I’m
coming home
I'm coming
home
I'm
coming home
Tell
the World I'm coming home
Let
the rain wash away all the pain of yesterday
I
know my kingdom awaits and they've forgiven my mistakes
I'm
coming home, I'm coming home
Tell
the World that I'm coming
Back
where I belong, yeah I never felt so strong
Il
mondo era una scacchiera.
Le
pedine erano i fenomeni naturali dell’universo in cui erano
stati
collocati e il gioco, come la vita, era governato da una serie di
regole. Si dava sempre per scontato di avere il bianco, di poter fare
la prima mossa, ma non possiamo esserne certi, perché
l’avversario,
chiunque sia, è perennemente nascosto. Nessuno poteva avere
l’assoluta convinzione che niente sarebbe andato per il verso
sbagliato o che, alla fine, non avrebbe avuto alcun verso affatto.
John aveva pensato, stupidamente, che dopo aver avuto il periodo
più
buio che potesse immagine, dopo il ritorno a Londra come conseguenza
del colpo di proiettile alla spalla, niente potesse più
andare
storto perché aveva trovato il suo piccolo luogo felice e,
tra più
di sette miliardi di persone, esso aveva scelto di stare vicino a lui
e di non scappare lontano. Quanto era stato ottuso, anche solo a
credere che la sua vita potesse andare tutta in discesa.
John
si leccò le labbra aride, rafforzando la presa sulla pistola,
con le
mani madide di sudore, osservando dritto davanti a sé.
Erano
passate due settimane dalla morte di Sherlock Holmes e sembrava che
tutti, o quantomeno chi si trovava attorno a lui, avessero
dimenticato di quel terremoto emotivo che aveva percosso il mondo per
poi lasciarlo tristemente in silenzio. John aveva davvero provato ad
andare avanti con la sua vita: non aveva abbandonato il suo lavoro,
aveva affittato un bilocale in periferia e faceva compagnia alla
signora Hudson, mai al 221. John aveva davvero cercato di farcela, ma
si ritrovava sempre con in mano degli Iris, davanti a una tomba che
diventava appena sfocata, ai suoi occhi, quando i ricordi lo
inondavano senza alcuna pietà.
Serrò
gli occhi, lasciando che tutti i sentimenti tacessero, facendo spazio
solo alla rabbia per colui che aveva osato, che sia dannato per
l’eternità!, portargli via la sua vita. Strinse le
palpebre e gioì
nel sentire l’adrenalina scorrergli nelle vene come acqua di
sorgente. Era lì, non se n’era andata. Era
lì, non se n’era
andato.
Sparò.
Incominciò a sparare e non si accorse nemmeno di avere gli
occhi
incollati al bersaglio, metri davanti a lui, mentre il suono della
pistola veniva attutito dalle cuffie protettive.
La
sua terapista, per una buona volta, aveva azzeccato il rimedio
perfetto per il suo stress emotivo, per il suo “continuo
negare la
realtà, per quanto dolorosa possa sembrare”. Gli
aveva consigliato
di andare ad un tiro a segno per sfogare tutto ciò che, a
parole,
non riusciva a esprimere. John aveva gli agganci giusti, per quel
genere di cose. Un suo ex commilitone era riuscito a farlo entrare
senza troppi problemi e ora, davanti a una sagoma di carta a forma di
uomo, John si sentiva vivo, con uno scopo.
Chiuse
gli occhi nuovamente, ricaricando la pistola alla cieca. Si
focalizzò
su chi odiava di più, su Moriarty. Rivide il suo ghigno
beffardo, le
sue menzogne scavate nel profondo, rivide i mirini rossi puntati
addosso a John e poi addosso a Sherlock. Rivide Sherlock che arrivava
ad essere una falena, troppo vicina alla luce. Come una serie di
flashback potenti, John si trovò in mezzo ad una strada, con
un
cellulare alla mano e una preghiera in testa. Osservò
Sherlock, solo
e triste sopra quel tetto, troppo lontano perché potesse
toccarlo,
rassicurarlo che tutto sarebbe andato per il meglio. Odiò
Moriarty
per avergli fatto quello. Lo odiò per avergli fatto dire
cose
terribili proprio prima che il suo migliore amico morisse, in un
asettico laboratorio. Quel sentimento lo devastò
così tanto che si
ritrovò a scattare come un animale, scaricando un intero
caricatore
contro il cuore immaginario della sagoma. Respirò
affannosamente,
togliendosi gli occhiali protettivi e asciugandosi il sudore.
Quindici pallottole al petto e una alla testa; la sua presa militare
non era del tutto appassita, quindi. Posò la pistola sulla
mensola,
sentendo dentro di sé nient’altro che vuoto, come
un infinito buco
nero che risucchiava tutto, anche la sensazione di soddisfazione
riguardante la mira lodevole.
Qualcuno
aveva mai amato così tanto da dare un braccio? Non
l’espressione,
ma dare letteralmente un braccio per quella persona? Quando sai che
una persona è il tuo cuore e lei è la tua
armatura, quando sai che
distruggerai chiunque che proverà anche solo a ferirla. John
lo
aveva provato, quel sentimento, ma era stato così sciocco da
ignorarlo, fino ad essere in ritardo, inesorabilmente in ritardo; la
sua felicità gli era scoppiata davanti senza alcun preavviso.
John
rimase fermo immobile, beandosi del rumore degli spari delle altre
persone affianco a lui, con la mano sinistra che tremava leggermente
accanto alla sua coscia.
Solo
due settimane, si diceva, ma passerà, potrai andare avanti.
John si
auto convinceva, credeva che pian piano la sua anima militare, quella
che l’aveva sempre caratterizzato, sarebbe emersa, salvandolo
da
quel limbo infernale, dove non sentire nulla era peggior del dolore.
John parlava tra sé e sé, ma non era uno sciocco.
Si
sarebbe ritrovato ogni giorno con in mano degli Iris, ricordandosi
del bellissimo colore degli occhi di Sherlock. Avrebbe sfiorato del
marmo nero con i polpastrelli, avrebbe sorriso anche quando sarebbe
stato triste, avrebbe riso anche quando dentro di sé avrebbe
voluto
piangere.
Appena
uscito da quell’edificio avrebbe chiamato Lestrade, gli
avrebbe
offerto una birra. Avrebbe aspettato Mrs Hudson in fondo a Baker
Street e l’avrebbe portata al parco dove Mike Stamford
l’aveva
fermato per parlargli di Sherlock. John avrebbe ridipinto i muri del
suo monolocale di verde pastello e sarebbe andato a dormire
abbracciando un teschio senza significato, ricoperto da una sciarpa
blu che aveva tutti i significati del mondo.
John
avrebbe mostrato la sua anima da soldato, ma tenendo segreto che era
stata miseramente sconfitta da un fantasma.
