Il mare quella mattina del 24 settembre luccicava
più del solito sotto i raggi bianco giallastri dell'alba
imminente.
L'isola di Hachijo splendeva come un puntino
minuscolo e splendente in quella vastità azzurra, un puntino
che si poteva tranquillamente ignorare, dimenticare, sottovalutare.
In realtà quel piccolo fazzoletto di
terra strappato all'oceano, emerso per caso a causa dei movimenti
capricciosi della crosta del nostro pianeta, giù, ancora
più in profondità degli abissi marini, costituiva
un piccolo ecosistema a se, una nicchia speciale in cui la terra e il
mare si toccavano, si abbracciavano, si univano fino a creare un
piccolo miracolo, una sorta di paradiso in terra.
Un paradiso agrodolce per Aya Mikage, che in quel
giorno che stava appena iniziando, compiva 21 anni.
La ragazza bionda si era svegliata presto, con il
cielo che dal blu della notte si stava schiarendo fino ad assumere
quella tonalità fiordaliso che si ha solo al tramonto e
prima che sorga il sole.
Facendo attenzione a non svegliare Miku-chan che
dormiva nel suo lettino, era uscita di casa, le orme sulla sabbia che
dalla porta di casa portavano verso una meta già calcata.
Una meta ancora da calcare.
Le onde dalla cresta luminosa schiaffeggiano con
indolente rabbia la battigia, lasciando rimasugli di acqua bianca
simile a trine di un merletto, simili a placenta divina di una sirena
appena nata, appena consapevole che il suo mondo è il mare e
che non sentirà mai la terra sotto i suoi piedi, simili a
lacrime secche, fiumi prosciugati da una sofferenza e da una pena tale
da essere quasi fisica. Come quelli che si era ritrovata stamattina,
quando si era toccata le guance e le aveva trovate umide e aride
insieme, il frutto di una notte di pianto inconsapevole, mitigato dal
sonno che l'aveva catturata in una rete dolcissima, magnanima,
consolatoria.
La risacca, con il suo boato ritmico simile al
rumore che faceva il cuore di Toya-chan quando poneva la mano sopra il
suo petto, ogni sera, era una dolce ninnananna.
Una ninnananna per una persona che si era appena
svegliata, che aveva ancora gli occhi pieni di croste e le membra
intorpidite e languide.
Poi qualcosa si spezzò, un'ombra che si
muoveva ai limiti del suo campo visivo catturò la sua
attenzione, come di qualcosa in agguato, qualcosa che aveva aspettato
quel momento per destarsi, per
ritornare.
Aya si voltò di scatto verso la casa, la
sensazione di essere spiata che le faceva battere furiosamente ogni
particella del corpo.
L'ombra si spostò, impercettibile,
guardinga, eppure chiarissima.
Per un attimo aveva pensato che fosse un
malintenzionato, e la paura per Miku che dormiva da sola nella sua
cameretta le aveva schiacciato il cuore in una morsa atroce.
Non poteva perdere anche lei, e
stava già per correre preparandosi a sfoderare gli artigli
che le erano cresciuti durante quei due anni di peripezie e drammi che
le avevano cambiato la vita per sempre.
Eppure una voce, una voce che veniva direttamente
dal mare luccicante e remoto, la dissuase.
I passi verso la casa protetta dalle fronde degli
alberi maestosi che la circondavano si fecero pesanti, esitanti,
eccitati.
Era tornato, lo sentiva in tutto il suo essere.
Aya volle godersi quella distanza, volle bearsi del
piacere dell'attesa; poiché quando avrebbe valicato quella
porta il sogno, la certezza che la sorreggeva si sarebbe potuta
incrinare, o peggio spezzare del tutto nell'apprendere che era stata
tutta una sua fantasia, la sua immaginazione che voleva illuderla e
proteggerla allo stesso tempo.
Anche se fece di tutto per prolungare quella dolce
agonia, si trovò comunque davanti quella soglia, l'ombra del
sole nascente che si confondeva con altre ombre, altre
oscurità, altre zone scure, fuori e dentro di lei.
