Callas è la mia sveglia.
Lo so che dare un nome proprio agli oggetti è sintomo di
profonda infermità mentale, ma per la mia sveglia ho un amore quasi viscerale e
ho dovuto darle un riferimento anagrafico. Comunque, Callas non ha suonato,
stamattina. Generalmente non è così strano che una sveglia non suoni, ma nel
mio caso è diverso. Perchè Callas non è una sveglia come le altre. Sin da
quando ero piccola, il risveglio è sempre stato l’anello debole della mia
giornata: il mio sonno è paragonabile a una sorta di stato comatoso, una
narcolessia catatonica decisamente patologica. Storicamente, per strapparmi
dalle braccia di Morfeo mia madre ha dovuto usare metodi impossibili, dal
megafono alla scoperchiatura invernale delle coperte. Invano. Mi ha confessato
che in tempi non sospetti aveva addirittura accarezzato la prospettiva di
ingaggiare la banda cittadina completa di sezione fiati.
Io ho risolto il problema alla radice andando ad abitare da
sola il Natale scorso, supportata dall’arrivo in famiglia di Callas che ha
brillantemente risorto i miei problemi di ritorno mattutino dall’aldilà. Callas
possiede una pila atomica che non si scarica nemmeno nel bel mezzo di una
tempesta magnetica nucleare; Callas si congiunge astrofisicamente al satellite
che orbita intorno a Nettuno per non sbagliare l’orario mai nemmeno di un microsecondo,
superando gli ostacoli di fusi orari, ore legali, meridiani di Greenwich, anni
bisestili e previsioni astrologiche avverse; Callas ha come suoneria l’Inno
nazionale sparato a 110 decibel, uno in meno dell’ultimo concerto live dei
Metallica e riesce a svegliare tutti i residenti dell’isolato.
Eppure, nonostante tutto questo ben di Dio, stamattina Callas
non ha suonato.
Così, senza nessun motivo apparente: la sua pila atomica non
ha smesso di funzionare atomicamente, il satellite non è stato abbattuto da un
meteorite, Urano e Plutone erano in trigono con Mercurio così da non dare
fastidio a nessun segno zodiacale, insomma non è successo niente di niente se
non che Callas non ha suonato. Quando l’ho guardata aprendo l’occhio destro (il
sinistro è rimasto chiuso con la saldatura a stagno fino al mio arrivo in
ufficio) segnava imperterrita le 08:17 e mi informava con silenziosa grazia che
avevo 13 minuti per alzarmi, vestirmi, lavarmi, truccarmi, pettinarmi, fare
colazione, percorrere i 4 chilometri che mi separavano dall’ufficio e ricevere
puntuale la delegazione dei nostri soci nipponici in arrivo freschi freschi
dalla sede di Okinawa.
Dopo aver cacciato un urlo degno della vera Callas, mi sono
catapultata in bagno modello missile terra-aria e mentre mi lavavo i denti
facendo contemporaneamente pipì ho constatato affranta che non mi ero depilata
e il collant non avrebbe coperto la foresta equatoriale sulle mie gambe; ergo,
niente gonna nuova che avevo pagato come un trapianto renale, ma pantaloni semi
sobri gessati che segnavano i fianchi. Conseguenza, 10 punti secchi sullo
schifometro giornaliero. Arrivata davanti allo specchio mi sono anche dovuta
rendere conto che non mi ero lavata i capelli (uno dei miei pochi punti di
forza estetica) i quali pendevano come liane nerastre e putrefatte intorno al
viso; ergo, coda di cavallo e altri 10 punti in più sullo schifometro. Inoltre,
non avevo tempo per truccarmi; ergo e tergo, altri 10 punti di schifometro.
Anzi, con le due Vuitton che mi ritrovavo parcheggiate sotto agli occhi, ho
dovuto aggiungere un rispettabilissimo 20.
E non era nemmeno finita lì: mentre lo infilavo freneticamente
nell’asola, si è rotto il bottone sul seno della camicia nuova; ho elencato di
fila cento anatemi e nel frattempo mi si è rotto un tacco dell’unico paio di
scarpe da femmina che possedevo. Ho guardato quel dannato cilindretto di legno
con la stessa meravigliata concentrazione con cui guarderei un pezzetto di
criptonite. Ma a conti fatti non avevo tempo per dire il rosario che mi era
sorto spontaneo alle labbra: così mi sono infilata le scarpe da tennis (che stavano
da Dio con i pantaloni gessati e la camicia senza bottone! Altri 100 punti
sullo schifometro, olè!) e mi sono catapultata fuori di casa.
Ovviamente, pioveva e io non avevo l’ombrello. Mi sono infilata
dentro la mia Punto e sono partita col semaforo rosso, beccandomi dagli altri
automobilisti tante di quelle dita medie alzate che avrei potuto farci una
collezione Primavera/Estate.