Erano
passati tre mesi dalla morte di Sherlock Holmes e John si ritrovava
ancora tutte le sere, finito il suo turno di lavoro, davanti alla sua
tomba, a pregare. Non che fosse un uomo di chiesa, ma John pregava
per Sherlock, non per se stesso. Sperava che trovasse degli ottimi
casi anche in paradiso, che non sparasse tra le nuvole quando fosse
annoiato e che continuasse a pensare a lui, come John faceva
continuamente.
Fu
un giorno di dicembre che successe, la prima volta.
Era
sera inoltrata ed era appena tornato al suo appartamento, guardando
svogliatamente la cucina ancora perfettamente linda e ringraziando
che il suo stomaco si fosse chiuso minuti prima, visto che non aveva
nessuna voglia di cucinare. Si sedette sul sofà, accendendo
la
televisione e scegliendo un film per ragazzi. Si strofinò il
volto,
sospirando: una vita peggiore non poteva esistere.
“Spero
tu abbia finito di commiserare te stesso, John.”
Sobbalzò,
ruotando la testa. Il respiro gli si bloccò in gola.
Sherlock era
poggiato con la schiena contro il muro, il lungo cappotto che lo
contraddistingueva lasciato aperto, a mostrare il completo elegante.
Lo fissava con i suoi penetranti occhi blu, un sopracciglio appena
inarcato, a sottolineare il suo disprezzo. John restò
paralizzato
per interi minuti.
“C-come…è
possibile?”
“Non
lo è, infatti. John, ti sei già arrugginito, sono
così deluso.”
John strinse forte la presa contro un cuscino, schiarendosi la gola.
“Sei
morto.”
“Perfetta
deduzione.” John chiuse gli occhi, prendendosi la testa tra
le
mani.
“Non
sei reale, Dio, non lo sei.” Sussurrò, aprendo un
occhio solo per
accertarsi che fosse ancora lì e non scomparisse nel nulla,
lasciandolo nuovamente solo.
“La
tua fragile mente, a quanto pare, desidera vedermi così
tanto da
deformare la realtà che ti sta attorno.”
Pronunciò con tono
saccente, incominciando a girare per la stanza, osservando qualunque
cosa.
“Io
non ti voglio qui, non voglio diventare pazzo.” Sherlock si
fermò
davanti a lui, guardandolo dritto negli occhi. Gli mancava da morire,
gli mancava tutto di lui. Gli mancava così tanto da non
riuscire più
a vivere.
“E’
una tua scelta, John. La mente è la tua. Io sono qui per tuo
volere,
tu mi vuoi.”
“Non
ti voglio così.” Gemette, cercando di toccarlo.
Sherlock si
ritrasse immediatamente, pochi passi più indietro.
“Sai
cosa succederebbe se lo facessi, non essere idiota.”
“Lo
sono sempre stato, per te.” Sorrise appena e Sherlock fece lo
stesso, facendo sì che gli occhi diventassero più
lucidi.
“Non
tornerai da me?”
“Non
vedo come potrei.” John reclinò la testa
all’indietro, stanco.
Non voleva questo, per la sua vita. Non voleva aggrapparsi ad
un’ombra pur di sopravvivere, la sua dignità non
l’avrebbe
accettato. La sua mente, però, sembrava pensare tutto il
contrario.
“Vai
a letto, John.” Sherlock si sedette su una sedia, muovendo le
dita
sul tavolo, come se stesse suonando il pianoforte.
“E
tu?”
“Io
resterò qui, fin quando lo vorrai.” John
annuì, voltandosi ed
andando in camera sua. Si guardò intorno, osservando quelle
pareti
spoglie color verde pistacchio con sprazzi di muffa qui e
là, prima
di decidere a prendere una coperta e il teschio con la sciarpa,
tornando in soggiorno. Si sdraiò sul piccolo divano,
appoggiando la
guancia contro il cuscino, non perdendo di vista Sherlock.
“Dovresti
davvero lasciarmi indietro, John. Io vorrei così.”
John strinse
forte i pugni, sentendo il sonno intorpidirgli il corpo lentamente.
“Ci
sto provando.” Mormorò, chiudendo gli occhi piano.
L’ultima cosa
che sentì, fu la risata appena accennata di Sherlock.
“Menti
a te stesso, John Watson, e questo non ti porterà a nulla di
vero.”
“Sherlock,
potresti prestarmi ascolto per un secondo e smetterla con quei
dannati esperimenti?” John sbuffò, pestando il
piede ritmicamente
sul pavimento del suo soggiorno.
“E’
importante.”
“Anche
la mia domanda, quindi gradirei una risposta.”
Camminò per la
stanza, apparecchiando il tavolo per due persone.
“Non
so come sia il paradiso, per la semplice ragione che non ci sono mai
stato. Sono solo una produzione del tuo cervello fantasioso.”
John
strinse i denti, bloccandosi a guardare la schiena del consulente
investigativo.
“Potresti
smettere di dirlo?”
“La
verità brucia come le bugie che poni di fronte ai tuoi occhi
per
nascondere la verità cruda e nuda.” Prese un
respiro profondo,
sedendosi sulla sedia vicina a lui.
In
quei due lunghi mesi in cui John aveva incominciato a vedere
Sherlock, solo nell’intimità della sua casa, non
si erano mai
toccati o semplicemente sfiorati. John avrebbe voluto, certamente, ma
sapeva che era l’unica regola che smascherava il trucco e,
ogni
giorno, si diceva che si sarebbe fatto forza quello successivo, senza
mai provarci veramente. Stavano bene, in quel modo, nonostante
Sherlock non la smettesse di essere un migliore amico acido nemmeno
nella sua testa.
“Voglio
solo sapere se ti ha fatto male.”
“Quando
me ne sono andato avresti solamente dovuto andare avanti,
ricordandomi come una bella esperienza finita in una tragedia di poco
rilievo.” John sospirò, guardando fuori dalla
finestra. Non era
quello che voleva sentirsi dire.
“Ma
sappi che ti sto guardando da lassù e sto sorridendo. Io non
ho
sentito nulla quindi tu non dovresti sentire il mio dolore.
Solo…sorridi anche tu.”
Si
asciugò in fretta due lacrime ribelli, prima di alzarsi e
andare a
dormire senza cena.
Quella
storia avrebbe dovuto raggiungere il termine, al più presto,
o
sarebbe diventato pazzo. O peggio, senza speranza per il futuro.
“John,
scusa se ti disturbo.” Una donna dall'aspetto esile con mossi
capelli neri entrò nel suo studio, sorridendo timidamente.
“Ci
sarebbe un nuovo paziente per te, ma ha detto di non avere un
appuntamento. Mi sembra piuttosto importante, lo faccio
entrare?”