Un rumore, simile al tintinnio squillante e allegro
di un fuukin al vento la guidò verso la sua stanza da letto,
la loro stanza
da letto, dove lei e Toya avevano passato notti felici, notti piene
d'amore, notti piene di dolcezza e totale biunivoca comprensione.
Ma la figura seduta sul letto matrimoniale
così pieno di ricordi non era Toya-chan. No, fortunatamente
non si era sbagliata, non era Toya-chan.
Toya-chan non le avrebbe mai fatto un torto simile,
ritornare dal mondo dei morti come un'ombra senza consistenza, nel
classico cliché che propinano i manga e i film
strappalacrime.
Il Toya-chan che le aveva salvato la vita, che
l'aveva cambiata, per sempre, non l'avrebbe mai costretta a guardare il
suo pallido fantasma, a sentile la sua pallida voce fantasma che le
diceva “rifatti
una vita Aya, io sarò sempre qui con te”,
come se questo potesse consolarla, come se questo potesse bastarle.
L'uomo che toccava con reverenza il cuscino su cui
la ragazza aveva dormito e su cui era impresso il dolore liquido di
quella notte era Aki, il suo adorato Aki-chan.
Aki,che non vedeva dal loro compleanno di tre anni
prima, quando le era apparso in sogno, quando le aveva dato il suo
estremo saluto. O quello che credeva tale.
Per un attimo tutta la sofferenza di quelle ultime
settimane divenne più leggera, più sopportabile,
più umana nella
forma della sagoma del suo fratello gemello, e un po' quindi nella
sagoma di se stessa.
Si osservarono, con circospezione, lei cercando nei
suoi occhi un segno della sua permanenza in un'ipotetica sfera celeste,
lui con gli occhi gentili e intelligenti che ricordava così
bene, così chiaramente, così nostalgicamente.
Poi Aki-chan fece un'espressione buffa, e
l'ilarità che condividevano un tempo, eoni di anni fa,
ritornò tra i due, senza che entrambi l'avessero cercata,
senza che Aya l'avesse voluto.
Il senso di colpa per quel momento di gioia, il
primo dalla morte di Toya e il primo che non avesse avuto lui come
spettatore le fece sprofondare lo stomaco, il cuore che schizzava fuori
dal suo petto e si gettava nel mare per raggiungere quegli abissi senza
fine, senza una fine, ma che erano stati l'inizio della loro unione
prima, e l'inizio della loro separazione poi.
“Hai smesso di ridere Aya-chan. Una volta lo facevi
spesso. Una volta lo facevamo spesso.” Aya si
sentì pizzicare le palpebre, un nuovo fiotto di lacrime che
non sarebbe mai riuscita a contenere, che nemmeno il mare sarebbe
riuscito a contenere.
La sua voce, la voce del suo fratellino era
così uguale, sembrava quasi che non fosse morto, che il suo
corpo non fosse stato posseduto da un folle, che le sue membra non
fossero state lacerate dall'abominio creato con la Manna incompleta.
Tutto questo non aveva fatto presa, non era
riuscito a scalfire l'immagine, e paradossalmente anche la sostanza
più vera di Aki.
Come se tutti gli stravolgimenti, tute le
catastrofi non fossero che un'inezia effimera e sottile, il tepore di
un respiro, un velo da sposa, la consistenza di un spettro, la durata
di un'alba.
“Non ho molto per cui ridere. Tu sei morto,
Toya-chan è morto, papà è morto, le
mie amiche sono morte. Sono circondata da fantasmi che invece di
perseguitami hanno dimenticato. Mi hanno dimenticata.”
Aki non rispose, non disse che non era vero, non
disse che lei era viva e quindi doveva vivere, per la
felicità di tutti, parole che in quel giorno non avrebbe
potuto sopportare.
Improvvisamente un riverbero della luce nascente
del sole si riflesse in modo anomalo sulla superficie del mare, o
questa fu la spiegazione che si diede Aya mentre chiudeva gli occhi
pesti e acquosi per non rimanere accecata.
Ma non poteva essere così, non con il
simbolo di Ceres che simile ad un'ombra cinese si moltiplicava sule
pareti, ancora e ancora.
