Era stato proprio Gus a dire al signor Quinlan di poter rimanere da
lui, quella sera. Purtroppo il ragazzo si era completamente dimenticato
di che giorno fosse, a differenza del Nato.
«Amico, ci sono i vampiri che cambiano le persone, là fuori!», disse
ad alta voce Gus, indicando la porta come spesso faceva la madre quando
sgridava Crispin. Non avvertendo replica, rincarò la dose: «Ti sono
stato assegnato per andare a spaccare il culo ai tuoi simili, non per
grattarmi le palle davanti alla televisione».
A quel punto, Quinlan lo degnò di risposta: “Taci. Non sento bene”.
E Gus lo vide che aumentava il volume con il telecomando.
Era incredibile che a quel bestione ultracentenario piacessero i
telefilm, ed era ancora più incredibile che gli Antichi gli
permettessero di poltrire stravaccato sul divano con i piedi poggiati
sul basso tavolino davanti – e le Dr. Martens ancora indosso! –, mentre
Manhattan era nel panico più totale. Sarebbe mancata solo una porzione
maxi di pop-corn a completare il quadretto del perfetto single in una
serata infrasettimanale.
Sentendosi messo da parte, Augustine fece il giro del divano e andò
a pararsi davanti al televisore con le braccia conserte e gli occhi di
fuoco. Stava tacendo, esattamente come gli aveva detto il mezzovampiro.
“Non vedo”, le parole che Quinlan trasmise a Gus erano ferme e
decise.
Gus ridacchiò. «Ottimo! Allora alzati e andiamo fuori! I
succhiasangue ci attendono!».
Quinlan, senza fare una piega, distese una gamba e poggiò il ponte
del piede sul fianco del messicano, per poi spostarlo senza fatica.
“Dovrai aspettare per altri quaranta minuti”.
Gus era abituato all’immane forza fisica del Nato, per cui non provò
a colpirlo, né a rubargli lo “scettro del potere” per cambiare canale.
Semplicemente si sedette sul posto vuoto del divano, accanto a lui.
Fermo e zitto.
Se doveva aspettare tanto valeva godersi il telefilm.
Durò pochi minuti.
«Oh, che palle…», si lagnò. Non era proprio possibile che a Quinlan
piacesse quella roba. «Cos’è? Beautiful ambientato in Grecia?», chiese,
alla scena di quello che doveva essere il protagonista che baciava una
donna.
“Etruria”, rispose l’altro. Di poche parole, perché voleva
ascoltare.
«Ah, già…», rispose Gus, roteando gli occhi. In quel periodo stavano
andando di moda le serie televisive che avevano come protagonisti
personaggi delle epoche antiche, tipo Spartacus, i Borgia e simili.
Passarono degli altri minuti, stranamente in silenzio, a vedere il
telefilm. La puntata parlava di un rito funerario e c’era stato un po’
di sangue. Forse il programma non era così malvagio se tinto di rosso,
ma chissà se lui e Quinlan sarebbero mai riusciti a vedere tutte le
puntate fino alla fine, data la loro situazione con gli strigoi.
Quella sera la temperatura era precipitata e il ragazzo si fece un
po’ più vicino al caldo corpo del mezzovampiro, fino ad appoggiarsi al
suo braccio. Sapeva che non gli dava fastidio quel contatto – non era
la prima volta che lo usava come termosifone –, inoltre Quinlan aveva
mangiato da poco, quindi Gus non correva comunque pericoli.
Non servì la telepatia perché Quinlan capisse che il messicano
sentiva freddo, così sollevò l’arto superiore e avvolse le spalle del
ragazzo in un caldo e grezzo abbraccio, e girò appena il bacino così da
spostare le gambe dal tavolino al grembo di Gus. In questo modo il
messicano doveva accomodarsi un po’ sul largo torace dell’altro.
Gus non disse nulla: l’avambraccio del Nato era comodo come cuscino
e il suo calore vampiresco lo faceva stare bene. Inoltre, aveva capito
ormai da un po’ che per sua stessa natura Quinlan necessitava di avere
del rapporto umano, anche se i suoi modi composti e distaccati
sembravano celarlo. Chissà quando era stata l’ultima volta in cui era
potuto stare così vicino a un essere umano.
Augustine non glielo chiese, preferendo guardare il telefilm in
silenzio; e presto la sua costanza nel venire incontro a una richiesta
dell’altro fu premiata con i giochi funebri, dove finalmente il sangue
fece da padrone. Ok, quel telefilm non era affatto male.
Affascinato dagli effetti speciali, vide i gladiatori etruschi
esibirsi in onore del defunto con noiosissimi giochi sportivi o
magnifiche lotte come quelle romane nelle arene; e Quinlan avvertì il
suo cuore pompare più veloce durante le scene più cruente.
