Pairing: KaibaxJounouchi
Avvertenze: Shounen ai, nomi originali e accenni non proprio velati ad
un rapporto sessuale.
Note: Ho scritto questa fanfiction in due ore e poi sono spompata.
Scorrendo nella mia galleria di immagini KaiJyo, ho trovato
un’immagine talmente bella che mi ha ispirata a tal punto da
convincermi a reinterpretarla a modo mio… Questa fanfiction
ne è il risultato.
Glossario (di eventuali parole straniere):
Bonkotsu:
mediocre, comune, proletario (questo è il modo che ha Kaiba
di chiamare Jounouchi nella versione originale dell’Anime)
Spoiler: Fino alla Terza Serie, ovvero fino alla sconfitta di Malik.
Disclaimer: Yuugi-ou (Yu-Gi-Oh!) appartiene solo ed esclusivamente a
Kazuki Takahashi, che detiene i diritti su vita e morte di ognuno di
questi personaggi. Io li utilizzo solo per mostrare al pubblico quello
che l’autore ha lasciato solo accennato.
Ringraziamenti: A Kazuki Takahashi, senza il quale questi personaggi
neanche esisterebbero e ad una meravigliosa fanfiction di Death Note
(di cui, sfortunatamente, non ricordo né titolo,
né autore) che mi ha ispirato per scrivere questa.
A mia sorella, a cui dedico, oltre questa One-shot, anche un mio
ritorno (speriamo non momentaneo) nel mondo delle fanfiction.
-:-:-:-
Nell’aria c’era qualcosa di irreale, come in un
sogno.
No, non come in un sogno. Era più simile a quella sensazione
morbida e soffusa che si prova nella dormiveglia, in quel mondo forse
più magico del sogno, quando la coscienza è
consapevole ma non desidera staccarsi dal tepore del sonno, quando le
forze sono in bilico, e ci si fa cullare, dolcemente, da
quell’incertezza del corpo e della mente.
Il sole penetrava dalla finestra aperta senza l’irruenza
della sua luce, ma in modo soffuso, regolare, quasi temesse di rompere
l’incanto di quel momento, desideroso invece di mischiarvisi,
di essere anch’esso parte di quella nicchia di infinito.
Benché lo spazio tra i loro corpi fosse minimo, entrambi
sentivano che tra loro era aperta una voragine; nemmeno il labile
contatto delle loro schiene riusciva a cancellare questa sensazione. Se
ne stavano lì, in silenzio, persi nei propri pensieri. Lo
sguardo di uno rivolto all’immensità del mondo,
quello dell’altro alla voluta di fumo sinuosa e soffice che
andava a contorcersi e sciogliersi insieme a mille altre, ignara e
indifferente, come il mondo che riprendeva vita, come sempre,
disinteressato agli affanni degli uomini.
Uno dei due allungò la mano verso il comodino, lentamente,
ed afferrò un pacchetto di sigarette. Se ne portò
una alle labbra e l’accese, osservando la sommità
incandescente e il fumo che sembrava andare a mischiarsi con quello del
mondo sotto di lui. Dietro di lui sentì l’altro
soffiare aria fredda sulla propria tazza.
Gliel’aveva portata lui, quella tazza. Dopo quella notte si
era sentito in dovere di farlo.
Si erano incontrati quasi per caso, e qualcosa aveva spinto quel
ragazzo tra le sue braccia. Nemmeno lui sapeva bene cosa fosse stato.
Forse proprio quell’incontro che avevano disputato
l’uno contro l’altro, prima delle finali, quella
sensazione di impotenza e di sconfitta che, poco a poco, sembrava
volersi far largo nel suo spirito, che voleva intrufolarsi nelle sue
vene e scorrere nel suo corpo come il suo stesso sangue. Nonostante
fosse riuscito a reprimerla, lei era rimasta, implacabile, a torturarlo
con l’immagine del suo alleato più prezioso
schierato a fianco del suo rivale.
Oppure era stato prima, quando la paura che quel ragazzo avesse
sconfitto Dio, quando lo stupore e l’incredulità
gli avevano attanagliato le viscere, quando tutto lo aveva costretto ad
ammettere che quel ragazzo si guadagnava a pieno il titolo di
duellante. Ma in quel momento, per il ragazzo, era giunta la disfatta.
Non era riuscito a terminare, non era stato in grado di portare avanti
l’attacco; ed era caduto, miserevolmente, ed era rimasto a
terra, senza l’alito di un respiro.
Quasi morto.