Anche quando le era stata restituita la Manna,
quando Toya le aveva restituito la Manna per salvarla sacrificando se
stesso e la sua immortalità, la sua invulnerabilità (in
tutti i sensi in cui una persona può essere vulnerabile e
invulnerabile), si era verificato lo stesso fenomeno, lo stesso
bagliore di quella forma senza forma, di quella atavica geometria non
geometrica. In quel momento una veste era stata ricondotta alla sua
proprietaria, e adesso, per il medesimo miracolo, per la medesima
magia, una veste era lì, per lei.
Aki, in piedi adesso, guardava contento verso il
letto, in cui era disteso, senza una minima piega che rovinasse
l'effetto, un bellissimo kimono.
“Cos'è?”
Aya non riusciva a parlare, si sentiva la bocca
piena di farfalle che svolazzavano. Aveva sempre creduto che le
farfalle si sentissero nello stomaco quando si è felici, ma
le sue le battevano tra i denti, sotto la lingua, nella saliva mista a
lacrime inghiottite a forza.
“È un kimono, no? Ma come sorellina, non
ti ricordi che oggi è il nostro compleanno?”
Aki-chan sbuffò divertito, la sua
consistenza che si faceva più solida ad ogni risata.
“È per me?”
“Certo, è il mio regalo per te.
È il nostro regalo per te.”
Nostro.
Per un po' quella parola aleggiò
trasparente nell'aria, oscurata dalle farfalle e dalla bellezza di quel
kimono. Che non era un semplice kimono. Era un kimono homongi,
un kimono da visita dato da un persona che le faceva visita
dall'oltretomba.
Aya non poteva staccare gli occhi da tanta
bellezza. Di pura seta, era di un colore particolare, un rosso
scurissimo, quasi nero, quasi come......
“Vieni più vicino Aya-chan, vieni a
vederlo.”
La ragazza si sentiva come se stesse sognando, come
se stesse camminando nell'acqua. Le gambe molli si muovevano a fatica,
lottando con quella sensazione di chi cerca la felicità, di
chi ce l'ha a portata di mano, proprio lì davanti ma che
sente di non meritarsela, di non poter afferrare, stendere la mano per
toccare quella luce fulva come la luce di un tramonto.
Amore e morte, morte e amore.
Due facce della stessa medaglia, due sentimenti
così contrastanti da essere identici, nella loro
assolutezza, nella loro completezza, nella loro
ineluttabilità.
Ma il kimono chiamava, urlava più forte
di Amore e Morte, voleva essere guardato, voleva essere indossato.
Aya si avvicinò al letto e fu sicura che
dalla parte dove dormiva Toya-chan ci fosse ancora la sua impronta sul
materasso, e il suo profumo nelle lenzuola, che si mischiavano
entrambi, l'impronta e l'odore con le pieghe e il profumo dell'homongi color
sangue secco, color sangue vecchio.
Vecchio di generazioni, vecchio di secoli, un
sangue che sarebbe potuto essere benissimo quello versato nell'ordalia
commessa dal Capostipite nella sua ossessione. Perché amore
e morte erano due facce della stessa medaglia e Mikagi aveva fatto
marchiare a Ceres, sulla sua pelle, entrambi.
Nel riandare ai ricordi del periodo Jomon che Ceres
stessa le aveva fatto risvegliare, che le aveva fatto ereditare, Aya
notò che oltre al marchio divino onnipresente di Ceres
ricamato in oro sull'intera superficie del kimono, e in color sangue
sull'obi dorato annodato nello stile kai no
kuchi, vi
erano decori famigliari, decori antichi o di un'epoca antica che
più del Capostipite e della sua furia primitiva e
devastatrice le richiamavano alla mente un pescatore innamorato di una
dea, e che contro ogni previsione vede ricambiato il suo amore. In quei
ricami c'era speranza, la stessa di Mikagi prima che impazzisse, c'era
l'euforia della passione del primo incontro.
“Si Aya, questi sono da parte di Mikagi. Adesso lui
è in pace, ora lui può essere completo come ha
sempre voluto. Con lei.”
Non c'era nessun odio nella voce di Aki, ne
amarezza per una vita che gli era stata strappata via a 18 anni ancora
da compiere.
“Ma questo regalo non è solo da parte sua
o mia. Osserva attentamente. Il miracolo dell'esistenza di ognuno di
noi è nei dettagli.”