«Che figata!», sorrise il messicano. «Quel tipo mascherato è un
sadico bastardo!», esclamò, indicando il televisore. Sullo schermo
c’era un uomo, con una maschera a celargli il volto, che teneva legato
un uomo incappucciato, il quale doveva difendersi da un cane –
anch’esso unito alla corda ma decisamente libero nei movimenti –
utilizzando solo un randello ingarbugliato. L’uomo incappucciato era in
una situazione che descrivere come “nera” sarebbe stato un eufemismo.
“È il Phersu, un intr—” fece per dire il mezzovampiro, ma Gus lo
interruppe.
«Sssh! Sto ascoltando», disse, facendo roteare gli occhi rossi di
Quinlan in un gesto di insofferenza. Non ci credeva… Ora era Augustine
a voler seguire il programma in TV.
D’un tratto interessato, Gus si mise più comodo contro Quinlan e
seguì con passione crescente l’andamento della puntata. Sangue,
interiora, corpi straziati e mutilati. Uomini aitanti e muscolosi, e
perfino qualche donna poco coperta.
Ok, gli piaceva. Doveva assolutamente guardare il palinsesto per
sapere quando sarebbe stata la puntata successiva.
«Sì! Spaccagli il culo!», esulò il ragazzo, alzando un pugno al
cielo e facendo il tifo per un gladiatore.
Alla fine, data la situazione, Quinlan si ritrovò a stirare un
angolo della bocca in quello che doveva essere un abbozzo di sorriso.
Gli Antichi avevano sì capito di che pasta era fatto Gus, ma
sicuramente non sapevano che era capace di risollevare gli animi con il
suo comportamento. Senza accorgersene, il mezzovampiro lo strinse un
po’ più a sé, senza fargli male.
«Scusa, Quinlan, d’ora in poi non metterò più in dubbio i tuoi
gusti», sghignazzò, approfittando di una scena di sesso per parlare – a
parte i gemiti, i due attori non dicevano nulla di importante ai fini
della trama. «Dicevi, prima?».
“Mh?”.
«Sul Ferzu».
“Phersu”.
«Sì, insomma… quello. Che roba è?», chiese curioso.
“È un intrattenitore. Si divertiva, come hai visto, a tirare sempre
un po’ di più la corda, in modo da bloccare i movimenti dell’uomo
incappucciato, limitare quelli del bastone e avvicinare il cane, tutto
assieme”, spiegò l’altro.
Gus annuì. Era interessante, non ne aveva mai sentito parlare.
“Ci sono diversi simbolismi e parallelismi sul Phersu, ma credo che
a te piaccia di più la parte… come dire… pratica”.
Gus sorrise. «Puoi contarci, amico!». Tornò a guardare lo schermo.
La scena si era spostata a un banchetto e poiché i commensali erano
tutti ricchi e puliti non interessavano al ragazzo, che continuò a
chiacchierare con Quinlan. «Comunque quel gioco del Phersu è una cosa
idiota! È facilissimo vincere!», rise di gusto.
Quinlan lo guardò strano. “Cosa intendi?”.
«Pensa, entrambi hanno il volto celato, quindi se il giocatore
riuscisse ad avvicinarsi al Phersu prima del rito funerario e
scambiasse le parti…», un sorriso estremamente complice e malizioso
apparve sul suo volto, «…nessuno se ne accorgerebbe. E il carnefice
diventerebbe vittima, fottendoli tutti».
Quinlan lo ascoltò non riuscendo a celare la sorpresa, tanto che si
stupì che i propri muscoli facciali funzionassero ancora. Sapeva bene
che il messicano aveva avuto un’educazione scolastica carente, quindi
non poteva aver sentito da qualcuno quell’ipotesi.
Se si fosse ricordato come fare, Quinlan avrebbe riso quella volta.
“Sei davvero incredibile, Augustine”, gli disse, guardandolo negli
occhi. “Ne ho sentito tante di cose nel corso della mia vita, ma questa
mi mancava”.
Trovare una soluzione anche quando tutto sembra perduto, vedere
oltre le cose. Gus riusciva in questo grazie alla sua forte
adattabilità e il suo spiccato istinto di sopravvivenza.
«Mi sento onorato di averti stupito, vista la tua veneranda età», si
pavoneggiò il messicano, tornando poi a spalmarsi sul corpo caldo
dell’altro. «Come sto bene, qui con te…», esalò in estasi, usando –
sempre con il dovuto rispetto – Quinlan come fosse un peluche extra
large. Grazie al mezzo vampiro molti suoi sogni si erano realizzati.