Destinazione, ufficio.
* * *
L’agenzia per cui lavoro si compone di appena sei impiegati
sparsi in due locali al primo piano di un sobrio e signorile palazzo d’epoca;
al piano terra c’è un fioraio mentre al secondo piano c’è l’appartamento di una
arzilla vedova fornita di cane microscopico e peloso che piscia invariabilmente
sul nostro pianerottolo. Stiamo giusto aspettando i finanziamenti dei nuovi soci
giapponesi per espanderci e trovare finalmente un posto più consono. Personalmente,
non mi dispiace stare lì, puzza di pipì canina a parte: questo è più un
problema di Sandro, il mio capo, che è terrorizzato all’idea di fare brutta
figura con i nuovi soci nel caso la vedova Ganassi dovesse transitare sulle
scale col suo carlino Gepy proprio all’arrivo della delegazione nipponica.
Comunque sia, sono arrivata in agenzia alle 08:35 così
trafelata che per poco non ho sputato un polmone ai piedi di Sandro che mi
aspettava appoggiato alla scrivania con le braccia incrociate e lo sguardo da piromane.
Sono partita in quarta a parlare a raffica neanche avessi in bocca un
mitragliatore.
“Sandro scusami so di essere in ritardissimo ma stamattina
la sveglia non ha suonato e mi si è rotto un tacco e dopo chiedo a Teresa se ha
l’ago e il filo così cucio il bottone e giuro di non tramortire nessun
giapponese con una tettata, dammi solo due secondi per…”
“D’Angelo.” ha detto semplicemente lui, e col solo tono di
voce ha già spiegato tutto quello che c’era da spiegare.
Che ero in ritardo; che quello era l’unico giorno dell’anno
in cui essere in ritardo era punibile con la fustigazione; che ero uno schifo,
conciata così; che dovevo ricordare il mio contratto a tempo determinato le cui
possibilità di essere trasformato a tempo indeterminato erano direttamente
proporzionali alla quantità di trucco sulla mia faccia, e cioè inesistenti; che
non sarebbe importato nemmeno se il motivo del mio ritardo fosse stato dover
subire un trapianto di cuore, tanto la sostanza non sarebbe cambiata: ero
comunque inevitabilmente e incorruttibilmente nei guai.
Mi salvava solo il fatto di essere l’unica dell’agenzia a sapere
due parole due di giapponese. Ovviamente, il mio capo non sapeva che le avevo
imparate traducendo Manga e che la maggior parte delle locuzioni che conoscevo erano
frasi fatte tipo: “Passami il wasabi” e “Che bella la tua katana”. Ma al
momento non mi sembrava né il tempo né il luogo adatto per informarlo.
“Scusatemi” ho balbettato traboccante sincero cordoglio
“Sono davvero…”
“Zitta” mi ha interrotto Sandro lapidario “Oggi c’è lo
sciopero dei mezzi pubblici e i giapponesi sono rimasti bloccati all’albergo a Malpensa.”
Un’onda anomala di sollievo mi ha travolto facendomi quasi
tremare le gambe: momentaneamente ho quasi dimenticato che giorno fosse…
“In compenso il loro PR è già un’ora che ti aspetta per
definire l’incontro ed è arrabbiato come un toro da combattimento. Se non ti
sbrighi subito a incontrarlo, gli permetterò di infilarti un chilo di riso nel
retto coi bastoncini, chicco per chicco. Mi sono spiegato?”
Io sono impallidita e poi sono diventata color cenere: non
per i chicchi di riso nel retto, ma per i bastoncini.
“Certo” ho detto scattando come una molla “Tempo un attimo
per il bottone…”
Sguardo assassino di Sandro: ho dedotto in fretta che il mio
bottone avrebbe dovuto aspettare. PR nipponico di merda.
“Dov’è?” ho concluso rassegnata.
Sandro mi ha risposto dandomi anche l’indirizzo mentre io facevo
un rapido dietrofront e quasi sbattevo contro la porta a vetri dell’ingresso.
“Ti consiglio di arrivarci in volo entro dieci minuti fa.
Sempre se non vuoi avere a che fare con quel famoso chilo di riso.”
Sandro non ha nemmeno finito la frase che ero già fuori.
* * *
Come cazzo si chiamava l’hotel? Sull’orlo delle lacrime ho guardato
i due portoni affiancati davanti a me: Hotel Semiramide e Hotel Artemide. Quale
dei due mi aveva nominato Sandro? Cazzo cazzo cazzo! Lo sapevo che una era una
divinità egizia e l’altra era greca, ma i nomi finivano entrambi per “mide”,
che era anche l’unica informazione che avevo memorizzato. Che dovevo fare?