Ci mise un po' a mettere a fuoco l'intera trama di
quel dono inaspettato, perché i suoi occhi erano stanchi,
erano terrorizzati. Per quello che aveva visto quella mattina quando
Toya era morto, per quello che aveva visto dopo quando aveva dovuto
sostenere quelli di sua figlia di occhi, pieni di confusione e uno
smarrimento infantile che è più straziante di
ogni tortura.
Da quel giorno gli occhi di Aya non avevano avuto
più tempo per i dettagli, non avevano più avuto
voglia di vedere il miracolo delle piccole cose, distratti e annientati
dalla portata di quella tragedia così enorme,
così generale nella sua deflagrazione da avere colpito tutto
quello che c'era da colpire, ogni aspetto della sua vita quotidiana,
tutto quanto, indiscriminatamente.
Notare la fattura dei ricami, i particolari delle
cuciture che variavano per ogni parte del kimono fu come riandare in
bicicletta dopo molto tempo. Prima complicato, con Aki che doveva
indicarle le molteplici sfumature ad allegre volute del maemigoro1uscite
dalle mani di Chidori-chan,
“ricordati sempre di sorridere e andare
al karaoke Aya-chan, per non prenderti mai troppo sul serio”;
le spirali quasi aggressive e contorte che Urakawa aveva disegnato su
ogni sode2,lei
che voleva solo un abbraccio, un conforto, un calore sincero; i candidi
e semplici e timidi occhielli di Miori,che costellavano l'intera susomawashi3 “ti
ho sempre ammirato Aya-san, adesso ammira tu il mio dono per
te!”; i cerchi dorati simili a crome e semicrome
piene e vuote che lampeggiavano rockettare e spumeggianti per tutto l'ushimigoro4,ultimo
saluto di Shuro-chan che la proteggeva sempre, che le stava
costantemente dietro le spalle, come aveva fatto per tutta la sua breve
e intensa vita con Aya stessa e con il suo amato Kei.
“Questa è una hagoromo5 di
sangue Aya. Una volta tu restituisti quella che era per Ceres la sua
veste, la sua armatura, la sua essenza più intima. Ora lei
te ne fa dono di una uguale. Di una veste, di un'armatura, di una
essenza che racchiude tutte quelle delle persone che hai perso. Anche
Toya...”
Aya non gli lasciò terminare la frase.
Sangue. Toya.
Quelle parole, che dalla sua morte si erano
inesorabilmente districate e incastrate nella sua mente in un arazzo
pieno di malinconia e rimpianti, ora trovavano un senso. Ora davano un
senso a quel disegno crudele e pieno di violenza e agonia che era stato
l'abbandono di Toya, la tragedia di Toya, e di conseguenza anche la sua
e quella di sua figlia.
Toya aveva dato tutto per lei, tutto quello che
c'era da dare, dal pugnale fatto della sua carne, al sangue versato
durante lo scontro che lo aveva quasi ucciso, all'intero significato
della sua stessa esistenza creata dalla Manna.
Ecco il perché di quel colore.
Rappresentava il sacrificio dell'uomo che aveva amato senza limiti, e
che l'aveva amata senza limiti.
“È il suo sangue vero? Ha voluto
ricordarmi quello che ha fatto per me e io me ne sto qui a piangere
come una stupida!”
Aya toccò la stoffa leggera come
un'illusione non ancora spezzata, non ancora tradita.
“Oh Aya-chan, sapevo che eri a questo punto ma non
avrei mai immaginato che ti sentissi così in
colpa.”
Aki sembrava tristissimo, gli occhi così
simili a quelli della sorella ma con una pena infinita, superiore forse
a quella della sua gemella.
“Che vuoi dire? Ho sbagliato? Toya non vuole dirmi
questo?”
“Credi che Toya ti caricherebbe di un peso simile?
Davvero lo odi così tanto? E credi che lui ti odi
altrettanto?”
Aya smise di respirare; si sentiva scorticata, le
parole di suo fratello che rimbalzavano dolorosamente attorno a lei e
poi tornavano per finire il lavoro, per metterla a nudo, i nervi e le
cartilagini esposte come quelle.....