John la guardò e la riconobbe come Mary Morstan, la nuova
assistente
che gli era stata assegnata. Era una donna attraente e più
volte
John si era chiesto se ci stesse provando con lui in un qualche modo.
“Sì,
sì, fallo pure entrare.” Lei annuì,
facendo per uscire dalla
porta, prima di ripensarci e tornare indietro.
“Sei
libero sabato prossimo?” John rimase sorpreso da quella
domanda,
decisamente non aspettata. Mary era di fronte a lui, fiera e con gli
occhi piena di quella determinazione che poche donne ancora
possedevano.
“Oh...oh
beh, dovrei proprio vedere se...”
“Sì
o no?” Chiese ancora lei, stritolandosi le mani dietro la
schiena.
“Sai, il paziente attende e preferirei saperlo
subito.” John era
in una situazione di potenziale panico. Il suo primo pensiero,
nonostante fosse indubbiamente sbagliato, andò a Sherlock.
Sherlock
che lo aspettava a casa, ma che in realtà era morto da
più di
undici mesi ed era ora, o mai più. Doveva decidere.
“Sì.
Sì, mi farebbe davvero piacere uscire con te,
Mary.” John sorrise
e Mary ricambiò felice, uscendo dal suo studio.
John
aveva fatto la sua scelta e aveva deciso di tenere se stesso e
lasciarlo andare.
“Era
ora che tornassi, John. Pensavo che volessi dormire direttamente a
lavoro.” Proruppe Sherlock appena John fu entrato in casa,
dal
divano. John prese un respiro profondo, preparandosi al discorso che
avrebbe dovuto incominciare.
“Dobbiamo
parlare.”
“Lo
so.” John annuì; logicamente, visto che era tutto
frutto della sua
mente, il suo Sherlock era a conoscenza di ogni cosa. Si sedette sul
tavolino basso di fronte al divano, guardandolo negli occhi.
“Sherlock,
io credo sia giunta ora, per me, di procedere con la mia e...e non
posso più rimanere incollato al pensiero della mia vita con
te
perché non esiste più.” Sherlock
rimaneva in silenzio,
fissandolo, cosa che peggiorava in maniera incredibile la
situazione.“Voglio davvero provare a vivere e smettere di
sopravvivere. Non voglio diventare pazzo o passare il resto della mia
vita da solo, inseguendo il tuo fantasma.” John
ricacciò indietro
il magone.
“Non
puoi dimenticarmi.” Mormorò basso Sherlock, cosa
che fece
definitivamente crollare John.
“Oh,
lo so, credimi.” John deglutì rumorosamente,
stringendosi le mani.
Era pronto ad ammetterlo, nella confidenza della sua casa, con solo
se stesso come spettatore. “Io...ti amo. Ti amo tanto,
Sherlock,
non potrò mai smettere di farlo.” John
tirò su con il naso,
pregando che il suo cuore smettesse di uscire dal petto. “E
so che
non potrò mai avere il piacere di sentirmelo dire da te
e...io non
posso morire da solo, non voglio vivere così. Io volevo
averti,
volevo proteggerti e stare al tuo fianco per sempre. La vita
è stata
crudele con noi due, ma...ma è ora, per me, di dirti
addio.”
Sherlock si avvicinò a lui, lentamente, non battendo mai le
palpebre. John si accorse, con un filo di vergogna, di avere il viso
bagnato.
“Avrei
voluto avere la possibilità di dirtelo anche io,
davvero.”
Socchiuse gli occhi e Sherlock fece lo stesso e, prima che le loro
labbra si scontrassero, il fantasma che tanto tempo aveva amato
sparì
pian piano, fino a farlo rimanere, da solo, a fissare il vuoto.
Sherlock
era morto, di nuovo.
Tre
mesi dopo
John
era pronto o, almeno, sperava di esserlo. Si guardò intorno,
scrutando tra la marea di gente in quel ristorante di lusso, prima di
tirare fuori dalla tasca l'anello di fidanzamento che aveva
intenzione di offrire a Mary, in cambio di un sì.
Sapeva
che, molto
probabilmente, chiunque gli avrebbe dato dello scellerato a fare un
gesto del genere dopo così poco tempo, ma John pensava fosse
giusto
così. Mary era una ragazza tutto sommato simpatica,
sorrideva sempre
e aveva una timidezza tenera seguita da un animo battagliero che la
rendeva una donna che avrebbe sicuramente apprezzato in precedenza,
ma che avrebbe accantonato per qualcosa di meglio. Ora che quel
qualcosa non c'era più, John era convinto che iniziare un
nuovo
capitolo della sua vita fosse una scelta saggia per lasciarsi alle
spalle tutto il dolore passato.
Continuava a vedersi con Greg, ma non
più come un tempo. I loro incontri erano sempre molto
imbarazzanti,
con argomenti che venivano taciuti come se contenessero il segreto
per trovare il Santo Graal o chissà che altro. Mrs Hudson
era
l'unica persona che, puntualmente, si faceva sentire o vedere. Era
come una madre per lui e, nonostante le sue insistenze continue sul
voler prendere qualche vecchio oggetto dal 221B, John era felice di
passare del tempo con lei. John si mosse nervosamente sulla sedia,
cercando il volto ormai familiare di Mary, in femminile ritardo come
sempre. “Scusi, vuole ordinare?” Chiese un
cameriere mentre
passava accanto al suo tavolo.
“Oh,
no, sto aspettando una persona.” Il ragazzo annuì
cordialmente e
andò via, a sparecchiare il tavolo vicino al suo.
Quando
diavolo sarebbe arrivata?
Sherlock
era pronto o, almeno, credeva di esserlo. Quello era il giusto
momento per tornare in scena, per far vedere a John che quei mesi non
erano stati perduti, che potevano ritornare ad essere loro due contro
il resto del mondo, finalmente. Sherlock, ovviamente, non era uno
stupido. Sapeva che John non lo avrebbe accettato, non subito.
Sarebbe stata tutta una questione di orgoglio e dignità e
sentimenti
e altre cose che, francamente, non aveva mai capito in tutta la sua
vita. Ma John avrebbe compreso, lo avrebbe accettato, perché
è ciò
che un Watson faceva con il suo Holmes, non importava a quale costo.
Sherlock spinse le porte del lussuoso ristorante dove, a detta di
Mycroft, si trovava John. Ripeté mentalmente tutta la tavola
periodica, per non perdere il solito controllo che lo
contraddistingueva da sempre. Si lasciò togliere il cappotto
e fissò
dritto John, per la prima volta senza il bisogno di nascondersi.