Chiamare Sandro per esibirgli su un piatto d’argento la mia totale
incompetenza, nemmeno a parlarne. Anche perché nell’uscita a razzo da casa avevo
dimenticato il cellulare sul comodino… e il cervello nella cervelliera, ho pensato
lugubremente affranta, ma almeno sapevo che lì era al sicuro. Decisione
repentina (anche perché pioveva che Dio la mandava e davanti all’Artemide c’era
una pozza d’acqua che sembrava il lago d’Iseo): entrare al Semiramide e guardare
se c’era in giro un nipponico incazzato come una biscia con in mano un chilo di
riso e un paio di minacciose bacchette. Se sì bene, se no ripetere la
performance all’Artemide. Dopo aver trovato una canoa per attraversare il lago
d’Iseo, ovviamente.
Sono entrata al Semiramide, trafelata e gocciolante come un
turista tedesco in agosto; mi sembrava un tantino meno chic dell’Artemide, ma
sbirciando nella lounge ho intravisto, seduto solitario a un tavolino e
chiaramente in attesa, un tizio dagli inconfondibili occhi a mandorla. Mi sono
sparata come un proiettile verso di lui, lasciando dietro di me le impronte
delle mie scarpe da tennis gocciolanti.
“Buongiorno, ehm, volevo dire ohayou, scusi…” ho balbettato
subito trafelata allungando una mano.
Lui ha alzato gli occhi su di me e io mi sono più o meno
ingessata sul posto come se Silver Surfer mi avesse sparato addosso il suo
alito congelante: non avevo mai visto niente di simile.
Dalla mia esperienza passata avevo concluso che i giapponesi
erano una razza di semignomi itterici dagli occhietti cisposi, l’alito
cementizio e i piedi più puzzolenti del creato, fauna africana compresa; questo
giapponese invece era tutto fuorché gnomo.
La definizione figo da paura rendeva molto meglio il
paragone: un tizio come quello si mangiava schifometri a colazione, altro che!
Era seduto al tavolo e sorseggiava un caffé ma si vedeva dalla postura delle
gambe che era alto, snello e elegante. Sembrava un modello di Armani, bello da
far tirare un colpo. Aveva una bocca che sembrava quella di Johnny Depp, un
nasino disegnato con la squadra e i capelli neri un po’ lunghi tagliati di
fresco da un hair stylist inglese. E profumava di lavanda e tabacco, una cosa
da farsi venire la bava come i San Bernardo. Mentre io rimanevo a bocca
semiaperta come sotto l’effetto di una repentina trombosi al cervello, lui mi
squadrava da capo a piedi con sfacciato interesse. Uno sguardo insondabile e
allo stesso tempo quasi tangibile, come una carezza. O meglio, una manata:
dall’espressione della sua faccia, non sembrava affatto contento di me.
“Mi manda l’agenzia.” ho esordito io allungando una mano in
fretta e nel frattempo inciampando in un osso di formica, rischiando di
finirgli addosso; lui ha frenato la caduta prendendo la mia mano molliccia e
umida come un merluzzo al vapore con una stretta salda, asciutta, da vero uomo.
Io devo avere fatto una faccia particolarmente da sarago in quel momento, ma di
meglio non riuscivo di sicuro a fare. Quel tizio era affascinante in maniera
assurda e come da copione, la mia goffaggine è salita esponenzialmente col
salire dell’imbarazzo; per reazione ho decapitato di netto il bricco del latte
sul tavolo.
“Scusi.” ho balbettato raddrizzando il bricco e urtando così
il caffé, rovesciandolo.
“Oh, caz… ehm, mi scusi di nuovo, sono costernata…” ho ragliato
cercando di raccattare la tazzina e rovesciando così di nuovo il bricco del
latte.
“Oh, merda, mi dispiace…”
“E’ meglio se ti immobilizzi un secondo” ha detto lui con
voce irritata in un italiano perfetto “Siediti, prego.”
Mi sono seduta di schianto, modello colata lavica: dovevo essere
un mostro, ho pensato vagamente vergognosa cercando di capire con un rapido
tocco come si presentava la mia testa bagnata. Un disastro: i capelli erano
così piatti da far sembrare che un bovino adulto mi avesse appena leccato il
cranio tanto che lo schifometro aveva sicuramente raggiunto la mesosfera.
D’altronde fuori pioveva, io non avevo l’ombrello e avevo parcheggiato nel
Nebraska perché lì intorno non si trovava un posto nemmeno a prostituirsi.
