmi tutte le lamentele, poi…”
“Non è vero. Non è vero.” Mormorò Sakura, con un filo di
voce. Era un sussurro urgente, un sussurro quasi allarmato, quello che sfuggiva
dalle labbra della donna. “Non li hai mai apprezzati, tu. Non è vero.”
Sasuke scosse il capo, ma rimase in silenzio, non sapendo
effettivamente cosa ribattere.
“Non è vero.” Mormorò, infine, ed anche la sua voce si
ridusse ad un filo.
Sakura ringraziò il cielo – e chiunque ci fosse lassù,
nel caso ci fosse qualcuno – di aver ormai finito le lacrime e di non
essere costretta ad umiliarsi ancora, a tornare ancora una volta bambina.
Maledì tuttavia sé stessa e Sasuke, una volta e mille altre volte ancora.
Non sentì il sospiro di Naruto, né i suoi passi che si allontanavano.
Sentì solo calare ancora una volta quel silenzio ovattato.
“Sei uno stupido, Sasuke. Sei uno
stupido. Come potevo capire, io? Come potevo capire tutto da quell’ultimo
sguardo, io? Sei un idiota. Sei tu il vero idiota. Cazzo, cazzo, cazzo,
sei tu il vero idiota!”
Il ragazzo incassò distrattamente il colpo, mordicchiando
un labbro. Assorto. Poi, sospirò.
“Viene qui tutti i giorni, il dobe. Quindi io me ne sto qui.” Fece
spallucce, quasi la cosa non avesse la benché minima importanza. “E aspetto. E
da qualche parte, penso continuassi a sperare che un giorno saresti tornata
tu.”
“…”
“Finalmente, senza piangere.” Soggiunse, a voce così bassa
che se non fosse stato per il silenzio disarmante, probabilmente la donna non
l’avrebbe neppure sentito. “Anche solo per dire ‘va tutto bene, qui’.”
Tu non ci sei più, ma qui va tutto bene lo stesso.
(non
sentirti in colpa)
“…”
“… non è successo. E invece ora sei qui.”
“…”
“… ti odio, Sakura. Dannazione, ti odio.”
Stringendo le labbra in una linea sottile, la donna cercò
a tentoni la mano di lui ma, pur avendola trovata, non riuscì neppure a
sfiorarla perché – in fondo lo sapeva, in qualche parte del suo non
cuore lo sapeva – non aveva alcuna consistenza, quella mano.
E neppure la sua.
Proprio quando avrebbe voluto stringere la mano di Sasuke,
la mano di Sakura non fece altro che attraversarla, come se non fosse stata lì,
e sfiorare il terriccio umido. Senza sentire davvero neppure quello.
“Sasuke… non posso toccarti, io. Vero?”
Proprio quando avrebbe voluto abbracciarlo, chiedendogli
scusa, e poggiare le labbra sulle sue e dire ‘mi sei mancato, dio, mi sei
mancato’, e…
“No.” Mormorò lui, con un tono simile alla tranquilla
rassegnazione, sguardo rivolto verso il basso – verso quelle due mani unite
senza alcun calore, senza alcuna sensazione; sguardo nascosto agli occhi della
donna, che strinse i pugni.
“Siamo solo ricordi, ne? Siamo solo ricordi, noi.”
E fu in quel momento che accettò di essere davvero morta,
e che quello doveva necessariamente essere l’inferno. Nessun incubo avrebbe
potuto fare così male, dopotutto.
“Si prospetta una lunga, lunga giornata.” Mormorò,
stancamente, senza lacrime.
E Sasuke si limitò a schioccare la lingua e alzare
quell’unico occhio al cielo, come ai vecchi tempi.
A/N: Ciurma, ancora non ci credo X°D
…
Ehm, ancora non ci credo. Sto divagando, vero? XD
Fatemi sapere cosa pensate, ne!