Note:
Schadenfreude è una parola tedesca utilizzata
internazionalmente; il significato è spiegato nel corso
della fic. Originariamente era una one-shot, ma l’ho divisa
in due capitoli per la lunghezza.
Una buona parte della storia è immersa nel passato, fra
flashback e ricordi riesumati da particolari situazioni.
Altre note: L’izakaya è un locale tipicamente
giapponese, riconducibile a una birreria adibita anche a ristorante, in
cui si vende una gran varietà di sakè.
Prologo
.
Schadenfreude.
Tutti la provano.
Molti la amano.
Canini, pelo, unghie.
Spizzichi di gioia perversa, bocconi di dolce amarezza.
Il minimo di animale che è rimasto in ogni uomo.
[Quando vede il compagno
crollare sotto le zanne del più forte e rimane in disparte
ad assistere]
E la prova, quella gioia segreta.
Una gioia insita, l’essere al sicuro mentre la vittima di
turno paga col suo sangue.
Una gioia oscura.
[Quando ride
dell’amico che viene umiliato dinanzi alla folla]
Codardia?
No.
Cattiveria?
In parte.
Istinto, lotta per la sopravvivenza.
Questo sì.
[Quando nota con
divertimento che la fortuna riprende a girare e che anche i migliori,
finalmente, soccombono]
Schadenfreude
Che impera.
Schadenfreude
Che carbura il mondo.
Schadenfreude
Dentro ognuno di noi.
E’ un piacere colpevole.
E’ l’amarezza di subirla.
E’ la difficoltà nell’ammetterne
l’esistenza.
E’ la forza che muove il delinquente, che fa strisciare il
disgraziato, che fa godere il perverso.
Schadenfreude
E’ il piacere provocato dalla sofferenza altrui.
*
Capitolo 1
La cameriera scalciò.
Dopo un rapido, apprensivo controllo all’integrità
degli appariscenti collant viola, si allontanò borbottando
dal tavolino; i grandi occhi azzurri si rivolsero al barista, in una
smorfia di pura accusa.
“Quella bestia mi ha messo le mani addosso!”
pigolò, indicando con un cenno ben evidente
l’avventore che la fissava famelico, inginocchiato sul suo
tatami.
“Allora vai a dire a mia madre che ti dimetti”.
Quando il barista si limitò a sollevare le spalle con poche,
graffianti parole, incassando fra di esse la testa dalla bizzarra
pettinatura, Ino fece scattare preziosamente in alto il naso affilato,
dirigendosi sulle lunghe gambe da stambecco verso la cucina del locale.
Il ragazzo sospirò, osservandola sparire oltre la tendina
composta da sottili strisce di bambù.
Cosa si aspettava?
Un izakaya malfamato di periferia, frequentato dalle peggiori razze di
delinquenti, un vestiario che metteva in evidenza il fisico perfetto,
lunghi e lucidi capelli biondi; elementi che per la diciottenne
determinavano l’indubbia inclinazione al pericolo, lavorando
la sera nel locale dei Nara.
Raggiustandosi il codino di capelli mori, il barista tese le braccia
sul bancone, abbandonandosi ad una apatica ammirazione del suo regno,
momentaneamente quieto.
Nel suo splendore di insospettabile fallito si mostrava così
Shikamaru Nara, vent’anni. Promessa scolastica ritiratasi dal
liceo per eccessiva pigrizia, finito a lavorare nell’izakaya
di famiglia.
Non che la sua vita fosse migliorata da quando i suoi genitori,
profondamente delusi, l’avevano piazzato dietro il bancone,
ad occuparsi della sezione bar.
No.
Semplicemente un vero
inferno.
Il vociare soffuso dell’area ristorante condiva la luce
notturna del locale di calda familiarità, investendo
dolcemente i numerosi avventori seduti ai tavolini. Rumore di boccali
sbattuti sul legno, di risate folli, di sottile, ambiguo degrado.
Falliti frequentavano il locale. Uomini e donne senza lavoro, senza
compagno, senza famiglia.
Disgraziati frequentavano il locale. Immigrati, miseri individui
viventi sotto un tetto precario o del tutto assente.
Mafiosi frequentavano il locale. Membri della Yakuza, celeberrima
organizzazione mafiosa giapponese. Più clan, fra
rivalità e alleanze, si presentavano ogni sera a bere un
sorso, a discutere, a puntare vittime…
A controllare il locale.
Shikamaru represse uno sbadiglio, abbandonando stancamente i gomiti sul
bancone. Persino i piedi terribilmente indolenziti furono accantonati
dal suo pensiero, mentre tre uomini tatuati facevano il loro puntuale
ingresso nel locale.
Il vociare s’interruppe per un momento. L’uomo che
li guidava, dai lunghi capelli corvini scalati sul volto pallido,
sembrava aver premuto il tasto di pausa di un telecomando al suo
mostrarsi oltre la soglia. Le chiacchiere ripresero, frenetiche, mentre
Sasuke Uchiha sedeva coi suoi compagni a un tavolo libero. Shikamaru
sbuffò, avvertendo un brivido correre lungo la schiena.
Yakuza.
Chi per mestiere, chi per dovere, chi per piacere.
Schadenfreude.
L’indubbio piacere di imporre il proprio dominio, manifestato
da parte di tutti i mafiosi tramite gli inconfondibili tatuaggi che ne
ricoprivano il corpo.