Non voleva pensarci. Non doveva pensarci.
Ma ormai le farfalle bianche piene di gioia che le
svolazzavano in bocca erano tutte scoppiate, rilasciando un sapore
amaro come la bile che le ritornò su al ricordo di quello
che era stato il giorno più brutto della sua vita.
Un giorno molto simile a questo, un'alba molto
simile a questa. Un'alba che era un tramonto, e che aveva lo stesso
colore. Il colore del sangue.
“Che fai Toya-chan? Ti prego
fermati!”
La figura non nera ma annerita, dal
dolore, dalla sofferenza, dal dilaniarsi nelle sue carni, diresse lo
sguardo angosciato verso di lei e Aya quasi non lo riconobbe.
La sua faccia una volta bellissima come
quella di un modello era piena di piaghe, che si aprivano facendo
uscire una sostanza putrescente e verdastra.
“Non posso vivere così Aya! Non
posso più vivere così. Devi lasciare che io vada
via. Che ritorni al mio.....”
“No! Non ti lascerò Toya. e tu
non mi lascerai. Non ci lascerai. Ti prego, ti prego.....”
Aya piangeva in maniera disgustosa e si
sentiva disgustosa. Sapeva quanto Toya soffrisse, erano dieci giorni
che il processo di putrefazione era iniziato, quello stesso processo
che anni prima da neonato lo aveva fatto crescere in un tempo uguale.
Toya. Dieci notti.
Il vecchio pescatore lo aveva chiamato
così proprio per quello, un nome che era un destino, che era
una promessa e una minaccia assieme.
“È giusto così Aya.
Devo andarmene prima che il mio corpo diventi così
ripugnante che il solo guardarmi ti faccia rabbrividire. Non voglio che
questo sia l'ultimo ricordo che hai di me, e tanto meno che lo sia di
Miku-chan.”
“Anche così! Ti voglio
anche così Toya. Non
abbandonarmi!”
I singhiozzi si erano fatti forsennati,
come se la sua vita e quella di Toya-chan dipendessero da quello, da
quante lacrime avrebbe potuto versare.
Versare per uguagliare l'acqua del mare,
la tomba che Toya si era scelto; il suo mare, che non aveva mai
dimenticato e da cui non era stato mai dimenticato.
“Ma io no, Aya. Io no!”
La guardò con fierezza, e
orgoglio e amore.
“In fondo l'alba è perfetta per
andarsene. È perfetta per una morte, e anche per
ricominciare a vivere.”
Quelle frasi crudeli erano state dette con
dolcezza, con la stessa dolcezza dei suoi baci, delle sue carezze, del
suo corpo caldo quando entrava dentro di lei e si fondeva con lei.
Un senso di amarezza e di impotenza
avvolse la ragazza, che indietreggiò per allontanarsi da
lui, per lasciargli spazio per quello che stava per fare, per lasciare
spazio al lutto che invece lei stava per affrontare.
Il mare sbuffava irrequieto, nervoso, come
se avesse aspettato troppo a lungo; le onde scure come inchiostro si
facevano beffe del suo pianto, divorando tutti i suoni dell'universo
che faceva da sfondo a quella tragedia, mentre Toya si faceva largo con
le braccia emaciate e piene di pustole sanguinolente come se volesse
invece trovare sollievo proprio in quelle acque salate, brucianti, un
inferno liquido che per lui era un Paradiso. Sicuramente un posto
migliore per morire che le l'abbraccio della donna amata,
pensò Aya con un punta di amarezza che divenne una voragine
nel giro di tre secondi.
Mentre il sole sorgeva e tutto intorno a
lei diventava più scuro, tenebroso come la pece, quel
risentimento trovò uno spazio,una nicchia piccola e
confortevole che lo avrebbe cullato come un dono malefico,nato dalla
sofferenza rabbiosa,dalla vergogna dell'impotenza,da occhi che si
rifiutano di incontrarsi perfino nell'estremo saluto.
Poiché Aya, all'ultimo momento,
si voltò, per non vedere lo scempio del suo corpo solido,
muscoloso, duro e morbido al contempo che aveva amato tante volte
sciogliersi in acqua come in un bagno di acido corrosivo.