“Sono davvero spiacente per il ritardo” ho iniziato a dire
tutto d’un fiato e benché cercassi disperatamente di contenerla, sentivo la mia
logorrea cronica premere dietro le labbra, invadente e inevitabile come un
fiume in piena “So che non ci sono giustificazioni valide, professionalmente
parlando essere in ritardo è un atteggiamento così tipicamente italiano che non
vorrei che credeste che ho preso questo impegno sottogamba, cosa che
naturalmente non mi permetterei mai di fare, ma stamattina Callas non ha
suonato…”
Prima gaffe: cosa cazzo ne sapeva lui di chi era Callas?
“Cioè, la mia sveglia, l’ho chiamata Callas… “
Così anche lui poteva sapere con chi aveva a che fare: una
malata di mente che dava i nomi alle cose.
“C-cioè, non che io dia il nome a tutti gli oggetti che ho
in casa, sia chiaro, solo la sveglia…” e il frigo che si chiama Rodrigo,
insieme a Beatrice la lavatrice ma questo grazie a Dio sono riuscita a non
dirlo “Comunque non ha suonato, mi dispiace sono in ritardo mostruoso e ehm…”
Avrei dovuto dire qualcos’altro ma il tizio si era messo a
guardarmi con la testa inclinata da un lato, gli occhi a mandorla scintillanti
e un sorrisino storto su quello strumento erotico che aveva per bocca: è stato
lì che la mia lingua ha perso il contatto con il cervello e mi sono ammutolita
di colpo come se mi avessero staccato la spina.
“Sicura che ti abbia mandato l’agenzia?” ha chiesto con voce
severa.
“Ehm, sì, ehm…” avevo un caldo mostruoso, i suoi occhi
addosso erano peggio di una coperta di pile!
Lui invece sembrava a ogni secondo più freddo.
“Scusa se te lo dico, ma siamo già in ritardo e non mi
sembra il caso di perdere altro tempo: non credo che tu sia la persona adatta
per il lavoro di oggi.”
L’ha detto con una tale tranquilla convinzione che ci ho
messo un po’ a capire il senso delle sue parole: mentre i miei neuroni
lavoravano affannosamente, lui aveva già tirato fuori il cellulare e componeva
un numero. Stava chiamando Sandro per darmi il benservito, era ovvio: come
dargli torto? Si aspettava una PR professionale ed elegante e si era trovato
davanti una sottospecie di rospo in scarpe da tennis con una leccata di bove al
posto dei capelli. Logico che mi ritenesse del tutto inadeguata!
“Aspetti!” ho strillato afferrandogli una mano.
Lui non ha gradito la mossa: ha alzato un sopracciglio ed è
stato come si mi stesse affettando la faccia con lo sguardo.
“La prego non lo faccia” ho balbettato io prima che mi
venisse meno il coraggio “So di non sembrare al momento ciò che lei si
aspettava, e sono decisamente partita male con le presentazioni, ma le posso
garantire… le posso giurare che sono esattamente la persona più indicata per
questo tipo di lavoro. Lei non immagina… non ha idea di quanto io abbia sudato
per essere qui, adesso. Non si lasci ingannare dalle apparenze: sono una
tosta. Sono brava nel mio lavoro: in agenzia, nessuna è meglio di me. Le chiedo
solo una possibilità. Mi… mi metta alla prova. La prego.”
Non so come ho fatto, ma mi sono sembrata convincente: e
anche il figo nipponico deve essere rimasto impressionato perché mi ha fissata
a lungo, serio, con quegli occhi di velluto che mi facevano venire i brividi.
“Come ti chiami?” ha chiesto poi a voce bassa e vibrante,
bello come un sol levante.
Non me lo ricordavo: e se mi fossi azzardata a guardare
ancora un po’ quella bocca, mi sarei potuta scordare persino di dover
respirare!
“Oh, ehm… Luana d’Angelo” ho risposto infine: il mio nome mi
ha sempre fatto schifo, è così tipicamente da pornostar che è dall’età della
ragione che tento di mimetizzarlo. “Ma per favore, mi chiami Lu.” ho detto
infatti precipitosamente.
Forse in giapponese il mio nome risultava più simpatico del
previsto perché la faccia del tizio si era aperta in un sorriso che lo aveva reso,
se possibile, ancora più gravemente bello.
“Che coincidenza” ha gorgogliato serafico “Puoi anche non
crederci, ma io mi chiamo Li.”
Li e Lu. Perfetto. Orribile. Potrebbe essere un nuovo
simbolo universale, come lo yin e lo yang.
“E va bene, mi chiami Luana.” mi sono arresa già depressa.
Li ha riso buttando indietro la testa e io, di colpo e senza
nessun preavviso, mi sono innamorata di lui.
NOTE DELL’AUTRICE:
Per ora nessuna nota, ma il prologo era troppo corto per
lasciarvi subito a bocca asciutta… alla prossima settimana col secondo
capitolo!!