Eccolo lì, ancora integro dopo la tempesta. Il suo
indistruttibile
John Watson. Sherlock avrebbe sorriso se non fosse stato paralizzato
dall'intera situazione. Camminò meccanicamente verso il suo
tavolo,
sentendo il suo cuore pulsare forte contro le tempie e dentro le
orecchie. Hai superato una caduta dal tetto di un ospedale, puoi
superare qualunque cosa, si disse, raddrizzando appena la schiena e
fermandosi al fianco di John, in piedi. La verità era che
avrebbe
preferito saltare altre mille volte da un grattacielo piuttosto che
subire le conseguenze di aver spezzato, per una sola volta, il cuore
a John.
“John.”
Alzò lo sguardo, raggelandosi quando vide Sherlock, gli
occhi chiari
sempre fissi su di lui, ma con qualcosa di diverso all'interno. John
chiuse gli occhi, li strinse ben bene, prima di riaprirli e ritornare
a guardarlo.
“Dio,
pensavo di aver superato questa fase.” Sussurrò,
mettendosi una
mano nei capelli e guardandosi attorno. “Non era mai successo
che
capitasse fuori da casa.” Sherlock aggrottò le
sopracciglia,
visibilmente confuso.
“Scusa,
credo di non afferrare ciò che tu stia cercando di
dire.” John lo
guardò, visibilmente scocciato. Sherlock si sedette, quasi
preoccupato per il comportamento dell'altro. Mycroft gli aveva detto
che stava cercando di andare avanti, ma che fosse per caso impazzito
per la sua assenza? Non lo credeva possibile.
“Cosa
ci fai tu qui?” John disse, abbassando ancora di
più la voce,
controllando che nessuno lo guardasse. Sherlock continuava a
fissarlo, sorpreso.
“Sono
tornato, John.” John sbuffò, tamburellando le dita
sulla tovaglia
immacolata.
“Sì,
questo lo vedo. Al nostro ultimo addio sei sparito, pensavo te ne
fossi andato per sempre.” Sherlock prese un respiro profondo,
lisciandosi la camicia bianca. Non pensava, sinceramente, che John la
prendesse in quel modo, non l'aveva programmato, ma era ora delle
spiegazioni.
“Lo
so, John, lo capisco, ma ho dovuto farlo, per proteggervi. Ho
sconfitto Moriarty.” John lo guardò, perso.
“Che
diamine stai blaterando?”
“Non
sono morto.” John quasi sentì il mondo
incominciare a girare
sempre più lentamente, fino ad andare a rallentatore. Vide
un
cameriere arrivare, nuovamente, e rivolgersi a Sherlock, chiedendo se
ora potesse ordinare. Vide Sherlock rispondere di no e il cameriere
andare via. Vide Mary arrivare, vestita elegantemente, e guardare
stranita Sherlock, chiedendogli chi fosse. John sentì il
mondo pian
piano fermarsi, per poi iniziare a ruotare a tutta velocità,
come
una giostra senza freni. Estremamente non divertente. Provò
ad
aprire la bocca per dire qualcosa, ma tutto quello che
riuscì a fare
fu alzare un braccio e toccargli il braccio, la presa ferra da
soldato che circondava il suo avambraccio e lo accertava solido, in
carne ed ossa. Sherlock. Sherlock. Sherlock.
“Oh
mio Dio.”
“Voglio
una spiegazione.”
“Va
bene-”
“Voglio
una spiegazione ora, Sherlock, subito. Spiegami come diavolo
è
possibile, Sherlock. Sei morto, io...io ti ho visto!” John
rise
istericamente, guardando la strada deserta attorno a lui. Erano
usciti per chiarire, a detta di Sherlock, che cosa stesse accadendo e
Mary si era fatta discretamente da parte, ritornando a casa e
promettendo di richiamarlo il giorno successivo. A John non importava
né di quello, né delle temperature minime,
né che Sherlock
maledetto Holmes fosse davanti a lui, vivo. O magari di quello
sì.
Oh dio, sarebbe morto di crepacuore. John era in un fuoco di
sensazioni che davano le vertigini.
“E'
stata una farsa, è stata la scelta più opportuna
per far fuori la
cerchia di Moriarty e salvare la vita a Lestrade, Mrs Hudson e te,
John. Credimi, avrei voluto che tu lo sapessi.” John lo
fissò per
minuti interi, incapace di dire o pensare alcunché. Avrei
voluto che
tu lo sapessi. Avrei voluto.
“E'
un anno che sei morto, Sherlock, e io sono rimasto da solo!”
“Non
sono effettivamente morto o non sarei qui.” A quel punto,
John
caricò con tutta la rabbia che aveva trattenuto in quei mesi
e gli
sferrò un pugno alla cieca, sperando che gli facesse almeno
un
quarto del dolore che aveva provato per lui da quando aveva recitato.
Aveva finto, con lui. Con lui che l'aveva amato.
“Stavo
diventando pazzo per colpa tua! Hai una dannata idea di cosa hai
combinato? Non è una testa nel frigorifero, questa, non
è
minimamente paragonabile al far esplodere la casa intera! Mi hai
abbandonato senza una spiegazione e ho dovuto rialzarmi e fare
ogni...” John prese un profondo respiro, smettendo di alzare
la
voce e riassumendo un tono freddo e basso. “Ogni giorno ho
dovuto
cavarmela da solo. Tu sei morto, Sherlock. Per me.” Sherlock
premette una mano sul labbro sanguinante, guardandolo con occhi
supplichevoli.
“Siamo
ancora tu e io. Ho solo cercato salvato la situazione dalle mani di
Moriarty.”
“Avresti
potuto dirmelo. Scrivermi un biglietto, un simbolo sarebbe bastato,
sulla porta di casa mia. Avresti potuto, ma non hai fatto nulla. Hai
preferito restare da solo perché è tutto
ciò che fa di te quello
che sei, ovvero un egoista.” Sherlock scosse la testa
debolmente.
“Ti
avrei messo in pericolo.”
“Ero
un soldato.” Sherlock aprì la bocca per replicare,
ma John lo
precedette, alzando la mano per fermarlo. Si sentiva così
stanco da
poter crollare sul marciapiede e non rialzarsi mai più.
“Quella è
stata la tua scelta e sei abbastanza intelligente da sapere quali
sarebbero state le conseguenze. Goditi la tua vita da solo, Sherlock
Holmes.” John si girò e camminò come
una furia, cercando di
sbollire la rabbia, il rancore, la delusione e sopprimendo la gioia
estatica che pian piano stava affiorando in lui. Non gli avrebbe dato
nemmeno uno spiraglio di speranza perché non si meritava
nient'altro
che solitudine, ciò che aveva avuto John: nessuna
possibilità di
scegliere.
John
era al limite dell'isteria, al baratro della sua pazienza. Da una
settimana a quella parte tutto ciò che faceva, nonostante lo
evitasse, accadeva davanti a Sherlock. Infatti, sembrava aver trovato
un nuovo fantastico passatempo da quando era tornato dal mondo dei
finti-morti. Lo seguiva. Ovunque. La mattina presto lo trovava dietro
la sua porta, lo seguiva nella metro, anche se sapeva quanto la
odiasse, lo aspettava fuori dalla clinica e lo riaccompagnava a casa.
