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Autore: Nyah_ Fandom: Originale > Romantico Genere: Romantico, Introspettivo Avvertimenti: Slash NdA: Una cazzatina scritta davvero in dieci minuti, ma boh, mi
piace. Un po'. Voglio regalarla a due persone: alla Nali, che è
sempre pronta a s(o)upportarmi e alla Frency, che mi manca da morire,
lei e i suoi vaneggiamenti fangirlanti. Vi voglio bene, girls. ♥
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Un giorno mi sono svegliato e ho capito di
desiderarti.
Avevo quattordici anni e un’erezione dolorosa ogni
volta che, nello spogliatoio, mi davi le spalle e ti sfilavi la
maglietta, ti voltavi per dirmi qualcosa che non riuscivo ad ascoltare e
ti toglievi i pantaloncini sudati e uno dei tuoi molti paia di slip
neri. Sebbene inesperto, goffo e impacciato, avrei voluto prenderti per
mano, condurti nel cubicolo soffocante della doccia e fare ciò che avevo
visto fare in innumerevoli porno gay.
Ma avevo quattordici anni, ero inesperto, goffo,
impacciato e mi sentivo un perdente ogni volta che ti lasciavo entrare
nella doccia senza riuscire a seguirti.
Un giorno mi sono svegliato e ho capito di essere
pazzamente geloso.
Avevo sedici anni e una bolla rovente schiacciata
tra il cuore e lo stomaco, che esplodeva quando avevo la sventura di
incrociarti in cortile, abbarbicato ad una ragazza di cui non avresti
ricordato il nome, o il colore degli occhi, o il suono della voce.
Sebbene furioso e frustrato, incoraggiavo le tue mire
espansionistiche – come eri solito ripetere – e lodavo le tue
conquiste. Non chiedermi perché lo facevo; forse volevo solo
nascondermi, perché nonostante tutto, talvolta i tuoi occhi mi
soppesavano più del necessario, come in procinto di carpire un segreto
che avrei tanto voluto affidarti.
Ma avevo sedici anni e non ero pronto e vivevo in
una perenne commistione di rabbia e frustrazione e iniziai ad odiarmi
perché andavi via con loro, lasciandomi indietro. Non capivi.
Un giorno mi sono svegliato e ho capito di amarti.
Avevo vent’anni e correvo disperatamente nel
corridoio quasi accecante del quarto piano, dove tu riposavi da qualche
parte dietro una delle molte porte che fregiavano le mura della terapia
intensiva. Mi avevano chiamato nel cuore della notte per dirmi che la
tua auto era uscita di strada e che nel tuo sangue avevano trovato un
tasso alcolemico schifosamente alto. Dopo aver parlato con un medico e
avergli spiegato la tua disastrosa, penosa situazione famigliare, mi fu
concesso di vederti. Eri un bambino rattrappito, troppo piccolo in quel
letto dalle bianche lenzuola abbaglianti. Ho pianto qualche lacrima
quando, con i polpastrelli, ho sfiorato la gommosa superficie di un
tubicino che sprofondava nella tua mano pallida; ho pianto come un
disperato quando ho fatto il conto dei bendaggi e delle suture,
implorandoti di restare ancora un po’.
Ma avevo vent’anni e non trovavo proprio il
coraggio di aprirmi, dirti che ti amavo. Mi sentivo un codardo e avevo
l’impressione che il mio amore, che avrebbe dovuto salvarti e
proteggerti in tutti quegli anni, era solo un grandissimo fallimento.
Un giorno mi sono svegliato e tu eri al mio fianco.
Avevo ventidue anni e un dopo–sbronza da paura. Mi
sentivo come se mi avessero smontato e riassemblato alla rinfusa, senza
seguire il libretto delle istruzioni. La testa era solo una massa
spugnosa, umida, pesante e dolente. E poi c’eri tu. Un braccio sotto al
cuscino, una gamba accavallata alla mia, nudo come molte volte ti avevo
visto. Come molte volte ti avevo desiderato. Ripercorsi velocemente la
notte prima, fendendo con la volontà la foschia dell’ubriacatura sino a
rivederti, bello e forte e sbronzo, premuto contro di me, bisognoso
di me. Non potevo ricordarlo, non del tutto, eppure ero certo fosse
stato il miglior sesso della mia vita (sebbene tu, nei giorni a seguire,
avresti liquidato la faccenda come una cazzata tra amici).
Ma avevo ventidue anni, ero cresciuto e non potevo
evitare i primi sentori di un incipiente senso di colpa che, invero, mi
avrebbe perseguitato anche negli anni a venire.
Un giorno mi sono svegliato e tu eri sulla porta di
casa mia.
Avevo ventiquattro anni ed erano le quattro del
mattino. Sul tuo viso – non lo dimenticherò mai – c’era un sorriso che
mi era alieno, mai incontrato prima. Il volto stesso della più pura
felicità. Senza che ti avessi invitato, mi balzasti addosso e urlasti
qualcosa nel mio orecchio. Ti invitai a ripetere, non trattenendo un
sorriso confuso davanti alla tua euforia. E tu obbedisti. E io avrei
voluto non avertelo chiesto.
Perché avevo ventiquattro anni, ero innamorato di
te e tra due mesi ti saresti sposato.
Un giorno mi sono svegliato e tu eri nuovamente
sulla porta di casa mia.
Avevo ventisei anni ed erano le nove del mattino. I
tuoi occhi castani erano cerchiati da pesanti ombre bluastre, tutto in
te gridava sfinimento e voglia di andare a dormire per almeno una
settimana. Ma sorridevi, di un trionfo che, in tutta la mia vita, avrei
solo potuto immaginare, ma mai capire. Mi comunicasti che il tuo bambino
era appena venuto alla luce. Che l’avevi chiamato come me. E io, per
Dio, avrei solo voluto prenderti a calci come un dannato bastardo e
mandarti via, lontano dalla mia casa, lontano dalla mia vita.
Perché avevo ventisei anni e Dio doveva avermi
condannato ad amarti per sempre.
Un giorno mi sono svegliato e ho capito di essere
cresciuto.
Avevo trent’anni e sapevo di amarti ancora.
Ritrovavo ora il ragazzino sfrontato che si spogliava davanti a me, ora
il mio fragile amico ingabbiato in un letto d’ospedale, ora l’ubriaco
amante che eri stato anni addietro, quando ti eri preso anche l’ultima
parte di me. Ti ritrovavo ovunque, anche e soprattutto nella curva
infantile del sorriso di tuo figlio. Negli occhi azzurri pieni d’amore
di tua moglie. Eri ovunque, nel tempo, nello spazio, in tutto quello che
c’era stato e che sarebbe venuto, in questa vita e in tutte le altre a
seguire.
Ma avevo trent’anni e sapevo di dover andare
avanti, pur amandoti, pur restando inscindibilmente legato a te.
E anche adesso, che all’età di ottantaquattro anni
mi approssimo a morire in questo sterile letto d’ospedale, il mio
pensiero non può che andare a te. Sarai l’ultima immagine di questa
vita, la prima di quella che verrà – se verrà. Sarai l’ultimo legame con
questo mondo, con questo corpo. Sarai qui mentre io andrò avanti e
camminerò, camminerò fino a fermarmi a riposare, ad aspettarti – il più
tardi possibile, è inteso.
E, non posso negarlo, nutrirò, durante questo mio
lungo cammino, la speranza che un’altra vita possa esserci, meravigliosa
come la prima, ma diversa, magari migliore.
Magari con te.
Magari insieme.
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