E Aya in quel momento sentì
proprio questo, un lento e viscido logoramento che non lasciava spazio
a più nulla, se non il compiacersi della propria anima che
andava in pezzi.
“Aya, quello scrittore americano.......ti ricordi la
lezione di letteratura straniera di quattro o cinque anni fa,
Hemingway-sama. Bene, lui ha detto che nei punti in cui veniamo fatti a
pezzi, proprio lì diventiamo più
forti.” Aki-chan pareva aver condiviso il suo ricordo, come
se ci fosse dentro come lei aveva fatto con Ceres anni prima, anzi come
se lui lo avesse evocato, per un fine che le rimaneva ancora oscuro.
“Questa è una hagoromo di
sangue Aya-chan. Di sangue,” ripeté ostinato, come
se lei fosse una bambina che si rifiutava di capire la lezione.
“Me lo hai già detto. So che il sangue di
Toya macchia le mie mani. Credi che non ci faccia i conti tutti i
giorni? Credi che non sappia che è tutta colpa mia? Avrei
dovuto impedirgli di darmi la Manna, avrei dovuto impedirgli di
suicidarsi, avrei dovuto.....”
“Aya, apri gli occhi! Il sangue è
energia, il sangue è come l'energia. E cosa fa
l'energia?”
“Ma che stai dicendo? Vuoi farmi una lezione di
fisica? Ti sei scomodato dal paradiso celeste per questo?”
“Mi rispondi?” Aki quasi urlò.
Non lo aveva mai visto così arrabbiato, il dolce e
tranquillo Aki sempre paziente e gentile con tutti, sopratutto con lei.
“L'energia non muore, ma si trasforma.
Contento?”gli rispose con una smorfia di disappunto.
“Vedo che le mie ripetizioni ti sono servite! Ho
passato un'intera estate a insegnarti i principi della fisica, e ho
anche rinunciato ad andare con i miei amici a Nigata.”
“Ancora me lo rinfacci!”
Ma Aki non la guardava più. Il suo volto
era fisso sulla porta della camera alle spalle della sorella.
Quando Aya si voltò vide Miku-chan che
si strofinava gli occhi cisposi e sbadigliava, la bambola regalata dal
padre, che si trascinava sempre dietro, tenuta per un braccio e e
penzolante in maniera quasi commovente.
“Mammina, lo festeggiamo il tuo compleanno oggi? Io
voglio la torta, e voglio cantarti la canzoncina come faceva il
papà.”
Le iridi di sua figlia non si appuntarono mai sulla
figura vicino alla madre, come se non la vedesse.
E non la vedeva sul serio, perché Miku
in quei giorni non vedeva nemmeno Aya.
Miku in quei giorni vedeva solo il suo
papà. Lo vedeva senza vederlo, il che doveva essere ancora
più frustante per una bambina così piccola.
Ma quella mattina dopo tanto tempo sua figlia la
guardava direttamente negli occhi, senza il velo dell'abbandono e della
morte che non riusciva capire ad offuscare il loro rapporto; in quanto
ad Aki non poteva arrivare a percepirlo. Aki era lì per
Aya-chan, solo per lei, era il suo miracolo di compleanno.
“Certo che facciamo una torta. Ci mettiamo le
fragole e le more che ti piacciono tanto!” Aya sentiva di
nuovo di stare per scoppiare a piangere ma sentiva che sua figlia non
avrebbe dovuto assistere a quell'ennesimo sfogo. Non quel giorno, non
con Aki-chan presente che sicuramente l'avrebbe sgridata, non con il
sangue di Toya e delle altre che macchiava il suo letto.
“Ora vai a fare colazione, io ti raggiungo tra
poco.”
Cercò di nascondere il kimono, aveva
paura di farlo vedere a Miku, aveva paura che anche lei potesse darle
la colpa della morte del padre.
“Aya Aya, non ci hai proprio capito niente! Eppure
ce l'avevi sotto il naso, lo hai sempre avuto sotto il naso. Guarda
questi ricami, sono delle firme. Di persone che ti vogliono
così bene che si offenderebbero che sapessero che tu ti
senti responsabile della loro sorte. E si offenderebbero ancora di
più se sapessero che reputi questo regalo come un modo
macabro per ricordartelo.”