Sempre un paio di passi dietro di lui, sempre in silenzio, una
presenza discreta perennemente con lui, quasi come un angelo custode;
decisamente fuori dai suoi canoni di comportamento. John, i primi
giorni, aveva anche cercato di evitarlo, prendendo scorciatoie o
deviando all'ultimo minuto, ma aveva dimenticato che Sherlock sapeva
ogni singolo angolo di Londra a memoria e, quindi, nessuna sua
tattica riusciva davvero a seminarlo. Ora ci aveva smesso, faceva
solo finta che non esistesse, che fosse un normale uomo come gli
altri e non il suo uomo diverso da tutti. Se non fosse stato
così
arrabbiato con lui, se non avesse avuto quell'impulso animalesco di
picchiarlo fino a fargli capire quale dannato idiota era, John si
sarebbe intenerito a vedere con quanta ostinazione cercava di stargli
accanto. Peccato che era in ritardo di un anno.
John
girò il volto, guardando il tunnel della metro sfrecciare
veloce
dietro al finestrino sudicio. Sherlock era sul seggiolino di fianco a
lui, scrivendo velocemente sul cellulare.
“Mi
perdonerai?” Chiese ad un certo punto, alzando il capo e
guardando
fisso dentro di lui, come era solito fare quando erano inseparabili.
John ricambiò lo sguardo, serio in volto, senza muovere un
muscolo.
“Intendo, potrai mai farlo? E' solo un momento, John, o sei
veramente andato avanti con la tua vita?” Il treno
rallentò con
uno stridore di freni, prima di fermarsi del tutto. John si
alzò
senza dire una parola e uscì, mischiandosi tra la folla.
Che
deducesse lui, quale fosse la sua risposta.
Qualcuno
aveva mai amato così tanto da dare un braccio? Non
l’espressione,
ma dare letteralmente un braccio per quella persona? Quando sai che
una persona è il tuo cuore e lei è la tua
armatura, quando sai che
distruggerai chiunque che proverà anche solo a ferirle. Ma
cosa
succedeva quando il karma ti si rigirava contro e ti mordeva? Quando
tutto quello che per cui hai sempre combattuto ti si rivoltava contro
e ti disprezzava? Cosa succedeva, si chiese Sherlock, inginocchiato
davanti alla sua stessa tomba, quando tu diventavi la fonte stessa
del suo dolore? C'erano dei fiori appassiti, dentro un vaso viola
scuro. Probabilmente degli Iris, probabilmente di John. John.
Sherlock osservò le lettere dorate davanti a lui che
incidevano il
suo nome. L'aveva osservato, in quell'anno di separazione. Aveva
visto che, certo, non era ben inserito dopo ciò che era
successo, ma
che cercava di andare avanti, a modo suo, e andava bene
così.
Ma
ciò che aveva visto era solo quello che aveva voluto vedere.
Negli
occhi di John aveva dedotto un uomo che faceva fatica a tenere
insieme i pezzi di una vita distrutta. John che aveva imparato a
guardare negli occhi le persone solo per pochi secondi,
perché
temeva che potessero vedere quanto fosse un giocattolo rotto con una
maschera di serenità a coprirgli il volto; quanto fosse
diventato
insicuro e solo. Sherlock aveva pensato che fosse giusto lasciarlo da
solo per proteggerlo, che John avrebbe capito, che delle stupide
emozioni non si sarebbero messe di mezzo tra loro due, ma l'avevano
fatto e ora avevano creato un muro indistruttibile.
Quella
notte aveva deciso di rifugiarsi davanti alla sua finta tomba,
cercando una soluzione razionale e logica per risolvere quella
stupida situazione. C'era così tanto silenzio, in quel
cimitero
vuoto, che poteva quasi sentire il suo stesso cuore battere
ritmicamente contro il suo petto, prova certa che, alla fine dei
giochi, lui restava ancora un essere umano.
Se
voleva davvero riprendersi la sua vita indietro, Sherlock doveva
agire per davvero e il giorno seguente sarebbe stata la resa finale.
John
si svegliò nel suo letto, osservando il soffitto sopra di
lui. Quel
giorno avrebbe avuto il turno di mattina alla clinica e avrebbe
dovuto rivedere Mary. Si sentiva male per non averle nemmeno scritto
un messaggio o risposto alle sue chiamate e per essere totalmente
scomparso dal lavoro, dichiarando di avere la febbre oltre i
trentanove gradi. L'unica cosa a cui riusciva a pensare,
però, era
Sherlock.
Dopo
tutti quei giorni di furia, la concretezza della realtà gli
stava
piombando addosso ad alta velocità, lasciandolo attonito dal
sollievo. Sherlock era vivo e vegeto e parlava e respirava e aveva
ancora il suo carattere da sociopatico, incapace nei sentimenti, ma
era esattamente come lo aveva sempre voluto e John, semplicemente,
era felice. Si ritrovò a sorridere come un adolescente al
muro
davanti a lui. Non gli avrebbe permesso con facilità di
riconquistarsi la sua fiducia, provando a ritornare come prima, ma
John non era più sicuro che la sua risposta sarebbe stata un
assolutamente mai. Si alzò e andò a prepararsi un
caffè,
accendendo una vecchia radio e ascoltando un po' di fresca musica
giovanile.
Non
sapeva perché, ma si sentiva rinato, come improvvisamente
cosciente
di qualcosa che prima ignorava. Si vestì in fretta e prese
le chiavi
di casa, sentendosi orgoglioso di essere perfettamente in orario.
Aprì la porta e, stranamente non trovò Sherlock
sul pianerottolo ad
aspettarlo. Si guardò attorno per un paio di minuti, prima
di
richiudersi la porta dietro di sé e dirigersi verso
l'ascensore.
John capì che quella giornata sarebbe stata diversa dalle
altre
quando trovò Sherlock dentro l'ascensore, un
caffè nero in una mano
e un sorriso appena accennato sul volto. “Per te, senza
zucchero.”
John alzò un sopracciglio, andandogli vicino e schiacciando
il
pulsante per il piano terra.
“Grazie,
ho già fatto colazione.” Disse, con voce incolore.
Sherlock
insistette, mettendogli il bicchiere sotto il naso.
“L'ho
fatto io.”
“Quindi
sarà sicuramente drogato. Qualche esperimento in corso che
ti
scaccia la noia, magari. Immagino ti sia annoiato a morte,
quest'anno.” Proruppe sarcasticamente, osservando con odio le
porte
metalliche davanti a lui.
“Voglio
chiarire con te, John. Smettila di fare così.”
John rise,
incrociando le braccia al petto.