Uchiha richiamò la cameriera con un cenno imperioso,
assecondato all’istante; le iridi scure luccicarono, confuse
fra la giungla di arabeschi neri che si diramavano per buona
metà del suo volto inequivocabilmente attraente.
Gli occhi di Shikamaru si ravvivarono appena all’irruzione di
un ragazzo corpulento, che lo raggiunse al bancone portandosi dietro
l’umida aria fredda della statale. Un sorriso gli solcava il
volto paffuto mentre piantava i piccoli occhi in quelli del barista,
l’aria concitata.
“Il Lupo è in gabbia” elargì
senza preamboli, trionfante.
Il ragazzo dovette apportare un cambiamento al pigro programma che
caratterizzava il suo regolare approccio con Choji.
“Hanno preso Inuzuka?” chiese, moderando
l’interesse nella voce. L’amico annuì
freneticamente , facendo ondeggiare le scarmigliate ciocche castano
chiaro.
“La polizia ha beccato alcuni spacciatori alla
stazione” ansimò, sopraffatto
dall’entusiasmo. “Ci sono stati degli intrallazzi,
non so dirti esattamente ma… pare che l’abbiano
consegnato quelli dell’Akatsuki”.
“Il clan di Pain e quello di Inuzuka sono alleati”
borbottò il moro, scoccando un’occhiata seccata a
un avventore che si avvicinava al bancone, pronto ad ordinare.
“Infatti credo che all’Akatsuki non la
perdoneranno, questa” ghignò Choji.
“Hanno consegnato un uomo del clan Konoha per salvare il culo
ad uno del loro. Furbi, no?”
Shikamaru non s’informò sul come e sul
perché.
“Sakè della casa” ordinò
l’uomo al bancone, digrignando i denti su una sigaretta
spenta. Scoccato un fiacco sguardo d’assenso a Choji, il
barista si voltò verso le mensole stipate di bottiglie, gli
occhi stanchi velati da una sottile malinconia.
Non riusciva a sentirsi entusiasta per la notizia.
Forse, semplicemente, aveva sperato in qualcos’altro che
riguardasse l’Akatsuki.
Forse, semplicemente, una patina opaca si stendeva sul suo sguardo
mentre ricordava un altro momento in cui si era ritrovato a cianciare
di mafiosi con Choji.
Quella volta però, oltre bancone c’era una donna.
“Kirin grande
anche per me”
Armata di vestito
cremisi tanto succinto quanto pericoloso, la bionda sedette bruscamente
sull’alto sgabello. Le forme generose, fasciate di sgargiante
seta rossa, scesero invitanti con lei a portata d’occhi del
barista.
“Vedo che ci
vai pesante” biascicò, riaggiustandosi con forzata
indifferenza il codino erto.
Un piede penzoloni e
l’altro premuto contro il bancone, Choji ghignava scomposto,
osservando l’amico allontanarsi per riempire di liquido
ambrato due sostanziosi boccali.
La schiuma
traboccò, accompagnata dal sordo battere dei boccali sul
bancone; con un esperto, noncurante movimento di polso, Shikamaru li
indirizzò ai due clienti, facendoli slittare rapidi sul
piano bisunto.
Choji si
avventò sulla birra, avido.
“Una volta
nella vita potresti scomodarti a portare i boccali fin qui”
sbottò la donna, generando l’involontario agitarsi
dei quattro eccentrici codini. L’interpellato
s’immobilizzò, lo sguardo puntato oltre la spalla
abbronzata di lei.
“Nara”
Le sopracciglia arcuate scattarono in alto, mettendo in evidenza due
verdi occhi felini. “Perché quella
faccia?”
Shikamaru perse presto
interesse per la porta del locale, tornando a puntare i gomiti sul
bancone con indolenza. Choji dispiegò le labbra con aria
sorniona e spostò grossolanamente il suo sgabello,
ravvicinandolo a quello della ragazza.
“Stava
guardando i tizi appena entrati” suggerì,
suscitando lo sguardo interrogativo di lei.
“Yakuza”
fu l’eloquente spiegazione.
“Cosa?”
La ragazza si voltò di scatto, incurante del gesto palese.
“Mafia,
Temari. Mafiosi” ghignò il corpulento ragazzo,
tracannando un sorso di birra da soffocamento. Una vaga irritazione si
diffuse bruciando per la gola di Shikamaru, provocandogli uno sbuffo
contrariato.
Lo sguardo di Temari
vagò accigliato sui tatami illuminati di luce fioca e
ambrata. Immersi nella penombra, tre giovani sedevano in un angolo,
sigarette fra i denti e occhio provocatorio.
Il barista si
strofinò le mani nel grembiule con malcelato nervosismo.
“Non girarti
così, Mendekouze”.
Ma
l’attenzione di Temari rimase inesorabilmente concentrata sui
tre ceffi, alternandosi tra la croce uncinata sulla fronte del
più alto, i tondi occhiali scuri dello Yakuza che gli sedeva
accanto e la prorompente zampa artigliata che svettava sullo sterno del
terzo.
La mente di Shikamaru
corse a rimembranze poco piacevoli mentre il giovane si sbottonava
ulteriormente la camicia, esibendo per intero l’eccentrico
tatuaggio di un segugio infernale, valorizzato dal ghigno tronfio del
suo proprietario.
“Passane un po’ anche a me, Shika”
Il bancone tornò quieto, animato solo dalle sparute
chiacchiere di Choji.