“E cosa dovrei pensare allora?”
Le spalle di Aki erano afflosciate, e sembrava
anche più trasparente.
“E' tutto così ingiusto! Se solo potessi
arrivare al tuo cuore come facevo quando ero vivo, se solo potessi
dirti che la morte non è come crede la gente, che non
è la fine. Questa tragedia si sarebbe potuta evitare se la
brama di potere e le vecchie tradizioni non avessero costituito le
fondamenta della nostra famiglia. Se l'ossessione del Capostipite non
avesse....”
“Ti sbagli Aki.” Aya sentiva il calore del
sole ormai quasi sorto del tutto, ormai quasi partorito del tutto dal
mare e dal suo orizzonte sconfinato, ”quando Toya stava
per.....stava per tornare al suo mare io l'ho odiato. Non l'ho mai
odiato ne l'ho mai amato come in quel momento. E so che per lui era lo
stesso. Solo adesso capisco la brama di Mikagi, solo ora che l'ho
provato sulla mia pelle e sul mio cuore comprendo la sua profonda
amarezza e il suo quasi aberrante attaccamento per Ceres. Toya-chan ha
sofferto per giorni, di una sofferenza atroce e umanamente
insopportabile. E lo ha fatto solo perché io non ero pronta
a lasciarlo. E non ero pronta nemmeno quando lui non ne ha potuto
più. A me non importava che lui stesse male, non volevo
stare male io, avei preferito che lui continuasse in quello stato di
tormento piuttosto che fare a meno di......”
Bollenti fiotti rotolarono giù
inondandole la faccia. Non lacrime di dolore, o di rabbia, ma di
vergogna e perdono.
“No Aya-chan, tu non lo odiavi e Toya non ti odiava.
Odiavi la sua morte che sarebbe avvenuta e lui odiava la tua vita che
sarebbe continuata. Ma l'odio è come la morte, sono fatti
della stessa pasta, effimera e non più consistente del
battito delle ali di un angelo. Ma l'amore è come il sangue,
è come l'energia. Non sparisce, si trasforma e rimane, in
forme che sono firme, che sono l'anello della catena che ci mantiene
qui, ora, in un presente che è luminoso come un'alba.
Un'alba perfetta per chi va e chi resta.”
Aya appuntò di nuovo gli occhi sull'homongi,
così brillante come una promessa solenne, di giustezza, di
felicità, e di un nuovo ed antico incontro. Come la promessa
suggellata da quella conchiglia che lei da bambina, su quella stessa
spiaggia, aveva dato al ragazzo sconosciuto che però era
già una parte di lei, e lei di lui.
“I suoi capelli. I capelli di Toya-chan.”
Guardò bene il kimono, per accertarsi che non stesse
cercando una scappatoia, una via di fuga.
Aveva sbagliato tutto, o perlomeno non ci aveva
azzeccato del tutto. Il sangue di Toya non era quello versato per lei
ma era il sangue che le aveva lasciato.
Quel rosso talmente scuro da sembrare nero era lo
stesso dei capelli di Toya, quei capelli che lei accarezzava e dove vi
infilava le dita per sentire la forma del suo cranio, con lui che
sospirava di piacere per quel contatto che sapeva di
eternità.
Quei capelli che erano gli stessi di Miku.
Miku-chan,che era la sosia di Toya, che era Toya,
che era lei e Toya uniti, e uniti ancora fino alla fine dei tempi e
delle generazioni dei Mikage e del sangue della Dea Celeste.
“E meno male che ci sei arrivata Aya. Come al solito
devo sempre spiegarti tutto io.”
“Ma piantala Aki-chan. Avresti potuto dirmelo.
Avresti dovuto darmi dei cazzotti per farmelo capire prima.”
“Dovevi capirlo da sola, è
così che succede nei film e nei manga, no? L'eroina deve
superare le sue paure e le sue incertezze. Toya ti ha lasciato quanto
gli era di più caro, non sua figlia, ma vostra figlia. Tutto
quello che ha fatto non lo ha fatto per te, o almeno non solo. Lo ha
fatto per lui, per se stesso, per la sua felicità insieme a
te, non spinto da te o dalla Manna che era in lui. Niente disegno,
niente destino Aya. Solo amore, quello che ti fa smettere di respirare
quando l'altra persona ti guarda negli occhi o ti parla, quello che ti
fa fare cose assurde che vanno contro tutti i piani e tutte le regole.