“E'
molto lontano il tempo in cui ascoltavo tutto ciò che mi
dicevi,
Sherlock.”
“E'
lontano anche il tempo in cui era onesto con me.” Sherlock
sapeva
che così facendo avrebbe innescato la bomba ad orologeria
che
risiedeva dentro al petto di John e sperava che, quando fosse andata
distrutta, avrebbero potuto incominciare a ricostruire la loro vita
dalle fondamenta.
John
si voltò verso di lui, allibito.
“Onesto?
Tu parli di onestà? Io...non ci posso credere! Sei pazzo,
Sherlock
Holmes, anche solo a pensare di puntare il dito contro di me per
qualunque cosa dopo quello che hai fatto!”
“Ho
fatto ciò che andava fatto, non chiederò scusa
per questo!”
“Beh,
allora puoi andare all'inferno!” L'ascensore si
fermò
all'improvviso, traballando, mentre loro si scambiavano guardi di
fuoco, uno di fronte all'altro.
“Ma
che diavolo...?” John guardò l'abitacolo, ancora
più arrabbiato.
“Si è fermato. Ditemi che tutto questo
è un incubo, per favore.”
Mormorò, bussando alle porte metalliche.
“Ovviamente
nessuno può sentirti. Calmati, verranno a tirarci
fuori.”
“No!
Non ho nessuna intenzione di stare qui dentro insieme a te un minuto
di più!” John batté con forza le nocche
contro le porte.
“Qualcuno ci sente? Siamo bloccati!”
Urlò, incominciando a
schiacciare tutti i tasti. Sherlock si appoggiò ad una
parete,
incrociando le braccia.
“Calmati.”
“Non
prendo ordini da un morto.” Ribatté, cercando una
via di fuga e
trovando solo una dannatissima telecamera ad angolo, apparentemente
spenta.
“Per
nostra fortuna, nessuno dei due lo è.” John si
girò verso di lui,
fulminandolo.
“Lo
eri.”
“Stavi
fingendo.”
“Perché?”
“Perché
Moriarty ti avrebbe ucciso se non l'avessi fatto.” John
rimase in
silenzio, semplicemente guardandolo.
“Potevi
dirmelo.” Disse calmo, non avvicinandosi nemmeno di un
centimetro.
“Oh,
certo. Tu l'avresti fatto, John? Se qualcuno fosse stato ancora un
pericolo per la mia vita, avresti rischiato tutto per una semplice
rassicurazione?” Sherlock gli puntò il dito
contro, infastidito.
“Non ti ho abbandonato, John, come continui ad illuderti.
Stavo
solo aspettando il momento opportuno per tornare indietro. Credi sia
stato bello rinunciare a tutto? Diventare l'ombra di un signor
nessuno? Eliminare persone per riavere la mia vecchia vita mentre tu
cercavi di andare avanti.”
“Già,
infatti io mi stavo proprio divertendo!” Rispose sprezzante,
puntandogli anche lui il dito contro. “Non cercare di girare
la
situazione a tuo favore, Sherlock, da bravo bugiardo quale sei. Ti
conosco da molto tempo, anche se sembrerebbe il contrario. Tu mi hai
fatto assistere alla tua morte, era tua la tomba a cui mi rivolgevo
ogni giorno, tuo era il fantasma di una vita che sembrava andare per
il meglio! Non mi sarei mai disintegrato per te, Sherlock. Ho solo
cercato di rimanere a galla. Tu non puoi tornare e far finta che
niente sia accaduto, non dovevi tornare, ecco. Dovevi restare lontano
da me, fin dall'inizio. E' stato tutto un fatale, inutile errore da
parte di entrambi.” Per un istante infinito, calò
il silenzio tra
i due, poi l'ascensore ritornò a funzionare. Sherlock
cambiò la
direzione del suo sguardo, spostandola sulle porte e John
ritornò
affianco a lui, guardando dritto davanti a sé. Ecco
cos'erano
diventati, due perfetti estranei. Tutta la sensazione di benessere
che John aveva sentito quella mattina, appena sveglio, sembrava
essere scomparsa o addirittura mai esistita.
“Credo
che...andrò a stare al 221B. E' stato un piacere conoscerti,
John.”
Disse senza emozioni, prima di uscire dall'ascensore e sparire in un
turbinio di nero dalla porta del condominio. John rimase in piedi a
fissare la sua sagoma sparire dalla sua vista mentre le porte,
inesorabilmente, si richiudevano davanti a lui.
La
parola fine, nella sua testa, riecheggiava come un grido mai nato.
Fissava
il suo riflesso allo specchio, aggiustandosi la sciarpa. Lestrade era
dietro di lui, alla porta, intento a parlare al telefono con i suoi
agenti. Sherlock non era mai stato un tipo avvezzo alle emozioni e
mai, mai lo sarebbe stato. Odiava quel tipo di persone tutte
smancerie da far vomitare e aveva giurato fin da piccolo di non
diventare mai come una di quelle. Ma ora, guardando la sua immagine
riflessa, si chiedeva quanto bene avesse fatto a non aver permesso a
nessuno di vedere il suo cuore, se non a fievoli sprazzi. Sherlock
fissava i suoi stessi occhi chiari senza espressione, chiedendosi
cosa diavolo volesse dire sentire una strana morsa allo stomaco
quando si voltava verso la poltrona rossa accanto alla sua, cosa
volesse dire quel vuoto al petto che gridava mancanza di casa, delle
urla per i suoi esperimenti, della televisione su canali scadenti,
del non dormire per giorni e poi crollare insieme sul divano, felici.
Sherlock non si era mai fatto domande a riguardo perchè
semplicemente non gli interessava, ma John non aveva chiamato e
questo era un pensiero che lo stava facendo impazzire. Ovviamente
nessuno pensava anche minimamente che qualcosa lo avesse potuto
scalfire, visto la faccia senza alcuna espressione che si portava in
giro ogni giorno. Lestrade l'aveva quasi sbranato, quando si era
rifatto vivo, ma poi aveva capito, si era calmato. Sherlock si era
chiesto perchè con John non avesse funzionato
così bene. Erano
passati nove giorni dal loro ultimo incontro e sembrava che l'altro
avesse dato un taglio alla loro relazione. Non che a Sherlock
interessasse, infatti. Ne avrebbe trovato un altro, sicuramente non
con un IQ uguale ad Anderson. “Sherlock, sei pronto? Dobbiamo
andare, la scena del crimine è abbastanza
lontana.” Sherlock
annuì, smettendo di osservarsi allo specchio e passando con
passo
veloce vicino a Lestrade.
“Sbrighiamoci,
allora.” Si schiarì la voce, scendendo le scale in
fretta. Le
parole di Lestrade lo inchiodarono davanti alla porta.
“Ancora
nessuna notizia da parte di John?”