Sguardi furtivi saettavano attraversavano la sala di tanto in tanto, la
gran parte dei quali era indirizzata all’appetibile cameriera
e ai silenziosi Yakuza.
Certo, fra i pezzi da novanta c’erano anche banconote false.
Stazza bovina, tatuaggi tribali che serpeggiavano affilati su
avambracci e collo, arrivando alle sottili sopracciglia brune, Sabaku
no Kankuro sedeva vicino alla porta, ululando il suo brillo umore con
un compagno di bevute immerso nella penombra.
Shikamaru sapeva che Kankuro non era uno Yakuza, contrariamente a
quanto si sarebbe potuto dedurre dagli estesi tatuaggi. Non era che un
coraggioso ribelle, un alternativo sfuggito alle redini della sua
famiglia per ostentare sfacciataggine e violenza.
Il barista osservava, captava, immancabilmente ascoltava. Veniva a
conoscenza dei fatti di tutti quei clienti che frequentavano
abitualmente l’izakaya, convincendosi ogni giorno di
più che ognuno portasse in petto un segreto oscuro.
Sapeva che Rock Lee era un disoccupato degenerato dall’alcol,
conosceva ogni risvolto del suo pessimo trascorso. Sapeva che Karin,
spesso in compagnia degli uomini di Sasuke, batteva la notte.
Sapeva che Sabaku no Kankuro aveva una sorella…
Stop.
Quella era una storia proibita alla sua stessa memoria, facente parte
della categoria ‘errori’. Si costrinse ad
escluderla dalla propria mente affollata.
Conosceva dettagli e segreti di molti, troppi altri clienti abituali,
talvolta beandosi inconsciamente delle loro disgrazie.
Schadenfreude.
Ma aveva la spiacevole sensazione di sentirsi imbattuto.
Osservò Choji scolare il suo bicchiere, lasciandosi invadere
dai riflussi della mente.
Choji si
ticchettò una guancia con le dita callose, sorridendo.
“Guarda come
si sente caldo stasera In-”
“Inuzuka,
sì” tagliò corto il moro. Le sue labbra
si incrinarono in una smorfia di disgusto, specchio dei suoi pessimi
pensieri.
“Yakuza,
dite?” Le dita di Temari si serrarono sul manico del boccale
in un movimento che di femminile aveva ben poco. “A me
sembrano più come quell’idiota di mio fratello.
Wannabe… ridicole imitazioni di gangster”.
Shikamaru e Choji si
rivolsero un rapido sguardo prima di scoppiare in una risata roca. La
giovane si strinse imbronciata nelle spalle, mettendo in evidenza le
morbide curve.
“Le donne sono
una razza sveglia, lo dico sempre” ghignò
sarcastico il moro, allontanandosi per ascoltare
l’ordinazione di un oscillante impiegato.
“La vedi
quella cosa sulla fronte di Hyuga?” proferì
burbero Choji, indicando l’uomo in questione con un cenno del
capo ispido.
La donna si
voltò accigliata verso gli Yakuza, discretamente seguita
dalla coda dell’occhio di Shikamaru. Il ragazzo
filò verso i boccali, senza però perdere di vista
la traiettoria seguita da quei magnetici occhi verdi.
Neji Hyuga, scuotendo la
lunga chioma corvina, stava ammonendo con uno sguardo di puro gelo il
compagno dai capelli castani, la cui mano più simile a
un’irsuta zampa di licantropo aveva sfiorato la gamba
svettante della cameriera.
“Be’?
E’ una svastica” osservò Temari con
indifferenza, mentre Ino si allontanava indispettita dal tavolino dei
tre uomini, un vassoio d’alluminio stretto fra le unghie
smaltate.
“Sì,
e una svastica non si tatua per gioco” borbottò
Choji in risposta, serio.
Le iridi smeraldine di
lei si soffermarono sulle impugnature di quelle che erano
inequivocabilmente mitragliette, sporgenti senza alcuna discrezione
dalle cinture dei tre.
Le labbra carnose si
inclinarono sotto il debole morso degli incisivi, forse non tanto alla
vista delle letali Wz63, quanto per la constatazione di avere
nettamente torto.
Quelli erano veramente
Yakuza.
E lei era veramente,
sfacciatamente sexy.
Il forte odore della
birra penetrò nelle narici di Shikamaru mentre il liquido
scivolava sulle sue dita, traboccato dal boccale già pieno.
Imprecò.
Chiuse bruscamente la manopola del distributore e schiaffò
il boccale ricolmo di fronte all’avventore, ciondolante in
attesa.
E come se non bastasse,
al suo ritorno di fronte ai due clienti notò con disappunto
che erano molto, troppo vicini. I loro sguardi erano rivolti
all’unanimità verso il mafioso dalle
imperscrutabili lenti scure, presi da una fitta conversazione.
“Davvero, non
sai quel che dici” stava ridacchiando Choji, sventolandole
una mano di fronte al naso. “Lo sai come lo chiamano, a
quello?”
“Spara”
buttò lì Temari, affondando nel suo boccale di
Kirin.
“La mantide di
Osaka” rivelò l’Akimichi, facendo
schioccare le labbra nel sommo compiacimento delle proprie conoscenze.
Il tono sfumò sibilante, conferendo al titolo dello Yakuza
un tocco di inquietante mistero.