La debolezza che il ragazzo aveva dimostrato nel non riuscire a portare
a termine il proprio attacco aveva perso improvvisamente di valore. Il
risultato finale, la sua disfatta, nulla aveva più senso. Il
ragazzo aveva vinto, anche se non ufficialmente. Aveva sconfitto Dio.
E per questo lui lo voleva.
Inconsciamente, nel suo essere, l’idea era nata e si era
formata, era cresciuta, si era sviluppata, si era nutrita di immagini
che il sogno misericordioso porta con sé e poi fa
dimenticare, lasciandosi dietro una scia di gioia e malinconia
impossibili da rintracciare ed identificare, ma che restano salde
nell’anima, a scaldarla.
Lo aveva trovato, quella sera e gli era parso irresistibile, una luce
iridescente che brillava al di sopra delle altre, al di sopra del suo
eterno rivale, al di sopra dei pensieri di una vita. Non era stato il
suo aspetto – mediocre, comune – quanto
un’energia inarrestabile sprigionata dai suoi gesti e dalle
parole che lui non riusciva a sentire. Quella sera decise che lo
avrebbe avuto.
E lo prese.
Lo trascinò quasi a forza nella sua macchina, ignorando le
lamentele, e lo portò a casa sua, nel suo letto. E lo fece
suo. Lo fece suo tra gli ansiti e i gemiti, tra le grida e i baci, tra
lo sfiorarsi di pelle contro pelle e l’incrociarsi delle dita
con le dita. La propria mano in quella dell’altro. La mano
dell’altro nella sua.
Si erano addormentati insieme, l’uno accanto
all’altro, in silenzio. Non c’era bisogno di
parole, non c’era bisogno di spiegare nulla. Tutto era
chiaro. Tutto era come doveva essere. La mattina, quando lui si sarebbe
svegliato, sapeva che sarebbe finito tutto.
Sapeva che il suo corpo sarebbe stato soddisfatto, che il desiderio
sarebbe stato appagato: come un bambino che smania per un giocattolo
irraggiungibile e che, una volta che ha coronato il suo più
grande sogno perde interesse, e se ne dimentica, tornando alla sua vita
di sempre.
Ma non era andata così.
Quando aveva aperto gli occhi, quando se l’era trovato
accanto, addormentato, aveva desiderato averlo di nuovo. La forza di
quel pensiero l’aveva costretto ad alzarsi dal letto e a
gettarsi sotto la doccia, nel tentativo di reprimere, nel tentativo di
dimenticare. Ma quel pensiero ritornava, sempre più potente,
sempre più devastante ogni volta che cercava di gettarlo nel
profondo della sua anima.
Aveva fatto colazione in silenzio, sperando di non svegliare suo
fratello e poi, quando era in procinto di tornare nella sua camera, era
tornato indietro e aveva riempito una tazza di caffé. Non
c’era malizia in quel gesto, non c’era seduzione.
Era un bisogno suo, per non sentirsi un mostro, per non sentirsi sporco.
Era tornato in camera e gli aveva lasciato la tazza bollente tra le
mani. Lui forse l’aveva ringraziato. Aveva aperto
l’armadio, aveva indossato un paio di calzoni scuri e, con la
camicia sulle spalle, si era seduto sul bordo del letto, la schiena
dell’altro ragazzo appoggiata alla sua.
L’aria aveva iniziato a muoversi. Dall’altra stanza
entrambi poterono sentire rumori dal bagno, segno che l’altro
abitante dell’abitazione si era svegliato. E con lui si stava
svegliando il resto del mondo.
Inspirò una lunga boccata dalla sua sigaretta. Doveva
prendere una decisione e doveva farlo in fretta. Si mosse appena dalla
sua posizione per spegnere la sigaretta nel posacenere accanto a lui e
prese la sua decisione.
« Bonkotsu… »
Non era un’offesa, questa volta. Era solo un nome. Un modo
per chiamarlo, un nome come un altro. Un modo per sapere sempre chi
era, in una moltitudine di nullità.
« Lo so, Kaiba. Ho capito. »
Rimasero entrambi in silenzio. Il bonkotsu
si allungò verso il comodino e vi depose la tazza ancora
piena di caffé. « Per me va bene. »
Per la prima volta in quella mattina i due si guardarono in viso. E
c’era tutto. Non c’era veramente bisogno di parole,
tra loro. Capirono tutto.
Si baciarono, lasciando fuori l’immensità del
mondo e permettendo solo ad un’ignara ed indifferente voluta
di fumo biancastro di essere l’unica testimone di
ciò che stava accadendo.
Testimone di quella nuova unione.
Fine
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