“No.”
Rispose semplicemente, rimanendo immobile mentre Lestrade lo guardava
torvo dall'altro.
“Dovresti
parlarci, smettila di fare il testardo.”
“Potrei
sbagliarmi, ma credo proprio che non siano affari tuoi.”
Disse con
sprezzo, lanciandogli un'occhiata minacciosa.
“Ti
manca. Vi mancate a vicenda.” Sherlock aprì la
porta con rabbia e
uscì, non aspettando l'ispettore.
E
che andassero tutti al diavolo, Sherlock Holmes non aveva mai avuto
bisogno di nessuno.
Fissava
il suo riflesso allo specchio, radendosi. Nove giorni passati
dall'ultimo incontro tra lui e Sherlock. Non che li avesse contati
ogni mattina, appena sveglio; quello era solo un pensiero casuale.
John si sentiva come un automa, più che altro. Si alzava, si
vestiva, lavorava, tornava a casa, mangiava, dormiva. Ogni cosa
sembrava aver perso quel senso di perfezione che caratterizzava la
sua vita precedente. Quel cordone che li aveva tenuti legati anche
dopo la non-morte di Sherlock si era reciso proprio ora che serviva
più che mai.
John
si tagliò lievemente ed emise un mugugno sommesso,
toccandosi la
ferita. Si tastò lentamente la guancia, per poi risalire
verso gli
occhi. Spenti. Malinconici. Tutto di lui sembrava star appassendo.
Sospirò, prendendosi la testa tra le mani, lasciando la
lametta
dentro al lavandino. Cosa stavano facendo? Perchè aveva
reagito in
quel modo, quando tutto ciò che avrebbe voluto fare, quel
giorno in
ascensore, era abbracciarlo e dirgli che era tutto finito, che la
loro vita era sì in macerie, ma che loro erano forti e
grandi e
indistruttibili.
John
accendeva la televisione, alla sera, per controllare i notiziari e
per vedere lui. Compariva sempre, in un modo o nell'altro. L'eroe
immortale di Reichenbach con la mente ancora sveglia e pulsante,
sempre pronto a risolvere casi intricati. John osservava le veloci
riprese fatte sulla scena del crimine e si vedeva proprio
lì,
accanto al muro a parlare insieme a Sherlock, come avevano sempre
fatto. Avrebbero riso e si sarebbero ammoniti, per poi ridere ancora
di più. Sarebbero andati a mangiare in qualche ristorante
intimo e
John l'avrebbe solamente guardato e pensato a quanto era fortunato ad
averlo con sé e Dio, sì, quanto lo amava,
nonostante ogni cosa
fosse avversa.
Fantasie.
Per quanto John fosse stolto, capiva quando qualcosa era perduto o lo
era quasi completamente, ma più provava a dimenticarlo e
meno
funzionava.
In
quella guerra nessuno dei due era riuscito a tenere il proprio cuore
in vita.
00:56
“Sì,
emh, ciao Mary, sono io, John. Lo so che...ecco, lo so che avrei
dovuto chiamarti settimane fa e mi dispiace tanto, ma la mia vita
è
più o meno...un disastro, ora come ora. Non sono
più sicuro su
nulla. E...ecco...quando sentirai questo messaggio, spero che non mi
odierai così tanto come credo. Spero tu sarai felice come
meriti
e...e io non posso proprio essere l'uomo per te, mi dispiace. Mary
io...no, non c'è nulla da dire, mi dispiace tanto.
Perdonami, se
puoi.”
01:10
“Lo
amo, ecco. Io...pensavo che non potessi perdonarlo, ma lo posso fare,
io lo so. Scusa...scusa, dovevo dirlo a qualcuno ma, ecco, io non
posso stare insieme a te perchè sono innamorato di un
idiota! Un
vero, gigantesco idiota!” Risata. “E non potrei far
finta che
questo sentimento non ci sia perchè c'è sempre
stato. Scusa se...se
mi sono confidato con te ma è così. John Watson
non può far
nient'altro se non dare il suo cuore a Sherlock Holmes.
Scusami.”
John
spostò il peso da un piede all'altro, suonando nuovamente il
campanello del 221 di Baker Street. Mrs Hudson venne ad aprirgli,
sorridendo calorosamente quando lo riconobbe. “Oh caro,
sapevo
saresti tornato!” Lo abbracciò forte,
accompagnandolo dentro. “Il
nostro Sherlock era così preoccupato. Sai, lo mostrava in un
modo
tutto suo, ma tutti abbiamo capito che è
così.” John sorrise,
stritolandosi le mani.
“E'
su?” Chiese speranzoso, guardando i ventitrè
scalini che portavano
al loro vecchio appartamento.
“Oh
no, ma dovrebbe tornare presto. Mi ha chiamato pochi minuti fa
chiedendomi un po' dei miei biscotti e del thè. Gli ho detto
che non
sono la sua governante.” John annuì, sorridendo.
“Lo
aspetterò di sopra.” La signora Hudson
ritornò ai fornelli,
canticchiando una melodia a bocca chiusa. John salì
velocemente gli
scalini, aprendo lentamente la porta.
Fu
come non essersene mai andati. L'appartamento era pieno di
scartoffie, il muro pieno di buchi, la testa di cervo con le cuffie,
la cucina un vero disastro. John sentì gli occhi pizzicare
dalla
gioia di poter ritornare a casa.
Aprì
la busta che aveva portato con sé e prese il teschio che
aveva
conservato diligentemente, riappoggiandolo al suo posto d'onore.
Notò
con piacere che la sua amata poltrona era sgombra e ci si sedette
sopra, stringendo il cuscino con la bandiera inglese al petto.
Casa.
Finalmente il mondo rincominciò a ruotare in un senso
conosciuto e
familiare. Bello.
John
fu distratto dal suo sogno ad occhi aperti da una sagoma alta e
longilinea accanto allo stipite della porta. Sherlock stava cercando
con tutte le sue forze di non sembrare sorpreso o far scaturire
qualunque altra emozione, ma John lo conosceva come le sue tasche e
sorrise un po' di più. “Ciao, Sherlock.”
“Cosa
ci fai qui?” Chiese, sulla difensiva, togliendosi la sciarpa
nuova,
del medesimo colore della precedente. Dio, se possibile era ancora
più bello dell'anno precedente, pensò John,
osservando come la
camicia color papavero gli rivestisse bene il busto.
“Voglio
parlare con te, da persone civili.” John lo
guardò, sperando che
non incominciasse a far rifornimento di battutine acide da
lanciargli. Per sua fortuna, Sherlock si sedette sulla sua poltrona,
di fronte a lui.
“D'accordo,
parliamo.”
“Io...ho
riflettuto bene in questi giorni.”