“Mantide? E
perché mai?” borbottò Temari, scrutando
rabbuiata il fondo spesso del boccale.
Shikamaru si
allungò placidamente sul bancone, la mano a sostenere il
mento, un sorriso sghembo a ravvivare l’espressione ironica.
“Non sai che
cos’è una mantide, Sabaku?”
“Oh, certo che
lo so” Abbaiò la bionda, le labbra scarlatte
disegnate in una smorfia d’irritazione.
“Ma non vedo cosa c’entri con quel…
coso”
Un robusto braccio
villoso le passò attorno al collo, seguito
dall’odore delle parole di Choji. Vacillanti e pregne
d’alcool.
“Ti consiglio
di non urlarlo, Temari” sogghignò, le ispide
ciocche ramate contro il viso di lei. “Le mantidi sbranano il
compagno dopo averlo usato… si dice che Aburame abbia sulla
coscienza la pelle di parecchie donne di strada”.
Shikamaru estrasse uno
straccio malridotto e si dedicò alla pulizia del rigido
piano, reso opaco da gocce di varia e sconosciuta natura. Un grugnito
d’irritazione gli incupì la gola.
Un grugnito di gelosia;
i suoi occhi ricadevano a intermittenza su di lei.
Shikamaru allontanò le mani dal bancone, posando lo sguardo
su quello rabbuiato di Choji.
Stava pensando.
Succedeva a tutti, presto o tardi, trovandosi di fronte ad un bicchiere
di sakè.
Scrutando in religioso silenzio il liquido scuro, si contemplavano il
proprio passato, i propri errori, il proprio oscuro segreto decantato
sul fondo di vetro.
Quello di Shikamaru era che pagava il pizzo.
Distolse bruscamente lo sguardo, ritirandosi nella cucina. Le bianche
mura, i vetri, i tavolini.
Si sentiva stranamente attaccato a quello squallore, ben sapendo che
l’integrità dell’intero locale dipendeva
dai suoi pagamenti.
Gli Yakuza non erano soltanto mafia.
Erano le sue catene. Il legittimo proprietario del locale, suo padre,
non sapeva nulla di ciò. Si limitava a fissare quegli
eccentrici uomini tatuati con sguardo critico, ignaro del ricatto che
suo figlio subiva.
Uno Shikamaru ormai inespressivo osservò sua madre gettare
in una padella della cipolla appena tagliata, presa
dall’affanno del suo compito di cuoca.
Che umiliazione.
L’Akatsuki aveva semplicemente capito che lui, Shikamaru
Nara, non avrebbe mai confessato del pizzo alla sua famiglia, che non
l’avrebbe mai messa in pericolo. Non era l’uomo
‘cazzuto’ che tutti consideravano suo padre, mai
sarebbe stato in grado di uscire dal racket delle estorsioni con una
denuncia.
La codardia gliel’avevano letta negli occhi.
*
“Ancora sakè, piccola?”
La donna storse il naso in una smorfia involontaria, roteando il
contenuto del bicchiere sul fondo di vetro. Si ritrasse contro lo
schienale dello scomodo divanetto squadrato, rivolgendo uno sguardo
astioso al biondo stravaccato dall’altra parte della sala.
Un volto ghignante si avvicinò al suo, illuminato dalle
psichedeliche luci laser.
“No, grazie” urlò oltre i forti battiti
vibranti di musica, costringendosi a distogliere lo sguardo dalle
numerose scostumate che si prodigavano contro i pali da lap dance.
Li fissò invece sulla chioma albina dell’uomo che
le sedeva accanto, meticolosamente allisciata contro la nuca da
un’abbondante dose di gel.
Hidan la osservò al di sopra del bicchiere, un sorriso
obliquo dischiuso sui denti perfetti.
“Sembri a disagio… Temari”
La sua lingua dardeggiò vogliosa nel pronunciare il suo
nome, quasi gustandolo.
“Non mi piacciono i locali” replicò lei,
indifferente.
Mi ricordano pessime
esperienze.
L’uomo scoppiò a ridere, osservando con moderato
interesse una ragazza appena maggiorenne dare inizio a un provocante
strip-tease.
“Tranquilla, dolcezza. Siamo solo di passaggio” le
sibilò nell’orecchio, avido. “Giusto il
tempo di far parlare Sasori col nostro amico, qui… Pain.
Questioni d’affari”.
“Pain… qui?” la bionda si
sistemò bruscamente un ribelle codino biondo, storcendo le
labbra carnose al ricordo dell’uomo devastato da piercing.
Fortunatamente, aveva avuto l’onore di incontrarlo poche
volte insieme agli altri della gang.
“Oh, è il proprietario di questo Night Club. Non
te l’avevo detto?” Le iridi ametista di Hidan
luccicarono d’interesse, vive. Temari sfiorò con
lo sguardo il muscoloso braccio che le passava attorno alle spalle,
tatuato –come del resto gran parte del corpo- a rappresentare
fedelmente lo scheletro dell’uomo, invisibile sotto la cute
lattea.
Tacquero a lungo, osservando con distacco i corpi sinuosi muoversi a
ritmo del martellante rumore. Nel lasso di tempo in cui attesero il
ritorno di Sasori, numerose ragazze appena maggiorenni sparirono dalla
pista in favore di luoghi più appartati, accompagnate da
uomini più o meno giovani.
Anche Deidara era sparito, accompagnato da due o tre figure
lampeggianti vestite di pizzo.
