BB-Terra
La
stanza era avvolta dall’oscurità,
impercettibilmente
rischiarata da centinaia di tremolanti puntini fluorescenti che
galleggiavano
sul soffitto; il silenzio governava dal suo trono ovattato, avversato
solo da
qualche sospiro sovvertitore. Sentiva il freddo del metallo fra le
zampe e il
calore delle lacrime, rimaste imprigionate nel pelo che gli ricopriva
il muso
canino, le membra intorpidite e la mente sfiancata dalla pellicola che
continuava ad essere proiettata, ancora e ancora, all’interno
delle palpebre
serrate.
“Ti fidi di me?”
“Più’ di chiunque altro”
Una risata, un abbraccio, dello zucchero filato, le luci della ruota
panoramica.
Due stelle tornano a brillare, sente il suo odore inebriargli i sensi,
le
labbra così pericolosamente vicine, a un sospiro di
distanza.
Pronti a respirare insieme come un unico polmone.
Quella voce metallica gli risuona nelle orecchie, gli occhi increduli.
Rabbia primitiva, il rame in bocca.
Un’esplosione, confusione e diniego.
Specchi rotti, schegge nella carne.
Dolore di una lotta
disperata.
Verità violentata.
“Sei sola”
Tenebre.
Uno spasmo viscerale lo riportò alla
realtà, con uno scatto si ritrovò
seduto, gli occhi
sbarrati e sudore
freddo a imperlagli le sottili labbra ora nuovamente umane.
Arrivò carponi alla
fine del letto, poi si sporse in avanti il più possibile,
quasi fino a cadere
giù, per raggiungere il cofanetto a forma di cuore, che era
stato sbalzato a
terra dal brusco movimento. Se lo poggiò in grembo e
sollevò il coperchio,
guardandosi nello specchio al suo interno: Occhiaie scure gli
contornavano gli
occhi arrossati dal pianto che gli rimandavano lo stesso sguardo, vacuo
e
spento. Si portò una mano al volto tastandosi una guancia,
giusto per
assicurarsi di non essere solo l’ennesima ombra fluttuante in
quella stanza dei
rimpianti.
Si
alzò lentamente, come se ogni
arto fosse di piombo, e si trascinò cercando di non
inciampare nel buio fino ad
un basso cassettone, su cui era stato ritratto il deserto. Tese le dita
verso
uno dei quattro cassetti, ma la mano rimase penzoloni a
mezz’aria. Sopra alla
cassettiera posava una cornice, una semplice
e sottile cornice nera, ma, attraverso lo strato di
polvere alzatasi
durante il combattimento della notte precedente che la ricopriva, si
potevano
intravedere due macchie di colore: giallo e verde. La prese con mano
tremante e
spazzò via lo sporco. Un singulto lo costrinse a distogliere
lo sguardo dalle
facce sorridenti e immobili custodite dalla cornice. Respirò
a fondo, serrando
gli occhi, il più stretti possibile.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Arricciò il labbro superiore, digrignando i canini
appuntiti.
Come se funzionasse, ripetersi parole vuote.
Infatti, sono un veleno dal dolce sapore, ingannevoli.
Sospirò profondamente e rimise la foto al suo posto; aprì il primo
cassetto, dentro c’erano pochi
abiti: qualche tuta, un jeans scolorito, un paio di top e due felponi.
Vi passò sopra i polpastrelli con esagerata delicatezza,
come se, anche loro,
potessero spezzarsi ; sollevò una delle felpe: era giallo
senape,
esageratamente larga e scolorita qua e là in
prossimità delle cuciture.
Se la avvicinò al volto, inspirandone il profumo.
Come in una stramaledetta commedia per
femminucce.
Un fruscio lo distolse dal prezioso capo
d’abbigliamento che teneva fra le
mani, facendolo voltare:
La figura in piedi nel corridoio, dietro alla cui solita
impassibilità si
nascondevano rabbia e dolore, attese sulla porta, in segno di rispetto,
finché
non le fu fatto cenno di entrare.
Si mosse cauta nella stanza, con pennellate di disagio e disgusto negli
occhi,
senza però mai abbandonare la propria compostezza, fino a
raggiungere il letto,
dove si sedette stando ben attenta a mantenere la maggior distanza
possibile dal
cofanetto a forma di cuore.
E lì rimase, seduta, immobile, senza proferir parola, ad
osservarlo.
Passarono secondi, attimi, minuti.
Ma mai si girò a guardarla.