“Davvero stai bene… con me?”, domandò Quinlan, ancora più sorpreso
rispetto a prima.
«Certo!», sorrise Gus, sollevando un po’ le spalle per poterlo
guardare. «Peccato solo che mama
sia in mano a quei fottuti bastardi, ora come ora ti seguirei ovunque
anche senza il ricatto psicologico».
Quinlan ormai da tempo non stava in compagnia dei vivi ed era
passato ancora più tempo da quando quella compagnia era voluta da
entrambe le parti. Forse dai tempi dell’Antica Roma. Non aveva
avuto legami con nessuno da allora e avrebbe perdurato per l’eternità a
condurre una vita libero, per non avere debolezze, per non soffrire più
come allora. Ma, nonostante tutto, nonostante quello che si diceva
sempre, in Gus c’era qualcosa che lo attraeva magneticamente.
Non pensò a nulla quando strinse la vita del ragazzo con un braccio;
e continuò ad avere la mente sgombra e leggera anche quando invertì le
loro posizioni, facendolo trovare sotto di sé, bloccato dal peso del
suo corpo.
«Quinlan?», lo chiamò il ragazzo, sentendosi così debole, piccolo e
insignificante davanti alla forza di quel bestione. Era relativamente
tranquillo, non gli avrebbe fatto del male. Pensò solo che volesse
mettere alla prova le parole di prima, per vedere se si sentiva davvero
a proprio agio con un mezzovampiro su di sé.
Invece non erano queste le intenzioni di Quinlan, lui in quel
momento stava solo seguendo un istinto primordiale a cui ben poche
volte aveva dato ascolto. Non voleva pensare alle conseguenze del suo
gesto, né ai legami che avrebbe potuto creare. Semplicemente calò le
labbra su quelle di Gus, smorzandogli il respiro e – probabilmente –
bloccando sul nascere una colorita protesta.
Con gli occhi quasi fuori dalle orbite per la sorpresa, Gus lo
spinse con forza e determinazione dalle spalle, allontanando la bocca
dalla sua.
A quel gesto, Quinlan capì l’antifona: Gus non gradiva. C’era da
aspettarselo.
Schiacciato contro il divano da quel corpo caldo, colossale e dotato
per natura di tutto ciò che serviva per farlo fuori se solo avesse
voluto, Gus non aveva certo la possibilità di farsi valere, però aveva
sempre condotto una vita da ratto, e avrebbe morso fino alla fine, se
necessario.
«Se ti azzardi a usare la lingua ti uccido. Mi ripugna quella cosa»,
lo minacciò Gus – come se le sue parole potessero spaventare il
mezzovampiro –, per poi sollevare la testa e baciarlo di rimando.
Quinlan allargò a sua volta gli occhi scarlatti, incredulo.
Aveva fatto bene a seguire l’istinto e farsi avanti con quel ragazzo
che gli stava mordicchiando le labbra e carezzando la schiena da sopra
la felpa.
“Non pensavo che ti piacessero gli uomini”, gli fece sapere
mentalmente.
«Mi piace la concha e i
tipi fighi come te, purtroppo non si può sempre avere tutto», ammise
Augustine, interrompendo il bacio e lasciando che le mani di Quinlan
scivolassero sotto la sua maglia, riscaldandolo. «E la fine della
puntata?», domandò, ridacchiando.
“Se vuoi, la danno in replica domani”, rispose l’altro.
«Potremo non esserci, domani».
“Allora è meglio spegnere la televisione”, rispose il Nato,
arrivando facilmente a schiacciare il tasto di spegnimento del
telecomando con il lungo e arcuato dito medio.
Sapevano entrambi quanto era rischioso mettere in gioco i
sentimenti, ma era certamente meglio sentirsi vivi in quel modo carnale
e passionale, piuttosto che perdere del tempo prezioso, soprattutto in
circostanze come quella, dove entrambi erano protagonisti di un gioco
funerario indetto dal Padrone, che si divertiva a intrattenere
Manhattan proprio come il Phersu, legando a doppio filo i cari cambiati
e lasciandoli in balia dei cacciatori di vampiri.
Ma qui il gioco era più perverso, perché sotto il sacco che celava
il volto al giocatore non c’era un uomo, ma un’altra maschera del
Phersu. Perché il padrone era intrattenitore e giocatore insieme, e
quel filo non limitava i movimenti dei cambiati, ma li conduceva come
mossi dalle mani di un sapiente burattinaio.
Qui era il cane ad avere spesso la peggio contro due avversari
insieme e maledire quella corda che li univa a essi.
Perché i legami non si possono rompere, e il caro cambiato trova
sempre l’altro capo del filo.
Perché a Manhattan i legami facevano male da morire.