Spazzatura.
Il braccio di Hidan attorno al collo le risultò stretto,
mentre l’ennesima sfilata di ombre percorreva il suo volto
abbronzato.
Temari detestava quel degrado, quell’abbandono totale al lato
più animale e sporco dell’essere umano. Aveva
sempre disprezzato quelle puttane, quelle bestie, quegli sfruttatori.
Ma dopo che anche la fazione ‘perbene’ del mondo le
aveva voltato le spalle, cosa le rimaneva? La spazzatura. La vita in
adattamento, trastullata dalla compagnia degli amici di suo fratello.
L’uomo dai capelli rossi li raggiunse, provocando una forte
pressione delle unghie di Hidan contro la sua spalla. La bestia era
ansiosa, bramava.
Temari si sottrasse impercettibilmente al contatto.
La pallida cute come sempre solcata da tatuaggi permanenti, Sasori
sistemò distrattamente un sacchetto in una borsa a tracolla,
puntando i fiochi occhi fulvi su Hidan. Così vicino
all’albino, a diretto confronto, era davvero difficile
stabilire quale dei tatuaggi dei due uomini fosse di gusto peggiore.
“Andiamo?” Hidan si sollevò dal divano
in un fluido, sensuale movimento.
“Andiamo” rispose Temari, schioccando la lingua al
sapore acre del vino di riso. Pose il bicchiere su un tavolino e li
seguì all’esterno.
L’uomo dai capelli rossi attraversò la pista senza
dire una parola, etereo e impassibile fra la folla di femminile carne
vivente.
Le labbra scarlatte della donna si spalancarono a contatto con
l’aria esterna, frizzante, strappando un sorriso ibrido di
malizia e compassione a Hidan, che alto ed elegante al suo fianco, la
osservava morbosamente.
Mantenendo sguardo lontano e silenzio serrato, Temari scortò
i due uomini verso la Mercedes grigio metallizzato, godendo della
libertà appena guadagnata.
Bar, taverne, izakaya, night club; quali che fossero, detestava
fieramente i locali.
Con tutto il cuore.
Prima di realizzare che
Kankuro era perfettamente in grado di badare a sé stesso
-tanto da non aver bisogno del suo costante controllo-, prima di
ammettere a sé stessa che se continuava a tornarci ogni sera
il movente non era certo suo fratello, Temari detestava dover passare
la serata nell’izakaya dei Nara.
A questo ripensava
mentre, sventolando con fiera indifferenza un ventaglio di gusto
tipicamente giapponese, sedeva di fronte ai due uomini, le gambe
accavallate.
A destra sedeva suo
fratello, i tatuaggi tribali ben visibili sulla linea della mascella e
sulle braccia poderose. Mentre l’altro…
Capelli rossi, di un
cremisi tanto bruciante da sembrare sintetici.
Anelli sofisticati alle
dita affusolate, occhi di un rosso fulvo e un pessimo tatuaggio
full-body, che ritraeva sul corpo proporzionato numerose giunture
lignee; ben delineate e diffuse, lo facevano assomigliare ad
un’inquietante marionetta fuori misura.
Sì,
decisamente l’astio per l’izakaya dei Nara
ritornava a vociare quando suo fratello gli presentava gente del
genere.
“Questo
è Sasori, Tem” biascicò Kankuro,
battendo un pugno sul tavolino.
“Piacere”
esordì fredda, gettando indietro la chioma biondo miele. Lo
sconosciuto tese pacatamente una mano, che lei strinse con diffidenza.
Quegli occhi fermi, rossi ma inerti come tizzoni morenti, brillavano di
una luce che non le piaceva. Affatto.
“Viene spesso
qui dai Nara e mi ha fatto conoscere i suoi amici… gente
tosta” proseguì Kankuro ridacchiando, gli occhi
torbidi socchiusi.
“Pensavo di
presentarteli tutti, girano da queste parti stasera, eh
Sasori?”
L’uomo si
limitò ad assentire, ignorando composto la gomitata nelle
costole appena ricevuta dall’amico. Le labbra di Temari si
storsero in una smorfia appena percettibile.
Voltò una
rapida occhiata al barista. Testa ad ananas stagliata contro le mensole
stipate di bottiglie, Shikamaru stava fissando Sasori con espressione
indefinibile.
Preoccupata, forse.
Oppure… gelosa.
“Va
bene, Kankuro” esclamò la donna, il tono
inutilmente elevato. “Fammi conoscere gli amici
di… Sasori, giusto? Saranno sicuramente molto
interessanti”.
Gli occhi felini
balenarono ancora un istante verso il bancone, in un luccichio di caldo
compiacimento.
I palazzi decadenti di un’Osaka periferica filavano cupi
oltre il ciglio della strada.
Un gioco iniziato per seduzione, per suscitare stupida, infantile
gelosia.
E così si ritrovava in macchina con questi ‘amici
di Kankuro’, tatuati dalla testa ai piedi. Con un fratello
simile in casa ci aveva pur fatto l’abitudine.
Il motore rombava ovattato, accompagnato dai discorsi dei due uomini,
sempre così incomprensibili alle sue orecchie. Ticchettava
le unghie contro il cruscotto, ritmicamente.
“Lo stai strizzando troppo, quel Nara”.
Temari sollevò lo sguardo, rivolgendolo verso Hidan. Seduto
sul sedile posteriore, l’albino ghignava sornione,
rivolgendosi a Sasori.
