Sei sempre nel mio cuore, tesoro mio di Lechatvert (/viewuser.php?uid=453208)
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Il telefono squilla.
Squilla per qualcuno, squilla a vuoto, questo non lo sa nemmeno lui.
Però continua a squillare e si fa sempre più
insistente, tanto che Gilbert è costretto a lasciare il suo
giaciglio e tornare nella cantina per alzare quella stramaledetta
cornetta rossa.
« Pronto? »
Sbadiglia, assonnato. Sono due notti che non riesce a dormire e di
certo tutto quell’allegro tintinnare dal sottoscala non ha
aiutato.
‘Gilbert?
Gilbert, sei tu?’
La voce di sua moglie gli arriva flebile, spezzata.
Con la sigaretta ancora in bocca, l’uomo storce le labbra.
« Martine », chiama, sottovoce.
‘Sono tre
giorni che non ti fai sentire.’
Lo rimprovera, sbottando con quel suo accento francese che una vita
intera a New Orleans non è servita a toglierle.
« E tu sono tre anni che non ti fai vedere ».
Le ricorda lui, tirando un sospiro esasperato.
‘Contattarti
diventa ogni giorno più difficile.’
« Sì, immagino sia a causa della guerra. Adesso le
tengono d’occhio, le chiamate che vengono dalla Germania
».
La voce di Martine si fa preoccupata, il suo tono si abbassa e acquista
una certa nota di dolcezza che, Gilbert né è
sicuro, non è che la calma prima della tempesta.
‘Stai bene?’,
gli chiede, gentile, e lui la immagina in piedi con la spalla magra
appoggiata al muro di casa, con la camicia da notte lunga fino alle
ginocchia e le dita che giocherellano con i riccioli castani.
Sospira, estraendo un coltello dal fodero che porta legato alla cintura.
« Sto bene, sto bene », risponde, calmo, mentre con
la camicia lucida l’arma. « Tu, piuttosto?
»
Se la rigira tra le mani un paio di volte, osservando il suo profilo
esausto nel riflesso dell’acciaio.
‘Sì
… in realtà, è stata Alice a chiedermi
di chiamarti.’
Silenzio.
Per poco il coltello non si sottrae alla sua presa.
« Alice … parla? »
‘Da qualche
mese, sì.’
Gilbert spalanca gli occhi, sorpreso. Quanto a lungo è stato
lontano dalla sua famiglia, se quando aveva lasciato i suoi figli a
casa neanche camminavano?
‘Papà?’
La voce dall’altra parte de filo sa di tenerezza e di
coraggio. È morbida, come quella di Martine, e ha in
sé la stessa grinta, sebbene rimanga sommessa e flebile come
quella di Gilbert.
Intenerito, l’uomo si affaccia al corridoio della cantina,
muovendo qualche passo verso l’unica lampadina accesa che
dona all’ambiente un po’ di luce.
Guarda l’uomo legato alla sedia a ridosso del muro, lo scruta
attraverso i suoi occhi scuri e gli mostra il coltello lucente con un
ghigno.
« Alice, tesoro! Come stai, tesoro mio? »
Non stacca gli occhi di dosso al prigioniero, che ribatte con uno
sguardo carico d’astio e terrore.
‘Bene. Oliver
adesso va a scuola, io sto ancora con la mamma …’
« Ti stai prendendo cura di tuo fratello? »
Sorridendo appena, Gilbert si avvicina al prigioniero e gli passa la
lama gelida sulla gola. Piano, con delicatezza. Come se stesse
accarezzando la guancia di sua moglie.
‘Sì,
più o meno. Dice che ci hai abbandonati.’
Un istante di esitazione nella voce di Alice. ‘Che non mi volevi più
bene e te ne sei andato lontano.’
L’uomo arriccia il naso, soffiando via dalla fronte una
ciocca di capelli castani.
« Non sa quello che dice, Alice ».
Si piega sulle ginocchia e soffia sul collo del prigioniero, ascoltando
il suo cuore battere talmente veloce da mozzargli il respiro.
« Amo te, amo lui e amo la mamma ».
‘Davvero?’
Una goccia di sudore percorre il contorno della gola del prigioniero,
infrangendosi sul colletto della sua camicia logora.
« Davvero ».
Gilbert china il capo, come a voler commemorare quella goccia
coraggiosa, e alza di nuovo il coltello. Quando torna alla sua
posizione originaria, intercetta di nuovo lo sguardo del prigioniero.
Rosso come il sangue secco che ha sulle guance, come il telefono appeso
alla parete, come la sedia su cui è legato.
Silenzioso, Gilbert gli accarezza i capelli con la punta delle dita.
« Alice, adesso devo andare », mormora, sereno.
La voce della bambina si incrina in un singhiozzo.
‘Mi pensi,
papà?’
La lama del coltello viene spinta velocemente contro la gola del
prigioniero, scivola sulla sua pelle con un sibilo sommesso, lasciando
nell’aria qualche goccia di sangue.
In un istante, la carne si lacera e l’uomo muore con un
lamento sordo che sa di nuovo, svanendo per sempre sotto la flebile
luce di quell’unica lampadina.
Adesso, davanti a Gilbert non c’è più
una persona. C’è un guscio vuoto, rotto,
squarciato. Tutto ciò che aveva di umano si è
dissolto con quel grido che non aveva fatto in tempo a lasciare la
bocca.
‘Papà?’
Alice lo riporta
improvvisamente
alla realtà.
‘Mi pensi,
papà?’
Gilbert sorride; stavolta si lascia sfuggire uno sbuffo intenerito.
Che bella voce ha, la sua bambina.
Osserva il coltello, le sue mani sporche di sangue, la carne morta
ancora legata alla sedia.
« Ma certo che ti penso, Alice », risponde, posando
la sua arma per poi tornare verso il muro dove il telefono è
appeso.
La tensione del filo si allenta sempre di più fino a che
Gilbert non si trova davanti alla porta del sottoscala.
Allora china il capo, rivolge le ultime raccomandazioni alla figlia e
riaggancia la cornetta al muro, tagliando quella conversazione con un
tonfo sordo.
Si guarda le mani, entrambe sporche di sangue, e sorride.
« Ma certo che ti penso, Alice », mormora, quasi a
se stesso. « Sei sempre nel mio cuore, tesoro mio ».
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Note d'autore
Tempo addietro, Gilbert era un mio caro personaggio che per vari motivi
ho abbandonato.
Non so perché, proprio stasera, mi sia venuta voglia di
tornare a scrivere di lui. In questi panni, poi. Nelle mie storie
è stato tante cose, ma mai assassino.
Bé, penso che la vita cambi un po' tutti.
E' una oneshot senza pretese, scritta giusto per togliersi lo sfizio e
non vederla a marcire incompleta tra i documenti word che ho sul
computer.
Se a qualche anima piacerà, non ne posso essere che felice ♥
Tanti biscotti,
Lechatvert
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