La laguna.

di MiaBonelli
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Non era una favola. Era la mia vita. La vita non è come una favola. Non esiste il castello e nemmeno un principe azzurro sul cavallo bianco. E io non sono una principessa. La mia vita è un competo disastro. Sto guidando la mia chevrolet camaro rossa. Meta? Non la conosco nemmeno io. Uno stormo di uccelli si alza in volo dal campo che sto costeggiando. È una giornata come molte altre potrei dire. Ma in fondo so che non è così. La mia mente è confusa. So che sto fuggendo ed è il mio unico pensiero. Trovare un luogo sicuro dove nascondermi. Cambiare nome, trovare una città dove non mi conosce nessuno. Sono innocente ma non ricordo nulla. Mi hanno accusata di omicidio plurimo premeditato, ma io ricordo solo il momento in cui mi sono svegliata con in mano un coltello insanguinato e il corpo di mia madre e di mio fratello immersi in un lago di sangue ai miei piedi. Ero seduta sul divano con lo sguardo imbambolato fisso in un punto, con rivoli di sangue che scendevano dal mio viso e che mi imbrattavano la maglietta bianca. E così mi aveva ritrovata mio padre rientrando da lavoro. Non ricordo molto di quell’istante. Ricordo solo che mi urlò che ero un’assassina. Una lurida assassina. Che mi avevano accolto in casa ed era quello il modo di ripagargli. Mi ricordo il suo volto paonazzo mentre si gettava sulla moglie e sul figlio privi ormai di vita. Mi disse che ero un mostro. Non ero loro figlia. Non ero sua figlia. Ricordo le sirene delle ambulanze e della polizia. Ricordo vago ormai. La mia mente era ed è offuscata. Quasi non avessi memoria. Forse sono davvero un’assassina. Un mostro. Ma di sicuro non ho un famiglia. Non ho genitori. Sono figlia del mondo. Mi portarono in carcere per qualche giorno e poi mi processarono. Pena di morte. Ma io ancora non ragionavo. Vedevo ancora il sangue di Will e Jennifer, sulle mie mani. Ogni volta che chiudevo gli occhi vedevo i loro visi spenti per sempre con un’ultima espressione di terrore dipinta sul viso. Svoltai nello sterrato che portava alla scogliera. Stavo fuggendo. Volevo morire. Dovevo morire. Ma qualcuno credeva nella mia innocenza e mi ha fatta fuggire, pagando il gesto con la sua vita. Secondo lui qualcuno mi voleva fuori dai piedi. Si voleva liberare di me. E ci era quasi riuscito. Frenai di colpo e rimasi nella camaro a fissare la grandezza dell’oceano. Il vento era forte e la salsedine pervase i miei sensi lasciando per un attimo che la mia mente si dimenticasse di tutto. In lontananza lo stridio dei gabbiani. E le urla divertite dei surfisti da tutt’altra parte giungevano alle mie orecchie liberando la mia mente. Questo è il luogo che credevo essere casa mia. Devo fuggire prima che mi trovino. Riavviai il motore e partiì di fretta lasciandomi alle spalle una scia di sabbia e terra.




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