Nulla da stupirsi. La donna scosse la testa, facendo ondeggiare le
lunghe ciocche dorate. Frequentavano tutti l’izakaya dei
Nara, inutile sorprendersi del fatto che conoscessero quella famiglia
di…
“Quando torni dal ragazzo a riscuotere?”
proseguì l’uomo, un noncurante divertimento a
insaporire il timbro inconfondibile della voce viscida.
“Shikamaru, giusto?”
Gli occhi felini di Temari si spalancarono, accompagnando un insano
interessamento.
Il suo orgoglio di donna lo urlava: non avrebbe dovuto neanche
ascoltare. Ma…
Riscuotere cosa?
“Sì, Shikamaru” fu la lapidaria risposta
del rosso. Sasori fissava la strada, le accecanti luci notturne
riflesse sulle lenti convesse dei costosi Ray Ban. “Passo
sempre a fine mese. Ancora undici giorni”.
“Ah!” Hidan gettò la testa indietro,
abbandonandosi a una risata appagata. Temari aggrottò la
fronte. “Tanin no fukou wa mitsu no aji, come si suol
dire” commentò, languido.
Un brivido corse lungo la schiena della donna nell’udire il
proverbio.
‘I mali altrui
hanno il sapore del miele’.
“Deidara ha avuto occhio” proseguì, la
lingua fra i denti. “E’ decisamente il moccioso che
non ha le palle di denunciare. Succhi da una preda perfetta,
Sasori”.
Un colpo, una fucilata in petto. La bionda voltò lentamente
il capo sul poggiatesta, improvvisamente confusa.
“Denunciare… cosa?”
“Il pizzo, cara!” Sasori sorrise appena alla
dichiarazione estasiata di Hidan. “Shikamaru Nara deve pagare
il pizzo per evitare che noi della Yakuza gli bruciamo il
locale”.
Inconfondibile, viscida…
Schadenfreude.
Fraintese lo sguardo di Temari, pietrificato.
“Avanti, non dirmi che non lo sapevi! Lo sa tutta la
città… tranne i suoi genitori”
spiegò, un ghigno a fior di labbra.
“Voi… voi Yakuza?”
Per un momento, l’unico suono ad animare
l’abitacolo fu il sibilo dell’aria contro i vetri
scuri. La Mercedes si arrestò al semaforo, silenziosa.
“Cristo” osservò Sasori, tranquillo.
“Infatti” ringhiò l’albino,
divertito. “Kankuro non ti ha raccontato nulla di noi,
Temari?”
No.
Kankuro non le aveva mai detto che aveva a che fare con dei mafiosi.
Kankuro non le aveva mai detto che Shikamaru Nara veniva ricattato.
Un baratro di prospettive le si spalancò sotto i piedi,
convergendo in un’esplosione frenetica di terrore.
“Questa è estorsione!” gridò,
voltandosi furente verso i due uomini.
“Voi…” Smise di pensare, sentendo il
sangue salire alla testa come il magma si prepara a traboccare dal
vulcano.
Si scagliò contro lo sportello, spalancandolo di slancio
sotto lo sguardo allibito di Sasori.
“Ehi, bambola!” Il ruggito di Hidan la raggiunse,
seguito dalla sua mano prepotente.
“Mollami!” sbottò, divincolandosi
dall’impietosa stretta al braccio. “Mollami,
stronzo!”
“Che succede, quando scopri che i giocatori sono sporchi ti
ritiri?” rise, sprezzante, trascinandola dentro. Temari si
liberò dell’uomo con uno strattone, maledicendosi
per essere stata così ingenua.
Sapeva che non avrebbero mai osato torcere un capello a lei,
ma…
Il suo pensiero corse dove non doveva.
Lui l’aveva abbandonata, proferendo la fine di una storia a
cui non era più interessato. Non poteva, non doveva considerarlo
ancora parte della sua vita.
La strada bruciava via, slittando rapida sotto i suoi piedi. Mai
l’asfalto era stato tanto effimero mentre lo divorava a passo
veloce, i capelli dorati che morivano in scintille nel buio della
notte.
Doveva parlare con Kankuro, al più presto possibile.
*
La mano sudata scivolò oltre la guancia,
sull’orecchio, nei capelli ormai arruffati dal nervoso
passaggio delle dita inquiete. Storse la bocca, sentendo la cute
rigarsi sotto le unghie ormai spezzate.
Faceva freddo, schifosamente e incessantemente freddo.
Il tempo passava; troppo lento, troppo veloce.
Non avrebbe saputo dirlo. Semplicemente, mentre sedeva scomposta in
cucina, ripeteva a sé stessa che avrebbe ammazzato Kankuro
non appena avesse rimesso piede in casa.
Le sue gambe sembravano rifiutarsi di rimanere ferme, i muscoli
contratti dalla tensione le provocavano mugolii di dolore repressi.
Abbandonò la testa sul tavolo, percependo con un brivido il
freddo legno sulla guancia.
Il degrado e l’abbandono facevano bella mostra ovunque nella
gelida stanza; dalle maioliche scalzate del pavimento alle decine di
oggetti abbandonati su mensole e ripiani, un vuoto silenzioso dilagava
percettibilmente per tutto l’appartamento.