Mai, fino a quando non ebbe raggruppato col cucchiaino il resto di se.
Devo ricostruire.
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Azzurro
e oro le arricchivano il volto dall’espressione corrucciata
che la osservava di
rimando dallo specchio: opaco e macchiato, segnato da crepe in un
angolo e
scheggiato qua e là. Un mano affusolata si levò e
andò ad accarezzare,
delicata, la chiazza violacea che spiccava su uno zigomo dalla pelle
cerea. I
suoi delicati lineamenti si contorsero in una smorfia di dolore. Ma non
erano certo
i lividi a far sussultare i suoi nervi, perché, quelli,
sarebbero presto
svaniti, mentre le parole, loro sarebbero rimaste seppellite dentro di
lei e
sarebbero tornate a riecheggiarle nella mente; a tormentarla, ad
alimentare il
fuoco che le bruciava carne e ragione. Appoggiò le mani sul
mobiletto metallico,
con incastonato un vecchio rubinetto, posto sotto allo specchio e
respirò a
fondo cercando di schiarirsi la mente, offuscata dai troppi
avvenimenti,
irrotti nella sua
vita come tante
piccole calamità.
Chiuse gli occhi, svuotò i polmoni e lasciò il
timone alla sua mente.
Fiducia insanguinata.
Scappa, ma il suo dovere riflesso in uno specchio le schiaccia il
petto.
Fugge, bastano delle foto per dimenticare, basta una giostra per non
pensare.
Basta una promessa
per respirare
insieme.
Ma dalla realtà non si fugge.
E’ inerme.
Quale fiducia devo spezzare?
Verità rigettata.
Specchi, specchi.
Riflessi, rilessi.
Non bastano parole a rimediare?
Schegge di una promessa in frantumi.
“Sei sola”
Tenebre.
Ora, una calma malsana la pervadeva. Attraversò la
stanza fino ad arrivare
al tavolo, anch’esso metallico, pieno di carte e ordigni e
congegni di vario
tipo. Afferrò nel palmo della mano un piccolo oggetto
rotondo e giallo, con in
cima una spessa e
bassa antenna. Passò
il pollice sulla “T” impressa in bianco
sul nero dello sportellino e soppesò il comunicatore
passandoselo da una mano
all’altra più volte. Non era il suo: serviva per
monitorare i suoi cari, vecchi
compagni; quello era del suo vero e fedele ed unico
amico. Osservò ancora il piccolo
trasmettitore poi, scrollando le spalle e incurvando le labbra in un
ghigno, lo
frantumò nel proprio pugno, non lasciando altro se non pezzi
di plastica e
circuiti rotti.
Rilassò le dita e lasciò cadere i frantumi sul
tavolo. Rimase qualche secondo
ad osservarli, lo sguardo vacuo ed una crescente compiacenza alimentata
dall’disprezzo nascosta dietro alle iridi ghiacciate.
Con calma ritornò davanti al rubinetto e accese
l’acqua, mettendo le mani sotto
al getto gelato per lavare via il poco sangue che fuoriusciva da un
taglio
sulla mano. Prese il frammento di vetro un tempo appartenuto allo
schermo del
comunicatore e lo tirò via, senza battere ciglio.
Osservò il sangue gocciolare nel lavello e poi sparire
giù per lo scarico.
Tanti, i ricordi che le turbinavano nella mente, ma non permise a se
stessa di
cogliere la loro malinconia.
Sei padrona della tua mente, decidi tu.
Sei padrona della tua mente, decidi tu.
Sei padrona della tua mente, decidi tu.
Rilassò i muscoli e riaprì gli occhi, che nemmeno
sapeva di aver serrato.
Come se non fosse vero, che la verità non si cambia.
Infatti, la verità si manipola, inconsciamente.
Sfilò il fermaglio a forma di farfalla e lasciò
che una ciocca di capelli le
ricadesse sul volto, coprendole un occhio.
Più somigliante al maestro,
più vicina
alla disumanità, più simile a ciò che
voglio essere.
Si asciugò le mani su di un asciugamanino bianco slavato e
rimase ad osservare
la stanza vuota, vuota come al solito. Vuota come il suo letto, che il
suo
mentore lasciava il prima possibile, compiaciuto mentre attraversava la
camera
e si chiudeva la porta alle spalle, senza mai rivolgerle lo sguardo.
Sparpagliò se stessa come
le carte in un
casinò.
Eppure, si sentiva comunque meno sola di quando era amata.
Devo sterminare
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