L'amore non è destino, l'amore è l'opposto del
destino. È attimo eterno.”
Le loro mani, così simili, si toccarono.
Aki-chan sembrava quasi vivo, concreto e per un istante Aya quasi
credette che la scena straziante sulla barca di tre anni prima fosse
solo un incubo, lo scherzo di un kami crudele e che sarebbe evaporato
come la bruma al mattino.
“Io non so quando potrai, quando riuscirai ad andare
avanti, ne quando tornerai indietro. Perché Aya, ti assicuro
che ci saranno giorni, anche se ti sembrerà che tutto sia
tornato come prima o quasi, che qualcosa, un odore, un suono o una
particolare sfumatura del cielo ti riporteranno a questo dolore, e ti
sembrerà di avere perso quel barlume di serenità
ritrovata. E poi rinizierai di nuovo a sentirti meglio.” Aki
era implacabile nel suo esame, nella sua predizione, nella sua speranza.
“Quando finirà fratellino? Quando? Toya
mi manca così tanto!”
“Non finirà Aya-chan, non
finirà. Diverrà una parte di te, una parte
bellissima di te, una parte che nel momento in cui ritroverai Toya ad
aspettarti, e lo rivedrai stanne certa, sarà la migliore che
lui potrà capire, che potrà amare. Se ti chiedi
perché sono venuto,con questo dono, beh non è
stato quello di spronarti, o quello di biasimarti. Sono qui
perché sei la mia sorellina, perché è
il nostro compleanno e anche per ricevere un regalo che tu neanche mi
hai fatto!”
Aki-chan mise un finto broncio mette se la rideva,
un pallido tentativo di alleggerire quell'atmosfera piena di opaca
malinconia e di un senso di solitudine che traspariva da ogni fibra
della ragazza che gli stava di fianco.
Aya non rispose subito, anche se aveva cambiato
espressione.
Qualcosa si era svegliato in lei, sembrava la
vecchia Aya mentre ne stava combinando una delle sue, con un'aria
furbesca di chi nasconde un segreto.
“Forse potrei avere anche io un regalo per
te.”
Prese la mano del fratello e se la portò
sotto il maglione, per poi posarla sulla sua pancia leggermente
arrotondata.
Aki sbarrò gli occhi, con le farfalle
bianche che nuotavano nelle sue iridi e le fossette che ricordava
così bene.
“Sarà un bambino Aki-chan, un bambino che
ti somiglierà e che porterà il tuo nome. Toya mi
ha dato Miku e io ti dò tuo nipote Aki. Sono sicura che suo
padre capirebbe, e approverebbe.”
“Tu non sai quanto mi hai reso felice sorellina. Una
nuova generazione di Mikage che sfideranno il mondo. Insieme.”
Aya annuì e guardò il kimono,
non più guardinga, ne quasi paralizzata dal suo splendore,
ma grata che tante persone avessero pensato a lei, in quel giorno, e
che continuassero a farlo per il resto dell'anno. Per il resto degli
anni che l'avrebbero separata ancora da loro.
“Ora indossalo e fallo vedere a tua figlia. Dille
che è da parte di suo padre, di suo zio, delle sue ziette e
dei suoi antenati celesti. Dille che lei è il nostro futuro
e che non deve mai dimenticare che è la figlia di Aya
Mikage, la persona più forte che abbia mai
conosciuto.”
Ora era Aki-chan che piangeva mentre gli occhi
della sorella erano asciutti, aperti su tutto ciò che era
davanti a lei e pronti per affrontarlo. Compresa la consapevolezza che
Aki stava per andarsene, che stava diventando sempre più
trasparente, il residuo di un sogno bellissimo che non vorremmo mai
interrompere ma la cui fine è necessaria per tornare alla
realtà.
Per ritornare alla vita.
1Parte
anteriore del kimono.
2Manica
del kimono.
3Fodera
interna del kimono.
4Parte
posteriore del kimono.
5Veste
di piume
|