Un organo vitale in meno, un pezzo di famiglia decaduto, da quando
Gaara se n’era andato. Da quando aveva intrapreso la lunga
strada già battuta dal padre per diventare avvocato, guidato
da una cieca ambizione, disconoscendo Kankuro come suo fratello. Un
indegno, un delinquente di strada, sostenuto da quell’uomo
mancato di sua sorella; forte di giudizi cinici e incapacità
di provare rimorsi, il più giovane dei Sabaku si era
discostato dalla sua famiglia, sorridendo di gelida soddisfazione per
la propria carriera ben spianata all’orizzonte, contrapposta
ai fallimenti universitari di Kankuro.
Schadenfreude.
Sempre lei.
E così Gaara aveva preso il volo. Primo abbandono, seguito
da una serie di altri non meno dolorosi. Le dita di Temari si serrarono
convulsamente sui palmi. A lungo i suoi occhi, brucianti, si posarono
scivolando sulla cucina ampia e spoglia, senza realmente vederla.
Poi, finalmente, il suono del campanello arrivò.
Sollevò immediatamente la bionda testa sfatta, sentendo la
guancia appiccicata al piano ligneo distaccarsene dolorosamente; il
cuore che le martellava in petto, corse per il corridoio e
spalancò la porta d’ingresso, di slancio.
Una folata di gelido vento invase l’ingresso, inducendola a
socchiudere gli occhi.
Storse il naso. Se non avesse avuto qualcosa di molto importante da
riferire al fratello, gli occhi li avrebbe chiusi direttamente. Kankuro
barcollò.
Fradicio. Ubriaco fradicio. Come sempre, d’altronde.
Le braccia tatuate pendevano inerti lungo i fianchi, seguendo il
febbrile spostamento che effettuava alla ricerca
dell’equilibrio; gli occhi di un verde cupo erano vacui,
arrossati, la bocca dischiusa in una smorfia inebetita.
Reprimendo le lacrime con un ringhio, Temari lo afferrò per
un braccio e lo trascinò dentro, suscitando colorite
proteste nel ragazzone.
“Piano, cazz… ehi!” La ragazza lo
strinse con maggior vigore, sino a sentire la pelle robusta congelarsi
nella sua morsa d’acciaio. Si arrestò in cucina,
dopo averlo spinto malamente a sedere.
Lasciò che le sue ispide ciocche castane si spargessero sul
muro, che gli occhi stanchi si rivolgessero al soffitto nel gettare la
testa indietro; poi, afferrandogli le spalle con forza, lo costrinse a
guardarla in faccia.
“Perché non mi hai detto niente?”
urlò, priva di controllo. Lo sguardo di Kankuro
vagò per il suo volto paonazzo, annebbiato. Dalle labbra
secche sgorgò un biascichio confuso:
“Che… sei fuori di testa?”
“Tu lo sapevi!” continuò Temari, una
luce ancor più disperata negli occhi. “Tu sapevi
che Sasori e gli altri sono mafiosi! Per quale cazzo di motivo non mi
hai detto nulla?”
La mano del fratello si strinse impietosa sul suo polso, bloccandole i
movimenti. Con un solo, fermo sguardo irrazionale la mise a tacere,
ringhiante. “Lasciami…”
La ragazza indietreggiò, la frangia umida che ricadeva
scomposta sugli occhi sbarrati. Kankuro reagì come una
bestia minacciata, la percezione distorta dall’alcol; la
spinse via con forza, mandandola a cozzare di fianco contro il
lavandino con un solo, disperato colpo di mano.
Temari filò fuori dalla stanza, gli occhi umidi, inorridita
e spaventata. Frustrata, oltre ogni dire.
Non poteva far nulla per lui, né lui poteva esserle di alcun
aiuto. Aveva imparato a gestire le sbronze di suo fratello con la
reclusione, di lui o di sé stessa.
Si chiuse la porta alle spalle, ruotò la chiave nella toppa
e crollò riversa sul letto disfatto, esausta.
La sua mente aprì le porte a pensieri di ogni genere, che si
affollarono impazziti per la sua testa martoriata. Primo fra tutti, un
lume accecante, doloroso.
Ricattato dalla Yakuza.
E non me l’ha mai detto.
Si coprì gli occhi con un braccio, respirando
affannosamente.
Forse non si fidava veramente di lei.
Forse aveva soltanto avuto paura.
Ad ogni modo, le aveva nascosto la verità; e ciò
non era che una variante del comune termine
‘mentire’.
Bugiardo.
Shikamaru era stato un bugiardo.
Un codardo che si rifugiava dietro una maschera pur di sfuggire ai
problemi.
Temari si maledisse ancora, per non aver colto i piccoli segnali, per
non essere stata in grado di comprendere dalle esperienze
apparentemente più insignificanti. Digrignò i
denti, lasciando che le immagini le invadessero la mente, correnti in
un dirompente flusso di ricordi.
“Bugiardo”
Le sopracciglia di
Shikamaru si aggrottarono, interrogative.
“Che
c’è ora?”
“Bugiardo”
ripeté, la voce che sgorgava a fatica dalla schiera di denti
poco finemente digrignati.
Il ragazzo non
indietreggiò neppure quando lei sollevò
bruscamente un braccio, fasciato nella larga camicia da notte.
Continuava a ostentare quell’odiosa espressione annoiata, da
schiaffi.