“Sì,
non ho avuto nessuna tua notizia, ho notato che tu fossi impegnato in
altro.” John prese un bel respiro profondo, cercando di non
farsi
saltare i nervi.
“Il
punto è che ho capito di non voler stare da solo.”
Gli disse,
guardandolo fisso negli occhi. Sherlock si inumidì le
labbra, prima
di parlare nuovamente.
“Pensavo
ci pensasse Mary a quello.”
“Lo
sai anche tu che questa è una bugia.” Sherlock
sorrise appena,
puntando i gomiti sulle ginocchia.
“Vuoi
tornare qui, con me?”
“Sì,
ma non sarà tutto come prima, Sherlock. Non è
così che andranno le
cose.” Sherlock si immobilizzò, diventando di
ghiaccio.
“Che
cosa vorrebbe dire?”
“Se
ritornerò qui, a fare questa vita insieme a te, ci saranno
delle
condizioni da rispettare.” Sherlock congiunse le mani sotto
al
mento come era solito fare.
“Ti
ascolto.” John si schiarì la voce, cercando di non
andare in
iperventilazione.
“Non
dovrai mai più andartene senza dirmi nulla, mai
più dire bugie, mai
più fronteggiare un nemico così grande da
rischiare così tanto. Io
dovrò sapere tutti i casi che ti sono affidati.”
Rimase pochi
secondi in silenzio, prima di replicare.
“Ho
una controproposta.” Decretò. John sorrise nel
vedere che, per
quanto la situazione non fosse stata delle più felici negli
ultimi
tempi, Sherlock era sempre rimasto se stesso.
“Sentiamo.”
“Non
farò più finta di essere morto e ti
dirò se dovrò partire da
solo, non ti racconterò più bugie riguardanti
cose gravi, come
della droga nel caffè, a meno che non si tratti di un
esperimento,
in quel caso è per la scienza, John! Non
fronteggerò più un nemico
senza renderti partecipe degli elementi essenziali, così
come nei
casi. Mi fiderò di te, come ho sempre fatto.”
Ammise alla fine,
sporgendosi con il busto verso John.
“Accetto.”
John sorrise e Sherlock con lui, fin quando tutto finì con
risate
incontrollate e senza senso.
“Perfetto,
avrei un caso a cui lavorare, ora.” Asserì
Sherlock, alzandosi
dalla poltrona, una volta calmate le risa. John si alzò a
sua volta.
“No,
aspetta, non ho finito le mie condizioni.” Ora veniva la
parte più
difficile e John sperò con tutto il cuore di non rovinare
tutto con
quel suo gesto avventato. Sherlock aggrottò le sopracciglia,
confuso.
John
prese una grande boccata d'aria prima di sputare fuori la frase a
denti stretti. “Non voglio più essere solo tuo
amico.” Disse,
alzando appena la testa per fissarlo negli occhi cristallini.
“Va
bene, lo sai che sei anche il mio collega.” Rispose
ingenuamente
Sherlock, dandogli un'amichevole pacca sul braccio e andando in
cucina. No. No, assolutamente no. Dannatamente sbagliato, cervello
ottuso. John tirò a riva tutto il suo coraggio di soldato
prima di
girarsi e parlare alla schiena di Sherlock.
“Io
credo tanto di amarti.” Sherlock si raggelò sul
posto. John sperò
che qualcuno lo tirasse fuori da quella situazione orripilante.
“In
realtà...lo credo davvero, davvero tanto,
Sherlock.” Disse con
voce chiara, ringraziando il cielo che non suonasse spezzata o
emozionata. Sherlock si voltò verso di lui, guardandolo con
occhi
persi.
“E'
una reazione molto comune, mh, fraintendere i sentimenti
quando...ecco, quando...” Per la seconda volta nella sua
vita,
Sherlock Holmes si ritrovò senza parole in presenza di John
Watson.
“Ti
amo, non ci sono fraintendimenti.” Sherlock si
guardò attorno,
visibilmente in panico.
“Oh,
ecco, okay. Okay, grazie.” John non si offese per quella
frase
solamente perchè vedeva quanto Sherlock fosse in imbarazzo,
faccia a
faccia con quei sentimenti così reali. Trattenne un sorriso,
intenerito. Andò verso di lui e gli strinse leggermente la
mano,
piano per non spaventarlo. Gli occhi di Sherlock si persero nei suoi.
Calore. Casa. Vita. Amore.
John
decise che aveva aspettato anche troppo tempo per fare ciò
che
andava fatto dal primo giorno che si erano conosciuti, così
si alzò
piano in punta di piedi e gli baciò le labbra,
passionalmente ma con
lentezza, sentendolo frantumarsi contro la sua mano, posata sulla
guancia.
Nonostante
fosse il loro bacio, fu il miglior bacio che John ebbe mai dato in
tutta la sua vita.
Sherlock
si allontanò piano, facendo schioccare le loro labbra.
“Devo...l'esperimento, ecco. La scienza mi aspetta.
Sì, mh.”
Sherlock annuì e andò a sedersi in cucina,
tastando il suo
microscopio per vedere se fosse reale. John sorrise enormemente, come
non faceva da moltissimo tempo. “John, prendimi un chicco di
caffè.” Mormorò, osservando un vetrino
attentamente. John fece
quanto richiesto, porgendogli un chicco di caffè, non
domandandosi
quale sfortunata sorte gli aspettasse, ormai abituato a quel tipo di
bizzarre richieste.
Sherlock
alzò la testa, sorridendo appena e prendendo l'oggetto in un
palmo.
Si alzò appena per stampargli un casto bacio a stampo sulle
labbra.
“Grazie.” Disse, prima di smettere di considerarlo
per perdersi
nel suo mondo.
“Grazie
a te, Sherlock.” Sussurrò, sedendosi sulla sua
poltrona,
accendendo la sua televisione e riprendendosi la sua, mai
più
triste, vita.
Si
erano scelti. Si amavano. Vissero insieme fino alla fine. Qualcuno
disse che “amarsi” è sinonimo di
“è bello che tu esista come
sei e se non esistessi io ti creerei esattamente come sei, difetti
compresi”. Il loro amore c'entrava con le emozioni fino ad un
certo
punto. Il loro era fatto di scelta, di volontà e per questo
deve
essere ruvido, difficile per essere vero. Loro combattevano per
l'altro, erano lì per l'altro. Erano l'anima dei loro dubbi,
delle
loro paure. Sherlock portava John nelle sue battaglie, gliele fece
sentire, vedere: John era con lui e aveva di dirgli sempre quello che
aveva bisogno di sentirsi dire. Non erano uno il nemico dell'altro,
ma la sua forza.
Insieme
avevano insegnato alla loro felicità a vivere.
Iris:
L'Iris è simbolo di fede e speranza ma anche di desiderio di
trasmettere un messaggio dove si danno buone o cattive notizie.
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