“C’è
che mi hai detto… che avresti avuto il turno fino a tardi
all’izakaya”sbottò, quasi boccheggiando,
i codini che danzavano furiosi attorno al viso arrossato. “E
che non saresti potuto venire a cena con me stasera!”
Shikamaru
roteò gli occhi, un pesante sbuffo a fior di labbra. Temari
sedette bruscamente sulla lavastoviglie, le gambe nude che spuntavano
oltre l’orlo fiorato della veste.
“Avanti,
Tem… non potevo mica dirti che c’era la
partita” buttò lì, con tutta
l’aria di un padre razionale che tenta di far ragionare la
figlia isterica. “Mi avresti sbranato se ti avessi detto che
per stasera ti avrei piantato per vedere partita con Cho-”
“Ma
l’hai fatto!” strepitò la bionda,
piombando a piedi scalzi sul pavimento. “E’ questo
il punto, l’hai fatto!”
“Avanti,
seccatura… sono passato qui per stare con te, non ti ho mica
dimenticata” sospirò lui, ficcandosi le mani in
tasca con aria profondamente spossata.
Non si
preoccupò neppure di chiederle come avesse scoperto che
l’izakaya era in realtà chiuso, come avesse capito
che era da Choji a vedere la partita. Menefreghista al massimo.
Temari gli diede la
schiena, dirigendosi verso la camera da letto; pochi passi e lui la
raggiunse, cingendole la vita con delicata lentezza.
Labbra calde le
sfiorarono il collo, facendola rabbrividire.
“Dai,
seccatura… mi perdoni se ti faccio compagnia
stanotte?”
Le sfuggì un
sorriso morbido, che represse con efficacia. Non si addiceva
né a lei, né alla situazione.
“Non
è questione di perdono, Shika” mormorò
sciogliendosi dall’abbraccio, più quieta.
“E’ che se mi racconti bugie per cose
così piccole, posso davvero fidarmi di te?”
Si voltò, i
loro sguardi s’incontrarono.
“Chi mi
dice” proseguì, piano “che tu non mi
nascondi anche cose più grandi?”
Un’ombra
passò sul volto di Shikamaru.
In distaccato silenzio,
distolse lo sguardo dal suo.
Il retrogusto amaro del sakè pervadeva ancora la sua bocca.
Affondò il viso nel cuscino, sentendo il viscido contatto
della stoffa bagnata impregnarsi di mascara.
Una lunga serie di colpi risuonò alla porta, ritmica; si
rannicchiò su un fianco e attese che Kankuro terminasse di
bussare, ignorandolo. Quando i passi del fratello si affievolirono,
strascicando finalmente oltre la porta della sua stanza, Temari si
morse con violenza il labbro inferiore. Serrò le palpebre.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Avrebbe potuto denunciare, conoscendo i nomi degli Yakuza.
Avrebbe potuto… non fare. Perché sudare? Per chi,
per lui?
Avrebbe potuto lasciarlo marcire, guardarlo morire lentamente, logorato
dal racket.
E sarebbe stata meravigliosa, giustissima…
Schadenfreude.
O forse no.
Dormì un sonno inquieto, disturbato, contaminato. Spaccato in due.
Il suo orgoglio sanguinava da più parti.
***
Angolo
dell’autrice:
Ok, questo è stato il mio primo concorso. Ho lavorato un
mese e mezzo su una trama, poi… blocco creativo e cambio di
programma. Ho sviluppato un’altra idea (questa) e
l’ho elaborata durante un viaggio che sono stata costretta a
fare. Quindi, negli ultimi quattro giorni di tempo rimasti, ho scritto
come una pazza frenetica.
-Ho dovuto segare un giorno di scuola per fare in tempo a consegnare
-Ho praticamente avuto una crisi isterica per fare in tempo a consegnare
-Stressss… =_=
Alla fine non ero neppure così soddisfatta del risultato, ho
trovato la fic… frammentaria. Ho elaborato la trama e le
varie parti in giorni e giorni, ma in il risultato non mi soddisfaceva
ugualmente. Morale della favola, mi sono letteralmente ammazzata.
Per questo la mia sconfinata gratitudine va ai due giudici del concorso
bambi88 e arwen5786. *occhioni enormi* Sapere che tutto questo casino
(sì, ho anche creato qualche problema con la casella e-mail
perché non inviava la fic! Yay ^^) è
stato apprezzato al punto di meritare il primo posto mi fa
sentire… sì felice.
Ci tenevo tanto a questo concorso, davvero.
Grazie.
Che altro dire? ^^
Spero che leggendo apprezzerete questa fic. Fatemi conoscere i vostri
pareri! ** Posto il secondo capitolo.. uhm.. Mercoledì.
Sì, Mercoledì.
Un bacio enorme a tutti, soprattutto ai nostri giudici e a
tutte le partecipanti al concorso!
Chime
EDIT: Piccola aggiunta, sarò breve: per favore, non aggiungere questa fic ai preferiti se non avete intenzione di recensire . Ve lo chiedo come cortesia. Molte persone lo fanno, e ti lasciano quel senso come di... "Non saprò mai cosa le abbia spinte ad aggiungere ai preferiti la mia fic. Sarà piaciuta? Ci sarà finita per caso? Boh!"; per questo ho preso l'abitudine di ringraziare via e-mail queste persone, chiedendo la gentilezza di scrivermi il motivo per cui hanno apprezzato la fic, per e-mail o per recensione che sia.
Grazie in anticipo e a presto!
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